
Auguri, il manifesto!
Il «quotidiano comunista» oggi compie cinquant'anni. È uno spazio pubblico che consente di tenere in vita dei legami. Se non ci fosse occorrerebbe che ne nascesse uno
Il compleanno del manifesto, compleanno rilevante visto che si tratta di cinquant’anni, è come il compleanno di un amico, o un’amica di famiglia. C’è un mondo ampio, ampissimo di lettori, lettrici, militanti, anche giornalisti e giornaliste che nel tempo ha vissuto, amato o odiato, ma comunque attraversato questo giornale, l’unico che ancora oggi porta scritto sopra la testata «quotidiano comunista».
Fargli gli auguri, come intendiamo fare, non può significare scriverne, sia pure sommariamente, la storia. Non solo perché è fuori dalla nostra capacità, ma perché quella del manifesto è una storia fatta di tante storie, di rivoli e componenti che si sono intrecciati, susseguiti, sovrapposti per costruire qualcosa che andava oltre lo stesso giornale.
È curioso come nella sua storia fattuale il quotidiano abbia continuamente smentito lo scritto inaugurale di uno dei suoi fondatori, Luigi Pintor, che resta l’anima giornalistica di riferimento (e che meriterebbe un posto maggiore nella storia del giornalismo italiano). «Un giornale – scriveva Pintor a Rossana Rossanda, l’altra storica fondatrice – essendo come la rosa di Gertrude Stein, cioè un giornale un giornale un giornale, può essere fatto solo seguendo alcune regole consacrate che hanno la stessa rigidità delle leggi della fisica classica rispetto al mondo sensibile (malgrado la relatività e i quanti): stravolgerle non si può, e neppure si può applicarle ove manchino (come da noi mancano) alcune condizioni di base (tecniche e politiche e perfino psicologiche)».
Quelle leggi dicevano innanzitutto che un «giornale deve avere un direttore» e questo chiunque abbia frequentato solo parzialmente un prodotto editoriale sa cosa voglia dire. «La seconda legge di un giornale è che deve avere una redazione» e questa sembra una regola autoreggentesi. «La terza legge è che un giornale si basa appunto sugli accadimenti» e anche questa norma, conoscendo la storia e le idiosincrasie dei quotidiani, è tutta da dimostrare. La quarta legge di Pintor è la più divertente: «La quarta legge è che un giornale, per essere letto, non deve essere noioso, e per non essere noioso deve essere più polemico, critico e propagandistico, che non costruttivo, propositivo e formativo: nella proporzione di tre quarti e un quarto, o almeno di due terzi e un terzo». Idee chiare sulla fattura quotidiana, idee valide ancora oggi e la cui mancata applicazione spiega gran parte della crisi della stampa.
Poi ci sono altre leggi che non vengono più dettagliate per stanchezza dell’autore ma di cui va almeno ricordata quella che spiega come «il giornale deve sapere che ogni suo numero dura sul mercato poche ore, scivola come acqua fresca, non lascia tracce, e quindi deve proporsi al massimo di esercitare una ‘suggestione’». Anni dopo Pintor dirà ancora più seccamente che un giornale a mezzogiorno è buono solo per incartare il pesce, a dimostrazione della sua fuggevolezza. Ma il brano del fondatore del manifesto è importante per le sue conclusioni: «Ora accade che nel nostro giornale queste sei leggi (che ne comportano altre minori) sono negate in linea di principio; e anche se non lo fossero, sono inapplicabili perché mancano le condizioni preliminari (anche perché una mela cada dall’albero secondo la legge dei gravi, bisogna che ci sia un albero e per di più un albero di mele)». E così nasce la parabola del manifesto-calabrone che vola contro le leggi della fisica.
Se un giornale è un giornale è un giornale, il manifesto lo è stato solo in parte. È stato di più ed è stato di meno. Con «di meno», ovviamente, non si tratta di esprimere giudizi di valore: per risorse, mezzi, soldi, area di riferimento quel quotidiano non ha mai potuto competere con giornali di altra dimensione. Si tratta di un aspetto meramente quantitativo e ampiamente compensato dal «di più». Di più, invece, è stato partito, comunità, strumento di identità, anche un’élite politica e intellettuale ed élite di lettori, orgogliosamente identificati nel quotidiano che già solo nella testata, magari esposta fuori dalla tasca dei pantaloni, spiega chiaramente a chiunque i propri valori e le proprie aspirazioni politiche.
