
Anche le hi-tech licenziano
Il mito del capitalismo digitale e della sua crescita infinita si infrange: migliaia di posti di lavoro andati in fumo negli ultimi mesi. Segno di un passaggio di fase nelle forme organizzative e nelle relazioni produttive
Il 20 marzo l’amministratore delegato Andy Jassy ha annunciato ai dipendenti Amazon un nuovo taglio di novemila posti di lavoro. «Questa è una decisione difficile ma che riteniamo sia per il bene della società nel lungo termine». Una settimana prima, il 14 marzo, tramite il blog di Meta, Mark Zuckerberg aveva annunciato una riduzione del personale aziendale di 10 mila dipendenti, il secondo grande taglio di licenziamenti dopo quello a novembre di 11 mila dipendenti, in quello che è stato il taglio della forza lavoro maggiore dalla nascita dell’azienda, così come nella maggior parte delle big tech di questi mesi: Alphabet, la holding che controlla Google, ha annunciato il taglio di 12 mila lavoratori e lavoratrici, cioè circa il 6% della forza lavoro a livello globale; Spotify ridurrà del 6% i suoi circa 9.800 dipendenti; Microsoft ha confermato il taglio di 10mila lavoratori; Twitter il dimezzamento del personale e Amazon il congedo di 18 mila persone.
Tutte le company, nei loro comunicati, riportano narrazioni e motivazioni simili, in quello che Zuckerberg definisce «l’Anno dell’Efficienza»: necessità di ristrutturazione, aggiornamento delle politiche aziendali, periodo di transizione e in generale un senso di ottimismo e rassicurazione, seppur il messaggio di fondo sia accompagnato a un licenziamento di massa. A fare da contorno e da motivazione esplicita, ovviamente è il confronto del periodo attuale, di guerra e inflazione, con il boom che le piattaforme digitali hanno visto durante la pandemia, nella quale gli investimenti e le assunzioni hanno raggiunto livelli non sostenibili in una fase di recessione.
Ma stanno davvero solo qui le motivazioni dietro a una scelta così drastica e storica? Nel 2022 i colossi Gafam (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) – in realtà con l’eccezione di Apple che solo recentemente ha annunciato tagli ma in misura molto ridotta – hanno visto cali nelle rendite, ma di certo non stiamo parlando di aziende così in crisi da essere costrette a ricorrere ai licenziamenti per far tornare i conti. Perché allora i licenziamenti? Per capirlo ho provato a mettere insieme i pezzi, facendomi aiutare da una persona che ha lavorato per anni in una delle aziende colpite dai tagli.
L’effetto valanga dei licenziamenti
Ogni trimestre Google si misura con le aspettative degli investitori (Hedge fund e grandi gruppi di investimento come Vanguard, BlackRock, ecc.), che si attendono una crescita del gettito di circa il 20%. Sebbene tipicamente le aziende tech reinvestano tutto il profitto di anno in anno (dunque non lasciano dividendi agli investitori), questi si aspettano che il valore delle azioni salga seguendo l’aumento del fatturato, e fino al Covid è stato così: il valore delle azioni è cresciuto esponenzialmente di circa il 20% ogni trimestre. Durante il Covid questa crescita si è fermata, per poi esplodere formando una bolla (insieme a tutte le altre tech). Invece dall’inizio della guerra in Ucraina la bolla è scoppiata e le azioni Alphabet sono crollate del 34% (Microsoft -20%, Amazon -45%, Meta -54%). Questo ha creato malumori tra gli investitori, che vedono andare in fumo le proprie aspettative sui profitti. La periodica crescita del valore dell’azienda rappresenta la garanzia per gli investitori che i titoli acquistati varranno di più nel futuro, e se mentre questa crescita mostra un’inversione qualche azienda garantisce più profitti delle altre tagliando personale, anche le altre dovranno fare lo stesso per restare competitive, generando un effetto a valanga.
