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La crisi di AirBnb
La più grande piattaforma di hosting è in crisi. E rende più evidente che dietro la retorica del capitalismo digitale ci sono sempre lo sfruttamento e la disuguaglianza
Il cambiamento è iniziato davvero l’anno scorso, quando gli host di Airbnb hanno riferito che le prenotazioni erano in calo, a volte generando addirittura un calo del 50% rispetto all’anno precedente. Il motivo principale sembrava essere il rapporto qualità-prezzo. «Airbnb ha subito un calo eccessivo – si è lamentato un utente su X – Nessuno continuerà a pagare 500 dollari per stare in un appartamento per due giorni quando può pagare 300 dollari per un soggiorno in un hotel con piscina, servizio in camera, colazione gratuita e pulizia quotidiana».
Il modo in cui Airbnb viene soppiantato da quella reliquia del ventesimo secolo conosciuta come hotel è una buona lezione di capitalismo. In particolare, è un promemoria per ignorare le promesse perenni secondo cui le ultime innovazioni del mercato riformeranno il capitalismo in modo che funzioni allo stesso modo per le aziende e per tutti gli altri.
Ricapitolando, Airbnb è stato fondato nel 2007 da una coppia di fratelli di San Francisco che affittarono i materassi nel loro appartamento per pagarsi l’affitto e decisero che poteva diventare un business. Io stesso sono stato uno dei primi a usarlo. Dal 2011 al 2015, ho lavorato come host Airbnb per contribuire a pagare l’affitto del mio appartamento di Chicago dopo essere stato licenziato dal mio lavoro. A volte affittavo tutta la mia casa per 100 dollari a notte e me ne andavo in una fatiscente casa in affitto da 40 dollari a notte.
Durante quello stesso periodo, Airbnb è esploso in popolarità ed è cresciuto da piccola strat up a grande trasformatore del settore dell’ospitalità. All’improvviso, è stata una delle poche aziende tecnologiche a guidare l’emersione della cosiddetta «sharing economy». Esperti, giornalisti e politici hanno annunciato l’ascesa di Airbnb, Uber, Instacart e simili come un’alternativa rivoluzionaria all’etica del passato orientata al consumo e controllata dalle aziende – non importa che anche queste fossero aziende. Il titolo del Time «Come la Gig Economy può salvare il capitalismo» era tipico delle previsioni utopistiche del centrosinistra, adulatore della tecnologia.
Nel suo libro del 2016 The Sharing Economy, il professore di economia della New York University Arun Sundararajan preferiva il termine «crowd-based capitalism» e sosteneva che rappresentava «un’interessante via di mezzo tra capitalismo e socialismo». Diceva che le reti peer-to-peer avrebbero prodotto la fine della distinzione tra mercati e gerarchie e che «la democratizzazione delle opportunità economiche promette una crescita inclusiva».
Ma il capitalismo basato sulla folla, a quanto pare, è solo altro capitalismo. Ora sappiamo anche che il successo della sharing economy era sostenuto dal libero flusso di capitale di rischio a basso costo. Il piano era semplicemente quello di utilizzare prezzi artificialmente bassi e incentivi generosi per creare un’ampia base di clienti, e poi eliminare la concorrenza senza essere costretti a realizzare un profitto. Questa fase, durata all’incirca dal 2012 al 2020, è stata soprannominata «l’era d’oro del Millennial Lifestyle Subsidy» dal New York Times perché ordinare cibo da asporto, un passaggio all’aeroporto o un fine settimana nel loft di qualcun altro a Seattle era economico, ma solo fino a quando gli azionisti e gli investitori di Wall Street non hanno finalmente chiesto a qualcuno di pagare il conto.
