Così abbiamo battuto Amazon
I lavoratori e le lavoratrici di Amazon a Staten Island hanno ottenuto la più importante vittoria sindacale negli Stati Uniti dagli anni Trenta. Qui raccontano come hanno fatto
Dopo decenni di declino sindacale, i lavoratori di Amazon a Staten Island hanno ottenuto la più importante vittoria dagli anni Trenta negli Stati uniti. Affrontare e sconfiggere Amazon sembra la storia di David contro Golia, indipendentemente da chi ha guidato lo sforzo, ma è particolarmente sorprendente che la spinta alla sindacalizzazione di successo nel magazzino Jfk8 sia stata avviata dall’Amazon labour union (Alu), organizzazione di lavoratori e lavoratrici al debutto e indipendente.
Tra i leader di Alu ci sono ex dipendenti come Christian Smalls, che è stato licenziato dal magazzino Jfk8 nel 2020 dopo aver organizzato uno sciopero, oltre a un piccolo gruppo di operai e operaie che lavorano all’interno del magazzino. Mentre gran parte dell’attenzione dei media nazionali si è comprensibilmente concentrata su Smalls, la straordinaria storia di come i lavoratori e le lavoratrici all’interno dell’edificio abbiano prodotto questo incredibile sconvolgimento resta in gran parte da raccontare.
Poche persone sono in una posizione migliore per raccontare questa storia di Angelica Maldonado, la ventisettenne presidente del Comitato dei Lavoratori di Alu. Una dei leader chiave responsabili della storica vittoria di ieri, Maldonado lavora come imballatrice nel reparto outbound nel turno di notte al Jfk8. Dopo il voto, ci ha raccontato come ha compiuto un’impresa all’apparenza impossibile e quali lezioni possono trarre dai loro sforzi i lavoratori e e lavoratrici in tutto il paese.
Innanzitutto, come ti senti?
Quando ho scoperto che avevamo vinto, sono rimasta completamente senza parole: mi sembra letteralmente di stare ancora sognando. Anche in questo momento, parlandone, mi emoziona pensare a ciò che abbiamo realizzato.
Puoi parlare un po’ di come sei stata coinvolta in questa vicenda?
Ho iniziato a lavorare al Jfk8 nel 2018, ma è stato solo lo scorso ottobre che sono stata coinvolta nell’organizzazione. Un giorno uscendo dal lavoro – dopo il mio turno di dodici ore e trenta minuti – un sindacalista è venuto da me e mi ha fatto sapere cosa stava succedendo. A essere onesti, sono stata subito coinvolta. Non ho mai fatto parte di un sindacato prima, ma mia madre è membro di 1199Seiu [storico sindacato della sanità nato per battersi contro le discriminazioni, Ndt] da quando ho memoria. Dunque, quando ho sentito che in Amazon avremmo potuto avere un sindacato, ho capito sulla scorta della mia esperienza quanto ciò avrebbe avvantaggiato tutte le famiglie e tutte le persone che ci lavorano. Da quel momento in poi, praticamente, mi ci sono dedicata a tempo pieno.
Ci sono stati temi e ingiustizie particolari che ti hanno motivato a intervenire?
In cima alla mia lista c’è la sicurezza del posto di lavoro. Il tasso di turnover qui è molto alto: puoi essere licenziato per molteplici motivi. Chiunque può beneficiare di un aumento, ma che senso ha se non riesci a mantenere il lavoro? Quanto al futuro, abbiamo bisogno di assistenza sanitaria. Personalmente, pago 54 dollari a settimana dalla mia busta paga per l’assistenza sanitaria per me e mio figlio. Posso solo immaginare cosa pagano gli altri genitori single che hanno più figli di me, perché devi pagare per ogni persona a carico. Fino all’età di ventisei anni non dovevo pagare l’assistenza sanitaria perché mia madre è nel 1199. In futuro, mi piacerebbe vedere tutti quelli che si trovano a lavorare qui avere assistenza sanitaria gratuita.
Quali sono stati i principali elementi di divisione all’interno della forza lavoro?
Ci sono molti tipi di persone che lavorano in Jfk8; è davvero diverso a seconda dell’età, della razza e di dove vivono le persone: i lavoratori pendolano fin qui da ogni parte. Ma una delle divisioni principali è stata l’età. Tieni presente che l’età media di un attivista di Alu è di circa ventisei anni: molti lavoratori più anziani tendevano a essere più scettici nei confronti del sindacato.
