Da Draghi l’illusione della super-potenza Ue
Elena Granaglia, del Forum Disuguaglianze e diversità, illustra le critiche al piano dell’ex presidente Bce che vuole costruire un’Europa competitiva con gli Stati uniti: «Quel modello è fallimentare»
Elena Granaglia, docente di Scienza delle Finanze all’Università Roma Tre, fa parte del gruppo di studiosi e studiose (Fabrizio Barca, Vittorio Cogliati Dezza, Piero De Chiara, Giulio De Petra, Paolo De Rosa, Giovanni Dosi, Fulvio Esposito, Massimo Florio, Elena Granaglia, Salvatore Morelli, Ugo Pagano, Andrea Roventini, Lorenzo Sacconi) che per conto del Forum Disugulianze e Diversità ha redatto il documento «Piano Draghi: non ci siamo». Un testo, passato sotto silenzio dalla stampa più diffusa, ma che ha il pregio, in un particolare contesto di transizione dell’Unione europea, di chiarire bene il ruolo che l’Ue assume nel mutato quadro internazionale. Proprio la lettura critica del documento Draghi e il modo in cui viene utilizzato dalla Commissione di Ursula von der Leyen, permette di individuare meglio l’ipotesi di Unione «muscolare» che la Commissione delinea in una prospettiva che in quest’intervista Granaglia definisce «illusoria e perdente».
Il «piano Draghi» è stato l’ospite d’onore dell’ultimo vertice informale dell’Unione europea a Budapest. E questo è avvenuto pochi giorni dopo il successo di Donald Trump e la sua opzione «sovranista» in chiave Usa. Si vede in quel piano la tentazione di puntare a una Ue più sovrana e più muscolare di quanto lo sia stata finora?
Penso di sì. C’è un atteggiamento complessivo in Europa nel mostrare maggiormente i muscoli, basti pensare alla centralità che viene conferita agli investimenti per la difesa, che nel piano Draghi è citata ben 90 volte come mezzo per rilanciare la competitività europea. Il documento dell’ex presidente del Consiglio sta ispirando le diverse deleghe che la presidente von der Leyen ha conferito ai vari commissari europei e nelle audizioni di questi ultimi da parte del Parlamento europeo si è potuto sentire più volte l’eco di quanto proposto da Draghi. La posizione che emerge è dunque quella di un’Europa che sia in qualche modo più forte nella concorrenza tra Stati uniti e Cina. Devo dire che a nostro giudizio questa è una partita persa, perché su questo terreno l’Europa scompare.
Nel rapporto con gli Stati uniti, e in particolare con gli Usa di Trump, pensa quindi che la maggior competizione ipotizzata dall’Ue sia una strada che non può avere un futuro plausibile?
Credo che ci sia un rapporto molto complesso con gli Usa e in particolare con Trump. Il problema di fondo è che esiste un limite sistemico del modello Usa, inteso come quel modello che va a vantaggio dell’1% contro i voleri e le condizioni del restante 99%. Questo modello è basato su un processo di esternalizzazione della produzione, disattenzione a lavoratori e lavoratrici, deregolamentazione totale che ha contribuito al risultato elettorale negli Stati uniti. Una ragione della vittoria di Trump riguarda proprio un modello economico che ha escluso rilevantissime fasce della popolazione, ha creato molta insicurezza avallando il risentimento e la rabbia contro chi sta peggio. Sono proprio le elezioni Usa a confermare che quel modello è sbagliato e che, se lo seguiamo, ci contrapponiamo alla sofferenza delle persone e anche ai problemi politici che quel modello ha comportato. Insomma, rappresentare l’America come un “«aro» è molto problematico.
Che Europa immagina dunque il documento Draghi?
Il focus che ha ispirato il rapporto Draghi è sostanzialmente reagire alla perdita di competitività europea. L’Europa, si legge in filigrana, non è in grado di competere e deve farlo in modo più deciso altrimenti senza questa concorrenza è destinata a morire. Quest’idea pervade tutto il testo. La ragione della difficoltà europea, la ragione che blocca la sua economia e la sua prospettiva, è che l’Europa ha finora dato vita a troppa concorrenza al proprio interno, creando così imprese troppo piccole per reggere sul piano internazionale mentre, si legge, dovremmo puntare a dei «campioni», mega-imprese di stazza decisamente superiore. L’altra idea chiave è che esiste in Europa troppa regolamentazione, tale da uccidere anche i processi di innovazione tecnologica. Secondo il documento, invece, servono politiche di concentrazione e deregolamentazione per diventare più veloci e, appunto, competitivi. Questo è il punto fondamentale di quel rapporto. Il testo, però, si rende conto che seguendo questa strada, e quindi seguendo il «modello Usa», si creerebbero ulteriori disuguaglianze, ma a quel punto propone di affidarsi al welfare state europeo a cui si assegna il compito specifico di fronteggiare una disuguaglianza che invece si è alimentata. Un chiaro cortocircuito.