Detto questo, Alphabet è un’azienda in salute: nonostante l’inflazione, l’aumento del costo dell’energia e le incertezze internazionali, il fatturato dal 2021 al 2022 è aumentato del 10% (crescita sia del core business, ovvero Ads +7%, mentre Google Clouds +37%). Oltre a questo, Google ha una riserva di liquidità di 114 miliardi, a cui può attingere nei periodi burrascosi. Nonostante la salute generale, Alphabet ha però deciso di tagliare i progetti meno remunerativi, e licenziare i dipendenti che lavoravano su di essi. Sfrondando gli investimenti per mantenere solo quelli più remunerativi si riducono i costi, ma soprattutto si lancia il messaggio agli investitori che la corporation è disposta a effettuare tagli del genere quando richiesto. In altre parole, i licenziamenti sono un atto simbolico per dare l’immagine di un’azienda più efficiente. Simbolico, perché con un licenziamento di 12.000 persone Google risparmia 2-3 mld, briciole rispetto alle riserve di liquidità che ha (114 mld). Grossi licenziamenti nel settore erano stati finora riscontrati nel caso di Amazon durante la crisi dot-com del 2000, ricordandoci l’instabilità intrinseca e le crisi ricorrenti legate alla speculazione finanziaria.
Oltre alla competizione sui prodotti, tra aziende tech si aggiunge quella sul mercato finanziario: se una tra Alphabet, Microsoft, Amazon o Meta licenzia, dando agli investitori il messaggio che investire nelle loro aziende sarà più redditizio, anche le altre dovranno farlo per rimanere competitive ed evitare che gli investitori spostino gli investimenti sulle altre aziende, creando così l’effetto a catena a cui assistiamo in questi mesi.
A fare da pecora nera, come già accennato, è stata Apple, che solo negli ultimi giorni ha annunciato tagli ma finora solo per un piccolo numero di persone nei negozi al dettaglio. Le ragioni possono essere varie. Innanzitutto la diversa politica di assunzione durante la pandemia: mentre realtà come Amazon, Meta e Salesforce tra il 2019 e il 2022 hanno aumentato il proprio organico quasi del 100% e Alphabet del 60%, il numero dei dipendenti di Apple è cresciuto solo del 20%. Un’altra ragione è il differente modello di business, affidato anche alle rendite da monopolio su prodotti tecnologici (iPhone, Mac, ecc.) più che sui servizi digitali.
A confutare la tesi dei licenziamenti come riduzione necessaria delle spese, c’è comunque il fatto che mentre avvenivano i tagli al personale le assunzioni continuavano e in misura considerevole. Su Linkedin tra i vari servizi delle società di Mark Zuckerberg sono attive nel mondo 1.666 posizioni di lavoro, mentre in Italia, da metà dicembre a oggi, Meta ha aperto una ventina di posizioni.
Particolarmente significativo è quello che si è verificato in Svizzera, dove la legge incoraggia gli impiegati a eleggere una rappresentanza dei lavoratori (una sorta di Rsu ma senza sindacati). Qui, presso l’ufficio Google di Zurigo, i lavoratori hanno effettuato un sondaggio interno per chiedere chi tra i colleghi fosse disponibile a ridurre il proprio orario di lavoro e il proprio salario per coprire le spese di riduzione richieste dall’azienda. Più di 2.000 membri del personale si sono offerti, rendendo non necessario il licenziamento di circa 400 dipendenti. L’azienda ha però rifiutato, affermando che la società aveva apportato tagli per garantire che il numero di ruoli rimanesse allineato con le sue massime priorità. Per contestare questa decisione, lo scorso 15 marzo 500 persone hanno preso parte a una protesta chiamata dal Syndicom (il più importante sindacato del settore delle comunicazioni) presso l’ufficio di Zurigo, il secondo sciopero in meno di un mese.
Oltre a costituire una decisione aziendale storica, questi licenziamenti hanno avuto un grosso impatto sulla cultura aziendale dei dipendenti Gafam, comportando una generale disillusione verso la narrazione familiare e ottimistica da sempre caratteristica di queste aziende.
La fine della narrazione sulle aziende buone
Per inquadrare il contesto e l’ambiente lavorativo di queste corporation è utile ricordare che il settore tech, anche dovendosi rapportare con una forza lavoro specializzata, ha tradizionalmente trattato con i guanti i propri dipendenti: salari medio-alti, offerte di servizi alimentari e di benessere, uffici provvisti di comfort oltre che una retorica meritocratica con l’intento di indurre un’immagine a-conflittuale rispetto all’azienda e ai propri superiori. Il risultato è un entusiasmo acritico e ingenuo verso il proprio ambiente di lavoro che ha portato a una scarsa o assente forma di sindacalizzazione in questi settori. Un entusiasmo che in questi mesi ha ricevuto un duro, durissimo colpo.