La cultura in Amazon è molto intensa e intimidatoria, quindi quando diversi lavoratori più anziani hanno visto per la prima volta un gruppo di giovani che cercavano di organizzare qualcosa di così grande, per alcuni di loro è stato difficile capire che sapevamo davvero cosa volevamo e come arrivarci. Ecco perché abbiamo dovuto formare noi stessi – e poi i nostri colleghi – su come esattamente questo può essere fatto. Abbiamo spiegato cosa possiamo fare tutti insieme. E abbiamo superato il divario di età principalmente essendo riconoscibili e belli, onestamente, è così che abbiamo vinto queste elezioni. Chiedevo ai colleghi: «E se i tuoi nipoti dovessero lavorare qui? E se i tuoi figli dovessero farlo? Sì, puoi essere più grande di me, ma anche io sono una mamma e vogliamo le stesse cose, giusto?». Quando hanno scoperto che ero anche una mamma e che stavo sacrificando tutto il mio tempo libero per aiutare a costruire un sindacato, molti di loro hanno capito davvero quanto la situazione fosse grave.
Hanno pesato anche le differenze di razza e nazionalità?
Sì, quella era un’altra cosa: entrare in contatto con le diverse razze del Jfk8. Ad esempio, molti dei nostri colleghi sono africani. Durante la campagna mi è venuta un’idea, che ha finito per essere vincente: la mia vicina di casa, anche lei africana, si occupa di catering. Ho detto: «Abbiamo distribuito così tanto cibo, perché non diamo cibo che si pone come obiettivo la cultura dei lavoratori di Amazon?». Così un giorno le ho chiesto di prepararci del riso fritto africano, e questo ha attratto un intero gruppo di lavoratori africani verso di noi e ne abbiamo ricavato un paio di nuovi sindacalisti. Direi che anche avere sindacalisti della stessa razza è stato decisivo. Sono ispanica, per metà ispanica, anche io, ma non parlo spagnolo, quindi è stato più facile per uno dei nostri che parla spagnolo parlare con quei lavoratori ispanici. Abbiamo consentito a chiunque volesse organizzarsi di farlo. E questo ha funzionato davvero a nostro vantaggio, perché i membri del comitato Alu che abbiamo in questo momento sono un gruppo eterogeneo. Siamo un piccolo gruppo rispetto alla quantità di persone che abbiamo sul posto di lavoro, ma siamo diversificati.
Come avete affrontato le intimidazioni della direzione?
Amazon instilla davvero paura nei lavoratori. Non solo c’erano manifesti anti-sindacali ovunque; Amazon ha assunto un sacco di sindacalisti che giravano costantemente per l’edificio parlando con i lavoratori. Era intimidatorio. I sindacalisti sostanzialmente hanno mentito e detto ai nostri colleghi che eravamo una terza parte. Ma in realtà eravamo lavoratori e lavoratrici proprio come loro. Non siamo venuti da qualche altra parte per organizzare Jfk8; lavoriamo lì: siamo un sindacato guidato dai lavoratori.
Molto di quello che abbiamo fatto era un rischio, ma sapevamo che alla fine avrebbe dato i suoi frutti. Abbiamo fatto cose come partecipare a riunioni in cui il pubblico era preda della campagna contro i sindacati anche quando non eravamo invitati. Abbiamo parlato a nome di tutti e abbiamo raccontato i fatti. Abbiamo fatto sapere a tutti che stavano dicendo bugie. Naturalmente, ci è stato detto di andarcene perché non eravamo stati invitati: quello che fanno è portare i dipendenti fuori dalle loro postazioni per partecipare a queste riunioni. Ma quella volta siamo entrati tutti in gruppo e abbiamo chiesto di parlare. Il direttore generale ci ha detto che se non ce ne fossimo andati, avremmo avuto un richiamo, saremmo stati considerati «insubordinati». Ma abbiamo mantenuto la nostra posizione, siamo rimasti e abbiamo detto la verità ai nostri colleghi e colleghe. Dovevamo rischiare. Al momento eravamo tutti un po’ timorosi, ma dovevamo correre questo rischio, perché i nostri colleghi dovevano vedere che si poteva resistere. Anche se alla fine siamo stati allontanati, azioni del genere hanno mostrato loro che ci sono determinati diritti e determinate leggi che ci proteggono e che non bisogna avere paura di Amazon.
Puoi dirci di più sui passaggi concreti che hai intrapreso per convincere i tuoi colleghi?