Se il calabrone alla fine vola ancora è proprio per questo, perché un mondo di riferimento non è mai venuto meno, nemmeno oggi che è ridotto al lumicino, in una situazione quasi disperante dal punto di vista della militanza politica e in cui il popolo dei non lettori, ma lettori potenziali, è infinitamente più vasto di quello dei lettori.
Per chi, come chi scrive, gli anni Settanta sono stati quelli dell’infanzia, la vita del manifesto coincide soprattutto con la fase discendente del movimento di massa e con il declino omogeneo della storia comunista fino al cambio di nome del Pci nel 1991-92. Negli anni Settanta, in realtà, il manifesto è un giornale-partito tra gli altri, divide la piazza per molti anni con Lotta continua e Avanguardia operaia, mentre l’Unità presidia saldamente il «popolo comunista». Per quel collettivo anomalo che vuole farsi partito mentre fa un giornale, si tratta quindi di stare dentro le dinamiche di quegli anni, negli incontri-scontri della sinistra extraparlamentare. Il manifesto, insieme al Pdup – Partito di unità proletaria, con cui le strade si dividono organizzativamente e tatticamente, ma non del tutto politicamente – è quello che tiene l’occhio rigorosamente fisso sul Pci, sul corpaccione da cui proviene, in cui nasce la rivista il manifesto che provoca la radiazione del 1969. Anche quando si farà partito, insieme al Pdup, o si batte per la candidatura di Pietro Valpreda, nel 1972, quando avrà la sbandata maoista o, addirittura, sosterrà, con Rossanda Rossanda, la candidatura di Enzo Tortora nel 1984 al Parlamento europeo nelle liste radicali, il manifesto penserà sempre al Pci. A quel «gorgo» come lo chiamerà Pietro Ingrao nel momento della nascita del Pds, in cui si muove ciò che è importante e che vale la pena seguire, il partito che se si spostasse a sinistra, si muovesse un po’ di più a fianco del movimento, si liberasse dai legami sovietici, darebbe alla democrazia italiana un altro slancio.
Resta irrisolta la questione se una svolta del Pci, sempre invocata e sempre bussola obbligata del gruppo dirigente del manifesto – ma più di Rossanda e Lucio Magri, meno di Pintor – non fosse ormai alle spalle di quel giornale e addirittura dall’anno di nascita del manifesto stesso, il 1969. L’anno in cui «Praga è sola» anche il Pci misura tutta la distanza dalle potenzialità trasformatrici della propria stessa storia (questa, ad esempio, è la tesi con cui Fausto Bertinotti ha risolto il fallimento politico di Rifondazione comunista che non poteva, a suo avviso, risolvere la grande sconfitta maturata proprio su Praga e sull’incapacità di legarsi al movimento del ’68).
Ma se il timone è fisso sulla storia del Pci, il giro di boa si verifica ai primi venti anni del quotidiano, nel 1991, quando il Pci decide di cambiare nome. Logica la scelta di schierarsi con il variegato fronte del No, con Ingrao innanzitutto, ma le diverse scelte di questo schieramento – una parte farà nascere Rifondazione comunista, un’altra resterà nel Pds, un’altra, ancora, si disperderà dal punto di vista organizzativo – influiranno sulla traiettoria politica del quotidiano che cercherà la difficile architettura di mantenere al suo interno più anime e aree, più di quante forse ce ne siano state nei due decenni precedenti. In questo tornante si verifica la grande rinascita del quotidiano che ha la capacità e l’intelligenza di lanciare la manifestazione del 25 aprile 1994 contro il neonato governo Berlusconi. Sarà una giornata magnifica, piena di pioggia, ma anche di un popolo che in piazza sembra dimostrare che una nuova stagione è possibile. Il manifesto conosce una fase di grande risalto, anche dal punto di vista delle vendite, riuscendo a dar voce a una diaspora smarrita, e in quell’anno annichilita dalla presenza dei fascisti al governo. Ma forse, più che di una nuova storia a-venire, quella giornata rappresenta il lampo improvviso e accecante di una storia già passata dentro le cui vicissitudini si può trovare la traccia anche di quel che è appena accaduto, la vittoria di Berlusconi e di destre davvero temibili (almeno allora, dopo si vedrà la vera dimensione del peggio). Lo dimostra lo sfilacciamento che caratterizza gli anni Novanta, l’involuzione politica italiana, la stanchezza dei movimenti sociali, la crisi dei partiti e dei sindacati.