Ansia, depressione, disillusione. I dipendenti delle tech si concentrano sul trattamento «disumano» piuttosto che sull’illegittimità dei licenziamenti. I licenziamenti sono stati eseguiti di notte tagliando l’accesso alla rete. Alcuni dipendenti si sono accorti di essere stati licenziati quando, arrivati in ufficio, hanno visto che il badge non funzionava. Molti hanno visto questo trattamento irrispettoso dopo anni di servizio fedele. L’impossibilità di salutare i colleghi è spesso citata come una delle conseguenze peggiori di questa modalità di licenziamento.
Su questo va fatto notare che mentre i 7000 licenziamenti di Alphabet in Usa sono stati istantanei, grazie alla debolezza delle leggi sul lavoro, gli altri 5.000 che devono avvenire nel resto del mondo seguiranno le leggi locali, talvolta più rigide in materia di licenziamento. Gli uffici più grossi sono nell’Unione europea, Regno unito, Svizzera, India, Sud America, Giappone e per molti dei dipendenti di questi paesi sulla propria posizione lavorativa penzola una spada di Damocle appesa a qualche iter burocratico. Un meme pubblicato su Memegen, una piattaforma riservata ai dipendenti Google, raffigurante Beth di Rick and Morty che nervosamente trangugia un bicchiere di vino, con la didascalia «i Googler fuori dagli Usa», ha ottenuto 6.000 like. Altri meme hanno fatto notare la similitudine tra gli impiegati non americani e il gatto di Schroedinger: impiegato e licenziato al tempo stesso. All’ansia dei dipendenti, l’azienda risponde di usare le risorse interne per prendersi cura della propria salute mentale. Piuttosto che assumersi la responsabilità delle proprie scelte, l’azienda scarica così anche lo stato di salute mentale sui dipendenti. Hai paura di essere licenziato? Prova ad aumentare la tua resilienza!
A Google c’è sempre stata un’identificazione dei dipendenti con la missione sociale dell’azienda. Tanti hanno lavorato sodo, offrendo all’azienda ben più del tempo concordato sul contratto, con l’idea di lavorare per un’azienda che rende il mondo un posto migliore. Questi licenziamenti hanno mandato in frantumi la narrativa dell’azienda buona, e di conseguenza la disponibilità a dare tutto per l’azienda. Crollato il pilastro dell’identificazione tra missione aziendale e individuale, i dipendenti Google si sono trovati spiazzati, e hanno reagito nei modi più diversi: la maggioranza si sente tradita, costretta a guardare negli occhi una realtà che non voleva vedere e, come conseguenza, d’ora in poi percepirà il rapporto con l’azienda come puramente transazionale. Una minoranza è arrabbiata con la leadership: capisce che i licenziamenti non erano necessari, accusa Sundar Pichai di avere ottimizzato per l’interesse di breve termine, distruggendo decenni di cultura aziendale, sente bisogno di solidarietà con gli altri impiegati, di rispetto per gli utenti. Un’altra minoranza, sparuta, in piena sindrome di Stoccolma, è invece rimasta così scioccata che non riesce a capacitarsi e cerca disperatamente una spiegazione che non veda gli impiegati come una risorsa sacrificabile in cambio di qualche punto in più nel valore delle azioni. Emblematici sono i commenti e i post online di alcuni dipendenti licenziati, come il tweet di Jeremy Joslin, ingegnere software di Google: «È difficile per me credere che dopo 20 anni in #Google scopra inaspettatamente del mio ultimo giorno tramite un’e-mail. Uno schiaffo in faccia. Avrei voluto salutare tutti uno ad uno. #layoffs». Così come Clayton Schloss, licenziato a gennaio dopo 11 anni da consulente, che ha scritto un lungo post di frustrazione su Linkedin: «Dopo aver ricevuto la notizia, mi sono sentito come se la mia vita stesse andando a rotoli. Ho perso parte della mia identità dall’oggi al domani e ho messo in dubbio la mia autostima. […] Ho tratto conforto nell’apprendere che le persone che conoscono meglio il mio lavoro (il mio manager e direttore) non avevano idea che stesse accadendo. Qualcuno ai livelli più alti dell’azienda ha costruito un modello, ha eseguito l’algoritmo e ha tirato fuori il mio nome. Ma era ancora emotivamente spaventoso».
