Boicottare i mega-eventi
La discussione sulla sostenibilità dei grandi eventi sportivi non può più essere rimandata: i danni sociali ed ecologici di Olimpiadi, Mondiali di calcio in Qatar e giochi asiatici d’inverno in Arabia Saudita
Nell’agosto 2004 Atene era addobbata a festa. Per la ventottesima edizione i giochi tornavano nella loro città natale, luogo di nascita e centro inaugurale del revival moderno nel 1896. Si trattava dunque di un evento carico di significati simbolici, celebrato in pompa magna dal comitato organizzativo per un costo di realizzazione pari a 8,5 miliardi di euro. Con il senno di poi, non è difficile immaginare quanto i giochi di Atene furono un acceleratore del collasso economico che avrebbe investito il paese da lì a pochi anni. Oggi, a quasi vent’anni da quell’evento, poco rimane delle infrastrutture sportive, se non delle carcasse in cemento fatiscenti mai riutilizzate.
Nonostante ciò, le Olimpiadi hanno continuato a crescere a dismisura, raggiungendo costi astronomici. Tracciando la curva esponenziale, otto anni dopo Atene fu il turno di Londra, che raddoppiò il budget greco per la bellezza di 15 miliardi, e per finire, quelle invernali di Sochi del 2014, le più esose della storia, per un investimento di 21,9 miliardi di dollari. A conferma dell’insostenibilità economica di questi mega eventi, uno studio dell’Università di Oxford realizzato sulle Olimpiadi comprese tra il 1960 e il 2020, ha rivelato come il loro costo abbia in media superato del 172% i budget inizialmente stabiliti. Soldi a pioggia, fasto sfrenato, nulla si risparmia per l’occasione. Intanto, lontano dai riflettori, i costi sociali ed ecologici dei mega-eventi non fanno che moltiplicarsi.
Fu il caso dei giochi di Rio 2016. Per fare spazio al parco olimpico e ad altre infrastrutture più di 67.000 persone vennero sfollate. Tra i quartieri più colpiti vi erano quelli a nord e ovest della città, come Recreio e Barra da Tijuca. Le favelas erano percepite come un pericolo per la sicurezza degli atleti e di fatto incompatibili con la Rio del decoro e dell’innovazione che si voleva celebrare. Sotto le vesti della rigenerazione urbana, a partire dal 2011 vennero intraprese numerose operazioni di «risanamento» dei quartieri per rendere la città più sicura e adeguata al duplice appuntamento dei Mondiali 2014 e delle Olimpiadi 2016. Hotel di lusso, nuove infrastrutture, collegamenti rapidi con il centro cominciarono a ripopolare le zone di sfratto, mentre i loro abitanti venivano allontanati in aree più remote. Alcune famiglie decisero di opporsi, come nel quartiere di Vila Autodromo, divenuto un simbolo della resistenza popolare allo sfratto. Per quanto lo scandalo fu su tutti i giornali, nulla cambiò quattro anni dopo, quando per le Olimpiadi di Tokyo 2020 il parco Miyashita, dimora di numerosi senzatetto, venne raso al suolo per costruire un hotel di lusso a 18 piani.
L’ultima frontiera della dissonanza cognitiva sportiva viene oltrepassata questa volta in Qatar, dove tra qualche giorno comincerà la nuova edizione dei Mondiali di calcio. Al centro del golfo Persico, tra i paesi con il più elevato Pil pro capite al mondo, il Qatar deve la sua ricchezza ai grandi giacimenti petroliferi e allo sfruttamento delle braccia di migliaia di lavoratori immigrati. I giornali parlano di circa 6.500 morti nei cantieri degli stadi che ospiteranno a breve i Mondiali. Interpellato sulla questione, Quentin Müller, specialista della regione, risponde
è una cifra calcolata in base ai dati che ci arrivano dalle ambasciate dei paesi asiatici ma nulla si sa dei lavoratori africani. Inoltre, mancano le autopsie dei cadaveri degli operai: cosa ne è di chi non muore sul cantiere, ma per cause correlate? per esempio di fatica dopo aver lavorato nove mesi senza un giorno di pausa? il numero totale dei morti è chiaramente sottostimato.
A rendere ancora più distopico il quadro, gli otto stadi saranno climatizzati per alleviare dal caldo torrido, e delle navette-aereo saranno predisposte per recuperare i tifosi di stanza in Bahrain o Emirati Arabi Uniti, non avendo il Qatar la capacità di alloggiare i numeri previsti. La dichiarazione di giochi a impatto zero, anche questa volta, lascia a desiderare. Come se non bastasse, arriva la notizia che l’Arabia Saudita sarà la nuova meta dei giochi asiatici invernali 2029. Parte del progetto futuristico Neom, Trojena, la megalopoli in costruzione sulle coste del Mar Rosso, ospiterà un importante complesso sciistico di super lusso. Nell’incapacità di accettare i limiti planetari e fisici descritti già cinquant’anni fa dal report del Club di Roma, l’utopismo tecnologico e la crescita verde sono il nuovo miraggio che vedrà fiorire piste di neve artificiale e hotel di lusso nel deserto saudita.