Eravamo tanti nel team organizzativo, quindi tutto ciò che veniva portato al tavolo era importante. Da parte mia, ho cercato di stare nel capannone il più a lungo possibile, il maggior numero di giorni possibile. Anche nei miei giorni liberi, passando meno tempo con mio figlio, ci sono voluti molta dedizione, molti sacrifici, molti rischi. Non potevo parlare del sindacato durante l’orario di lavoro, ma potevo farlo durante le pause pranzo e quelle di quindici minuti. E anche se non avevo tempo di parlare con i colleghi e le colleghe durante il mio turno, mi assicuravo sempre di avere i loro numeri e parlare con loro nei miei giorni liberi. Chiedevo loro di dire del sindacato ai parenti che lavorano lì e di dirlo anche ai loro amici. Dicevo a tutti: «Se hai domande, puoi chiamarmi in qualsiasi momento e se qualcun altro ha domande, passa il mio numero». E se non conoscevo la risposta a una domanda specifica, davo loro il numero del presidente dell’Alu [Chris Smalls] in modo che potessero parlare direttamente con lui.
Come ti sei assicurata di parlare con il maggior numero possibile di lavoratori e lavoratrici e come hai misurato il sostegno per vedere se avevi la maggioranza?
Personalmente, ho un’ottima memoria, quindi il mio obiettivo era che se non avessi mai visto una faccia prima, sarei sempre andata da quella persona e avrei avuto una conversazione. Era importante avere un gruppo ristretto di organizzatori e tenersi in contatto con tutti i lavoratori favorevoli al sindacato. Ma un altro dei nostri obiettivi chiave è sempre stato quello di parlare ogni giorno con persone nuove. E dopo aver parlato con loro, gli chiedevamo di unirsi alla chat di Telegram, di darci il loro numero, di venire a una riunione o di partecipare a un sondaggio. Questo era l’obiettivo: parlare con nuove persone ogni giorno, metterle in contatto.
Come si svolgevano queste conversazioni?
Chiedevo cose come «Hai mai sentito parlare dell’Alu?». E poi, se avevano bisogno di risposte o informazioni, facevo del mio meglio per rispondere e gli facevo sapere: «Siamo un sindacato gestito dai lavoratori e dalle lavoratrici. Se in qualsiasi momento vuoi diventarne parte, puoi farlo». Alcuni accettavano, altri no. Ma alla fine, l’obiettivo immediato era più semplice, come portarli nella grande chat di Telegram con tutti i sostenitori del sindacato o indossare una maglietta Alu. Cose del genere hanno mostrato che c’erano molte altre persone che volevano avere un sindacato.
Abbiamo usato una chat di Telegram per fornire aggiornamenti o per far sapere alla gente se era successo qualcosa nel magazzino o in un altro turno. Il turno di giorno e il turno di notte a volte sembrano due mondi diversi, quindi è stato utile avere un modo per comunicare con tutti. Ma a essere onesti, la chat non era una grande preoccupazione per noi; la cosa principale erano le interazioni faccia a faccia. Penso sia questo che ha fatto crescere il sindacato. Queste discussioni faccia e faccia sono state importanti perché Amazon ha detto a molte persone che eravamo una terza parte rispetto a lavoratori e azienda. All’inizio i lavoratori venivano da noi e dicevano: «Come fate a trovarvi qui dentro? Voi nemmeno lavorate qui». Allora mostravamo loro il nostro cartellino e dicevamo: «Lavoriamo qui, chiunque sia nel sindacato in questo momento lavora qui». A quel punto si incuriosivano. Alla fine delle nostre conversazioni, spesso si sentivano ingannati da Amazon perché si rendevano conto che gli avevano mentito.
Siamo entrati in relazione in questo modo. Ho fatto sapere alla gente che ero una mamma single, che lavoro a turni di dodici ore e trenta minuti e che stavo sul posto di lavoro anche nel mio giorno libero, capisci? Essere anche vulnerabili, spiegare cosa stavo sacrificando, cosa stavamo tutti sacrificando, essendo lì per assicurarci che tutti nell’edificio potessero avere condizioni di lavoro migliori.
A due settimane di distanza dalle elezioni, grazie a quelle conversazioni ero molto fiduciosa che avremmo vinto. Mi basavo sulle persone con cui stavo parlando, sul crescente supporto che stavo vedendo, e sul fatto che gli altri organizzatori parlavano con la loro gente che a sua volta parlava con altra gente, così come la mia gente parlava con la gente. Tutti parlavano con tutti.
Oltre alle conversazioni, hai fatto altre cose per aiutare i tuoi colleghi a non sentirsi soli e come hai monitorato il livello di supporto?
Verso la fine dello scorso anno, l’Alu ha iniziato a distribuire magliette sindacali. Quindi, quando alcune persone hanno iniziato a indossare le magliette al lavoro, molte altre persone hanno iniziato a vedere quanta adesione ci fosse. Dopodiché, abbiamo dovuto procurarci sempre più magliette per tutti. E mentre le elezioni si avvicinavano, abbiamo potenziato il nostro gioco: l’ultima cosa che abbiamo fatto in campagna elettorale è stata quella di procurarci dei cordini porta badge, circa tre o quattromila. Ne abbiamo distribuiti molti durante i cambi di turno, così le persone potevano vedere quanto supporto c’era.
