Chi boicotta Bernie Sanders
Il drappello di sinistra si fa sentire al Congresso Usa, mentre nel paese parte una nuova ondata di scioperi. Moderati e repubblicani tentano di fare ostruzionismo
Grazie alla Political Revolution iniziata da Bernie Sanders sei anni fa, nel Congresso statunitense ora agisce una resistenza progressista molto determinata. Sebbene sia molto improbabile che porti ai risultati auspicati, ossia all’approvazione non pesantemente ritoccata del Build Back Better Act, una proposta di legge da 3,5 trilioni di dollari per interventi sociali, sanitari ed ecologici, è un dato di fatto che la battaglia guidata da Bernie Sanders, dalla Squad allargata (le deputate e deputati eletti per la prima volta nel 2018 come Alexandria Ocasio Cortez e nel 2020 come Cori Bush) e da deputati progressisti di più vecchia data (come Ro Khanna e Pramila Jayapal), abbia allargato notevolmente lo schieramento democratico favorevole a quel provvedimento.
Scuola materna universale, congedo per malattia e motivi parentali, espansione del Medicare con inclusione di cure e supporti per udito, vista e denti, due anni di università statale gratuita sono alcuni dei provvedimenti proposti, mentre per l’aspetto ecologico il piano si focalizza su produzione e utilizzo di energia pulita con un concreto contrasto all’industria dei combustibili fossili. Sebbene non sia quello presentato da Bernie Sanders nelle sue due campagne elettorali, è un piano che se attuato porterebbe gli Stati uniti a un intervento pubblico paragonabile al New Deal di Franklin D.Roosevelt e invocato da Lyndon Johnson per la sua Great Society. Non per niente architetto del piano è stato Bernie (presidente del Budget Committee del Senato).
L’altra novità è che mentre si continuano a chiedere sacrifici alla working class, è partita un’ondata di scioperi talmente vasta ed eterogenea da far parlare di Strikeober (crasi tra strike e october). «I lavoratori statunitensi stanno mostrando i muscoli per la prima volta in decenni – afferma Robert Reich su The Guardian – Si potrebbe dire che hanno dichiarato uno sciopero nazionale a oltranza finché non otterranno paghe più alte e migliori condizioni di lavoro».
Il boicottaggio al Senato
Più comunemente detto Reconciliation Bill per motivi che specificheremo, il principale problema del Build Back Better Act è il boicottaggio di Joe Manchin (West Virginia) e Kyrsten Sinema (Arizona), i due senatori democratici filorepubblicani, che non facevano presagire niente di buono fin dal momento della configurazione 50 a 50 del nuovo Senato.
Tanto la resistenza progressista quanto il comportamento di Manchin e Sinema riguardano non solo il Reconciliation Bill, ma anche il cosiddetto Bipartisan Infrastructure Bill da 1,2 trilioni di dollari per investimenti in grandi infrastrutture come strade, ponti, ferrovie, trasporti e via dicendo. Entrambi i provvedimenti erano originariamente parte di un piano unico da diversi trilioni di dollari, da spendere in un decennio e finanziato in buona parte con l’aumento delle tasse a super-ricchi e corporation, che Biden aveva annunciato poco dopo l’insediamento e che avrebbe preso forma concreta dopo l’approvazione della legge sui ristori per il Coronavirus, firmata il 12 marzo 2021.
Incontrando il monolitico No repubblicano, in giugno Biden divise il provvedimento in due, per avere almeno in parte quel supporto bipartisan cui ambisce da sempre, e che Ben Burgis su Jacobin Magazine definisce «spazzatura», perché destinato ad accontentare gli interessi corporativi di «opinionisti e politici centristi», ignorando «misure che aiutano di fatto i bisogni della working class». Che le due leggi, sebbene separate, dovessero comunque arrivare a destinazione insieme era ad ogni modo un impegno sottoscritto da Biden e da altri democratici moderati, tra cui i presidenti di Camera e Senato Nancy Pelosi e Chuck Schumer. Le posizioni sempre più inclini verso i progressisti degli speaker di Camera e Senato sono probabilmente giustificabili per Pelosi, che si ritirerà l’anno prossimo, dal desiderio di lasciare una buona legacy soprattutto relativamente al suo operato a favore dei bambini, e per Schumer, che invece andrà a rielezione nel 2022, con il forte timore di una sfida senatoriale da parte di Alexandria Ocasio Cortez nello stato di New York.
Dopo il lavoro di una commissione senatoriale bipartisan intervenuta con tagli, compromessi e lucrose prospettive di privatizzazioni che fanno gola tanto ai repubblicani quanto alla pletora dei corporate democrats, il 28 luglio scorso il Senato ha approvato il Bipartisan Infrastructure Bill e l’ha spedito alla Camera. Superfluo dire che tra i protagonisti delle trattative c’erano Manchin e Sinema, che ora tengono sotto ricatto il Reconciliation Bill, lasciato in balia della guerra democratica dal compatto No repubblicano.