Photo credit: Neom website
L’impiego della neve artificiale su ampia scala non è d’altronde una novità. Le Olimpiadi di Pechino di quest’anno sono state le prime nella storia 100% su neve artificiale. Secondo quanto riporta The Guardian, per produrla sono stati impiegati circa 222,8 milioni di litri d’acqua, in una regione dove la situazione idrica è di per sé molto critica. Il ricorso alla neve artificiale sarà sempre più frequente vista la velocità con cui i ghiacciai si stanno sciogliendo e le Olimpiadi Milano-Cortina 2026 non saranno da meno. La Commissione Internazionale della Protezione delle Alpi già dal 2014 avvertiva dell’assoluta incompatibilità dei progetti olimpici con il delicato sistema idrogeologico alpino. Stando ai dati del Centro Nazionale delle Ricerche, al 2100 rischiano di scomparire tra il 70% e il 92% dei ghiacciai alpini. Nonostante la siccità, i laghi di montagna prosciugati e la tragedia della Marmolada della scorsa estate, si continua a fare finta che il cambiamento non sia già in atto. Così, in piena dissonanza cognitiva, avanzano i progetti della pista da bob a Cortina, o ancora il maxi hotel di lusso a Passo Giau.
Mentre l’umanità si confronta sempre più spesso con fenomeni climatici impervi, uragani e alluvioni mortifere, incendi indomabili e siccità prolungate, governi e istituzioni rimangono inerti. A ritmo di conferenze internazionali per il clima, continua a suonare il solito disco rotto. Finché non si metterà in discussione questo business as usual, una vera transizione ecologica non potrà realizzarsi. Ogni settore economico deve necessariamente scontrarsi con l’imperativo di un cambiamento sistemico, e i mega eventi sportivi non possono rimanerne esclusi. L’intero modello olimpico, così come quello dei mondiali di calcio, deve essere ripensato. È davvero negli stadi climatizzati in Qatar e sui mastodontici impianti sciistici di neve artificiale che si realizza l’ideale dello sport? O forse non è altro che un sottoprodotto recuperato dalle logiche capitaliste e di mercato ad alimentare lo sport oggi? La visione dello sport come prestazione e performance nella cornice di mega eventi generatori di inquinamento e sfruttamento deve essere decostruita e passata al vaglio di una nuova coscienza ecologica e sociale.
L’appello al boicottaggio, più che una semplice azione individuale, può essere vissuto come un gesto collettivo carico di significato politico. Boicottare non significa rinunciare, ma scegliere l’alternativa, che si tratti di sostenere le abitazioni popolari minacciate dal processo di gentrificazione o dei fragili ecosistemi montani contro i grandi impianti sciistici. Boicottare i mega eventi vuol dire sostenere un modo diverso di abitare e attraversare i territori, rimettendo al centro un ideale di cura e non di profitto. Sempre più comitati e associazioni in giro per il mondo, da Los Angeles a Tokyo, insorgono contro i mega eventi sportivi e invitano all’azione collettiva. Un caso recente è quello di un gruppo di cittadini e attivisti francesi che ha creato un sito web per localizzare tutti i bar che per scelta non trasmetteranno i Mondiali in Qatar. L’idea è quella di fare rete, costruire delle contro-serate, dei momenti di socialità alternativi alle partite di calcio nei locali aderenti all’appello. Il progetto «Carton Rouge pour le Qatar» ha avuto un discreto successo e molti bar nella capitale e in tutta Francia hanno deciso di partecipare. È il caso del bistrot O’Muligan’s, tra i primi ad attivarsi. Si tratta di una vera rivoluzione per il locale, popolare per le sue serate all’insegna del calcio e del rugby. La responsabile Justine Chambrillon ha spiegato:
«È un’aberrazione celebrare un evento sportivo che ha causato migliaia di morti nei cantieri degli stadi e che viola i diritti umani. Inoltre, l’impatto ecologico è disastroso, in un momento in cui ci viene chiesto di risparmiare energia».
Con le sue parole, Justine riassume bene il quadro distopico che abbiamo di fronte. Impossibile dunque, non prendere posizione. Facciamo del boicottaggio un’azione collettiva, contagiosa, e inevitabile.
*Letizia Molinari, attivista di Fridays for Future ed Ecologia Politica. È laureata in psicologia e attualmente studia politiche ambientali e arabo a Sciences Po Parigi.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.