Per tutto quel tempo, abbiamo ricevuto i numeri di telefono dei nostri colleghi e li abbiamo compilati tutti in un grande elenco in modo da poter avere un’idea di come stavamo andando dal punto di vista del supporto e in modo da poterli seguire sulle normali banche dati che tenevamo fuori dall’ufficio sindacale a Manhattan. E come organizzatori, eravamo coordinati; ad esempio, abbiamo fissato gli orari per chi di noi sarebbe stato nel magazzino o controllando la chat in momenti diversi.
E quando dico dedizione, intendo dedizione: quelli di noi nel comitato, eravamo nell’edificio sette giorni su sette, ventiquattro ore al giorno. Anche nei nostri giorni liberi eravamo nell’edificio, dopo che prendevo mio figlio a scuola ed era il mio giorno libero, mi dirigevo verso il magazzino.
Poiché non potevamo parlare del sindacato durante l’orario di lavoro, il tavolo nella sala relax era particolarmente importante. Ho costruito relazioni con colleghi che non avrei mai conosciuto se non ci fosse stato. Quando erano in pausa pranzo, o in una pausa veloce per uno spuntino, parlavo con loro finché avevano tempo. E una volta che hanno incontrato uno di noi, ci hanno conosciuti tutti, perché, come organizzatori, cercavamo sempre di costruire relazioni con tutti. Questo è ciò che intendiamo sul presentarsi bene.
E la direzione non ha provato a cacciarti?
No, perché eravamo protetti dalla legge. Conoscevamo i nostri diritti ed eravamo in contatto con un buon avvocato del lavoro. Quelli di noi che lavoravano lì potevano lavorare al sindacato. Eravamo protetti legalmente se non lo facevamo durante l’orario di lavoro.
A volte hanno cercato di resistere un po’. Ad esempio, una volta hanno provato a farci togliere il tavolo nella sala pausa, dicendo che violava le regole sul Covid. Ma proprio il giorno prima avevano allestito il loro tavolo nella sala relax, quindi non glielo abbiamo consentito. Onestamente, però, non hanno fatto nulla di eccessivo perché a quel punto si erano resi conto che sapevamo molto sulle leggi che ci proteggevano.
Prima di diventare una sindacalista con Alu, non avevo alcuna esperienza sindacale o organizzativa, quindi quando sono stata coinvolta mi sono seduta e ho ascoltato molto quelle e quelli che lo facevano da più tempo di me. E ho tenuto a mente queste informazioni, perché sapevo che sarebbero state vitali per i lavoratori e le lavoratrici che avevano domande da farmi. Cosi, quando c’è stata quella riunione pubblica alla quale abbiamo partecipato, ho chiesto consiglio perché non sapevo cosa fare, non conoscevo i miei diritti. In quel momento ho chiamato il presidente del sindacato, che mi ha detto che, in base a una certo codice della legge, siamo protetti. E poi, quando uno dei miei colleghi ha detto: «Ho sentito che siete stati tutti cacciati da una riunione. Verrai licenziata?». Ho detto loro di no, che non saremmo stati licenziati, perché eravamo tutelati dalla legge.
Congratulazioni ancora per la straordinaria vittoria: potresti chiudere con qualche considerazione finale?
Anche se sono nuova nel sindacato, il mio obiettivo è stato quello di organizzare Jfk8 e il magazzino di Staten Island. Vedo ogni giorno cosa passiamo tutti lavorando in Amazon. È estenuante e veniamo trattati come robot. Ho amici con cui sono andata a scuola che lavorano qui, e anche molte delle loro famiglie, e sono fondamentalmente come la mia famiglia. Solo se lavori all’interno di questo edificio puoi sapere com’è lavorare in Amazon.
E ora ho visto anche cosa hanno passato tutti gli organizzatori con cui ho lavorato. Ne abbiamo affrontate tante per contribuire a realizzare un cambiamento. Per noi attivisti e attiviste significa mancanza di sonno, mancanza di tempo a casa. E lo abbiamo fatto, oltre a lavorare tutto il tempo anche per Amazon. Quindi il fatto che abbiamo vinto oggi sembra irreale, mi sento come se fossi in un sogno. Sono così orgogliosa e grata per ogni lavoratore e lavoratrice che ha votato sì e ogni attivista che si è impegnato. Poter celebrare la nostra vittoria oggi, è bellissimo. Abbiamo fatto la storia, giusto?
*Angelica Maldonado è la presidente del Comitato dei lavoratori del sindacato di Amazon. Eric Blanc è l’autore di Red State Revolt: The Teachers’ Strike Wave and Working-Class Politics. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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