Nonostante le promesse sul passaggio contestuale delle due leggi, il 27 settembre scorso, deadline che Pelosi aveva stabilito per la discussione del provvedimento bipartisan a causa delle forti pressioni dei corporate democrats della Camera guidati da Josh Gottheimer, il Bipartisan Bill stava per essere portato in aula e sottoposto a votazione. Se approvato ciò avrebbe determinato la morte sicura del Reconciliation Bill. Ma grazie alla resistenza progressista, guidata sia da Pramila Jayapal sia da Bernie Sanders, che ha incitato i colleghi della Camera a «tenere duro» contro lo svincolo delle due leggi, Pelosi è dovuta tornare sui suoi passi, dato che i conti dimostravano che la maggioranza non ci sarebbe stata, rimandando al 31 ottobre la nuova deadline.
Il filibuster
Il processo della reconciliation, al quale Manchin e Sinema si sono a lungo opposti, accettandolo solo dopo il decurtamento a 3,5 trilioni rispetto agli oltre 6 chiesti da Sanders, è dipendente dal particolare tipo di ostruzionismo del Senato noto come filibuster (termine mutuato a metà dell’Ottocento dal vocabolario della pirateria), uno dei problemi più spinosi della democrazia Usa.
Se invocato, il filibuster impone l’approvazione di tre quinti del Senato (fino al 1975 erano due terzi), affinché una proposta di legge possa essere portata in aula per la discussione e la relativa votazione che, secondo regole fortunatamente ancora invariate della Costituzione, rimane a maggioranza semplice. Se la legge sottoposta a filibuster non supera dunque la barriera dei 60 voti (detta cloture), essa decade nonostante l’eventuale approvazione della Camera e nonostante il sostegno della maggioranza della popolazione (esemplificativo è il mancato perseguimento di Donald Trump per i fatti del 6 gennaio). Per evitare ad alcune leggi tale destino si può ricorrere alla reconciliation, invocabile anche da un solo senatore. Nel caso in cui la maggioranza semplice la approvi, essa elimina la supermaggioranza dei 60 voti, consentendo alla legge di accedere all’aula superiore del Congresso. Tuttavia mentre il filibuster può essere richiesto senza limiti numerici per qualsiasi tipo di provvedimento, la reconciliation può essere invocata una sola volta all’anno e solo per leggi che riguardino la spesa pubblica.
Della lunga e complicata storia del filibuster e della necessità della sua abolizione oggi sostenuta dalla maggior parte del Partito democratico, soprattutto dopo gli eccessi cui l’ha portato Mitch Mc Connell, vero dominus del Partito repubblicano negli ultimi quindici anni, tratta il recente libro di Adam Jentleson Kill Switch: The Rise of the Modern Senate and the Crippling of American Democracy, di cui ho tentato una sintesi in altro articolo, sottolineando che i democratici non hanno più scuse per opporvisi.
I casi Joe Manchin e Kyrsten Sinema
Contrari a quasi tutti i punti del reconciliation Bill, dalla tassazione di ricchi e corporation fino agli interventi contro il cambiamento climatico, Manchin e Sinema sono i massimi emblemi della corruzione politica. Eloquente è già di per sé il titolo «Manchin’s Dirty Empire» dell’inchiesta di The Intercept sui suoi traffici con l’industria fossile: «Per decenni, Manchin ha tratto profitto da una serie di compagnie di carbone che ha fondato negli anni Ottanta. […] Sia riversando decine di migliaia di tonnellate di carbone di scarto di bassa qualità [comprato e rivenduto dalla sua Enersystems Inc.] nelle centrali elettriche del West Virginia, sia sottoponendo i lavoratori a condizioni pericolose, l’impresa di carbone della famiglia Manchin ha evitato quasi completamente il controllo pubblico». Anche i suoi figli hanno illustri carriere da corruttori, come dimostra ad esempio l’inchiesta di Ryan Grim sul ruolo avuto da sua figlia Heather Bresh, ex Ceo del colosso farmaceutico Mylan, «nello scandalo dell’aumento dei prezzi dell’Epipen», avendo collaborato «con la diretta competitrice Pfizer per monopolizzare il mercato e tenere alti i costi».
Quanto a Sinema, è emblematico il video dello scorso 5 marzo quando con una sorta di inchino sfrontato fece il segno del pollice verso per votare con i repubblicani contro il salario minimo di 15 dollari. Per le elezioni del 2020 Sinema ha ricevuto da Big Pharma donazioni di sei volte superiori a quelle complessive dei 6 anni precedenti. Come sostiene il deputato Ro Khanna «la lobby farmaceutica è molto scaltra» in quanto «prende quell’una o due persone di cui necessita per bloccare le cose in commissioni rilevanti o in un momento rilevante. […] noi cerchiamo di arrivare al 90-95% [del Progressive Caucus del Congresso]. Loro non si focalizzano sul 90%, bensì sui blockers».
*Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue dal 2016 la Political Revolution di Bernie Sanders.
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