È da notare che Google, anche per sostenere la narrativa dell’azienda hacker e ribelle, si è sempre fregiata della radical transparency: le discussioni devono essere libere, non gerarchiche, basate sui dati e i dati devono essere accessibili. In realtà, col crescere dell’azienda, sempre più cose sono diventate segrete ai dipendenti. Su questi licenziamenti si è toccata una nuova vetta: è impossibile ricostruire i dati sui licenziamenti (quali aree, quali ruoli, quali progetti sono stati colpiti). I tool interni sono stati disattivati, forniscono informazioni manipolate o sono corredati di messaggi minacciosi tipo «gli accessi a questo tool sono monitorati: non provare a ricostruire informazioni sui licenziamenti». La posizione dell’azienda è che queste misure servono per garantire la privacy dei licenziati.
I difficili tentativi di sindacalizzazione
Questa situazione inoltre permette di evidenziare, su scala globale, le differenze di sindacalizzazione tra i vari paesi. Sembra sempre più chiaro che quando la leadership ha deciso i licenziamenti, non ha preso in considerazione che fuori dagli Usa esistono delle leggi a protezione dei lavoratori e delle lavoratrici. Caso emblematico quello francese (paese in cui Google impiega 1.700 persone), dove l’azienda ha prima annunciato i licenziamenti, per poi scoprire che in Francia non si può licenziare a meno che l’azienda non sia in crisi. Alphabet non ha neppure provato a dimostrare di essere in crisi e ha fatto marcia indietro dichiarando che non ci saranno licenziamenti. Per quanto riguarda l’Italia, dopo lunghe trattative e negoziazioni i sindacati Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs di Milano hanno annunciato il raggiungimento di un accordo che prevede la diminuzione dei licenziamenti di Meta da 23 a 12. «L’unico criterio di scelta per i licenziamenti sarà l’adesione all’uscita volontaria delle lavoratrici e dei lavoratori – spiegano i sindacati –: Grazie all’intesa raggiunta, i dipendenti licenziati riceveranno un’indennità di licenziamento adeguata e un supporto per la ricerca di nuovi impieghi».
In generale pochissimi parlano di organizzare la forza lavoro o di sindacalizzazione, seppur alcuni esempi vi siano stati come l’esperienza di Tech Workers Coalition. I dipendenti delle aziende tech infatti sono abituati a far valere il proprio valore individuale e non sentono di dover chiedere nulla a nessuno. Sono anche persone che finora non hanno avuto mai bisogno di rivolgersi alla piazza, perché nel loro settore il vento era sempre stato in poppa. Si pensi alla grande ondate di licenziamenti nel 2008 che non hanno prodotto una sola protesta in questo settore.
Nel gennaio 2021 è stato fondato Awu (Alphabet Workers Union), anche nota come Google Union, un piccolo sindacato che nell’ottobre del 2022 contava 1.200 membri tra impiegati Google e lavoratori non assunti direttamente ma impiegati della ristorazione, pulizie, ecc… Considerando che negli Stati Uniti, un sindacato assume ruolo ufficiale solo con l’approvazione tramite referendum aziendale, Awu è più simile a un collettivo di lavoratori che a un sindacato in grado di trattare con l’azienda. L’ondata di tagli probabilmente continuerà, e di quelli già annunciati sapremo meglio l’evoluzione. Certo è che questi mesi hanno messo in discussione l’immagine che lavoratrici e lavoratori stessi avevano di un settore lavorativo particolarmente influente, e di conseguenza potrebbero portare a cambiamenti significativi nelle forme organizzative e nei rapporti di forza tra dipendenti e dirigenza delle aziende tech.
*Daniele Gambetta, laureato in matematica e data science, negli anni ha collaborato con varie riviste e testate giornalistiche su approfondimenti scientifici e tecnologici. Curatore dell’antologia Datacrazia (D Editore, 2018). Attualmente è dottorando in Intelligenza Artificiale.
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