Una scossa ci sarà nel 2001 con il movimento no-global che il manifesto all’inizio sottovaluta, conferendo maggiore centralità a un’operazione politica – culturale certo, ma soprattutto politica – rappresentata dal varo di una nuova edizione de La rivista del manifesto. Diretto da Lucio Magri il nuovo mensile – che nasce nel 1999 e vivrà fino al 2004 – si dà l’obiettivo di far dialogare e possibilmente riunire i vari spezzoni di sinistra che al momento vivono guardinghi e separati all’interno del centrosinistra ulivista (che si è rotto nel 1998 ma rinascerà più in là). Nel 1998 c’è stata la scissione cossuttiana di Rifondazione, prima c’era stata quella del gruppo ex-Pdup che insieme a Magri aveva deciso di «baciare il rospo» Lamberto Dini, c’è un’area di sinistra nei Ds, circoli vari, ecc. La rivista ha questo obiettivo e con la nascita del movimento no-global prima e poi di quello pacifista che riempie le strade nel 2003 contro la guerra in Iraq, la possibilità di questa ricomposizione sembra a portata di mano.
Non va bene neanche questa volta nonostante Pintor avesse scritto per tempo che «la sinistra che conosciamo è morta» e sperando nella nascita di una «sinistra anticapitalista». I rapporti con Rifondazione comunista sono difficili, le differenze politiche non aiutano, ma non aiutano soprattutto le gelosie di partito, le storie personali: nel 2006 tutte queste forze si troveranno insieme al governo nel secondo Prodi e nel 2008 daranno vita alla lista Arcobaleno scompaginata dalle elezioni, a riprova che le differenze di fondo non fossero così enormi. Quella sconfitta, la scomparsa della sinistra dal Parlamento nel 2008, aprono una fase che dura ancora oggi, quella di una sinistra che si frantuma, si sperde nonostante vivacità sociali che nel quotidiano trovano spazio e forma. Lo stesso manifesto, alla fine, è vittima di questa involuzione tutta interna alla sinistra e vede la frattura con il suo gruppo storico, a partire da Rossana Rossanda, che esce dal quotidiano insieme a Valentino Parlato. È il 2012 e il giornale vive la sua più grande crisi con il ministero dello Sviluppo Economico che decreta la liquidazione coatta amministrativa e una chiusura che sembra inevitabile mentre il 1 gennaio 2013 nasce «il nuovo manifesto società cooperativa editrice» che subentra nell’edizione della testata e continua le pubblicazioni.
Così si arriva, con fatiche evidenti, copie cartacee che scendono nonostante una proiezione digitale innovativa, il rischio che il finanziamento pubblico si dissolva e crisi della sinistra irrisolta, a oggi. Oggi sono comunque cinquant’anni e il quotidiano rappresenta ancora uno spazio comune di teste e orientamenti diversi con una redazione molto più giovane governata da pochissimi «vecchi» e un lavoro che sembra ancora tutto da fare. In fondo il manifesto è uno specchio abbastanza fedele delle storie di chi ha frequentato movimenti, partiti e sindacati di sinistra, di chi, in un modo o nell’altro, con più fedeltà ortodossa o maggior spirito critico, pensa che «comunista» significhi ancora qualcosa. Anche chi in modo battagliero afferma solidamente che quel giornale non lo compra più, in qualche modo è rispecchiato nella sua altalenante storia. E probabilmente oggi quel giornale rappresenta uno «spazio pubblico» quotidiano che consente di mantenere in vita dei legami, delle relazioni, sia pure alla lontana, un confronto politico e culturale. Come tutto quello che si muove a sinistra le garanzie di vivere per i prossimi cinqunt’anni sono date dal saper investire il capitale residuo senza rimirare la propria esistenza come una conquista. Ma questo vale per tutti noi, nessuno escluso. Nel fare gli auguri ai compagni e alle compagne del manifesto non possiamo che constatare una realtà apparentemente banale, ma piena di sostanza: se il manifesto non ci fosse occorrerebbe che ne nascesse uno.
* Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di La rifondazione mancata (Alegre), Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Da Rousseau alla piattaforma Rousseau (PaperFirst).
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