Ora, Airbnb si trova in una fase che il giornalista Cory Doctorow ha soprannominato «enshittification» delle piattaforme online. «Una volta che [acquirenti e venditori] sono vincolati, il surplus viene consegnato agli azionisti e la piattaforma diventa un inutile mucchio di merda» scrive Doctorow. Ciò significa che mentre i fondatori di Airbnb dicono di avere un orizzonte temporale infinito per aiutare l’umanità, la piattaforma continua ad addebitare tariffe più elevate e a guadagnare di più, il tutto senza dover fornire agli utenti i servizi e le comodità di un hotel o aderire alle normative (certamente minime) del settore dell’ospitalità e alle garanzie per i lavoratori. Il prezzo delle azioni dell’azienda è aumentato di oltre il 60% quest’anno, sulla base di un recente rapporto sugli utili che ha definito il secondo trimestre di quest’anno quello più redditizio fino a ora.
Ora che ci hanno catturato tutti, il servizio stesso di Airbnb sta finendo male. Nel 2023, Airbnb è disseminato di annunci di case con foto ingannevoli, una lunga lista di richieste e regole da parte degli host, telecamere nascoste e tariffe aggiuntive. Il disordine ha reso il sito quasi inutilizzabile, o almeno inaffidabile, inducendo alcuni sui social media a dichiarare un «Airbnbust» [bust in slang significa fallimento, NdT].
Fai finta di essere un masochista e di voler andare a Orlando per un’improvvisa gita in un parco a tema e di aver bisogno di un posto dove stare. A prima vista, un appartamento in affitto che viene definito un «piccolo angolo di paradiso», un’unità con una camera da letto di nuova costruzione, di proprietà di una famiglia e sito «a 10 minuti dai parchi a tema Universal» per 130 dollari a notte. Sembra decente, vero?
No, se scavi più a fondo. I costi finali sono nascosti finché non premi il pulsante «Prenota». È allora che scopri che prenotare tre notti in realtà costa 600 dollari, non 390, a causa di spese di pulizia di 80 dollari, una commissione di servizio di 66 e delle tariffe aggiuntive. Quel che è peggio è che questo cosiddetto angolo di paradiso è in realtà solo un garage ben mascherato collegato alla casa di qualcuno, cosa che verrai a scoprire solo leggendo una recente recensione di un cliente: «Questo posto è accogliente, ma è un luogo chiuso, un garage quindi non molto privato».
Perché non prenotare invece una camera al Rosen Inn International, un albergo tre stelle con navetta gratuita per i parchi tematici che potrete avere per un totale di 350 dollari per tutta la durata del vostro soggiorno? È un’ accordo’offerta che un numero crescente di viaggiatori sta accettando.
L’economia della condivisione del ventunesimo secolo assomiglia ormai meno al capitalismo del futuro e più al capitalismo del diciannovesimo secolo, quando il lavoro era frammentato e i sindacati organizzati erano ancora un sogno. Nicholas Carr l”ha definita «mezzadria digitale», dove gli appaltatori indipendenti sono aperti a una maggiore concorrenza sui prezzi per il loro lavoro e una piccola minoranza che possiede la fattoria – o in questo caso, la piattaforma – ottiene la maggior parte dei profitti. I progressi ottenuti negli ultimi anni da alcuni lavoratori della sharing economy sono stati quasi tutti il risultato di azioni collettive come scioperi e manifestazioni o di interventi statali come l’espansione delle leggi sul salario minimo nella città di New York e in Francia.
Naturalmente, tutto ciò non significa romanticizzare il settore alberghiero, che è vulnerabile ai monopoli, sfrutta i lavoratori dei servizi con salari bassi e benefit striminziti e vuole spremerci a scopo di lucro tanto quanto chiunque altro nella Big Tech. La conclusione è che i discorsi elevati di Airbnb su «comunità» e «orizzonti infiniti» sono soltanto parole d’ordine di marketing e che, come sempre, nessuna innovazione di mercato può salvare il capitalismo da sé stesso.
*Ryan Zickgraf è un giornalista, vive ad Atlanta. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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