In cosa è sbagliata questa impostazione? Voi nel testo del Forum articolate un’analisi molto dettagliata, come potremmo riassumere il senso della vostra critica?
Innanzitutto la diagnosi è sbagliata. Il documento Draghi propone di chiudere il gap di produttività tra Usa e Europa, ma questa enorme differenza di produttività non è detto che ci sia e senz’altro va ridimensionata. Non solo perché la produttività Usa non è poi cresciuta così tanto, ma anche perché la misura del rapporto è basata sull’andamento nominale, un dato che è però influenzato dal rafforzamento del dollaro. Per una comparazione più corretta servirebbe il confronto a parità di potere d’acquisto ma questo il documento non lo fa. L’altra grande proposta, rafforzare i monopoli di alcuni grandi «campioni», pone una domanda inevasa: a chi andrebbero i guadagni di produttività? A seguito delle grandi concentrazioni negli Stati niti si è verificata una grande contrazione del valore appannaggio della parte più rilevante della popolazione. E allora, se riusciremo a crescere di più, qual è il vantaggio di questa crescita se se ne appropriano le persone più ricche? Senza contare il problema di una crescita che avviene a scapito dell’ambiente. A questa obiezione si risponde sempre che aumentando la torta ci sarà poi più spazio nella redistribuzione. In realtà, più le disuguaglianze primarie sono molto elevate più è difficile compensarle attraverso la mano pubblica. Lo spiegava molto bene già Tocqueville: la redistribuzione è più facile quando le disuguaglianze non sono eccessive; in una società ultra-segmentata i più ricchi fanno secessione come esplicitava la copertina di un rapporto Ocse di qualche anno fa che raffigurava in una mongolfiera l’1% che si allontana dal pianeta terra e diceva good-bye. I ricchi sono propensi alla secessione. In realtà, dietro l’idea della redistribuzione che avviene nel secondo tempo, dopo cioè la garanzia di aumenti di produttività, c’è ancora la vecchia idea del «trickle down», lo «sgocciolamento» di matrice liberista secondo cui le ricette monetariste scenderanno giù nella società un po’ alla volta: un’idea contraddetta dalla pratica di questi ultimi trent’anni.
C’è poi un secondo aspetto molto negativo: la deregolamentazione. Le varie regolamentazioni a cui, ad esempio nel mondo universitario, siamo sottoposti nei progetti europei, è certamente eccessiva e quindi in questo senso si può intervenire. Ma non si può non vedere l’altra faccia della regolamentazione, il fatto che, come ricorda Paul Krugman, offra sicurezze e certezze tali che, ad esempio, in Europa si hanno meno morti sul lavoro o un monitoraggio in campo farmaceutico che garantisce di più la salute. La regolamentazione non può essere presentata necessariamente come un impaccio.
Il rapporto farà male all’Unione europea?
Sì, perché crea più disuguaglianze. In economia si propone di lasciare libere le «forze creative». Ma se la strada è l’accettazione dei monopoli in particolare attorno alla proprietà intellettuale e alla gestione dei dati, ci troviamo in una condizione ben diversa da quanto proponeva la «distruzione creativa» di Joseph Schumpeter. Qui siamo in presenza di monopoli duraturi e non scalabili che saranno dannosi non solo per i consumatori, ma anche per il potere politico. Enormi ricchezze equivalgono a enormi concentrazioni di potere politico, come mostra chiaramente il modello Usa. Siamo di fronte a cambiamenti così forti, sul fronte ambientale o dell’innovazione tecnologica, che non possiamo lasciare tutte le scelte al mercato inteso come consumatori e produttori. Serve un’attenzione collettiva, serve individuare la direzione di marcia che vogliamo intraprendere. Tecnologie per il lavoro di cura o tecnologie che servono solo a risparmiare lavoro? Troppo spazio viene dato alla difesa e agli armamenti, mentre serve un’economia di scala garantita da una difesa comune, limitando però i rischi di uno smisurato apparato militare-industriale. Nel rapporto c’è poi una totale disattenzione alla partecipazione democratica, il Parlamento non ha spazio.
Altro rischio è la possibile perdita di un’eredità importante dell’Europa: le università dove si fa ricerca pubblica mentre Draghi difende una forte appropriazione privata. E infine c’è un grande dato mancante: non esistono le migrazioni. Pensare al futuro e alla crescita dell’Europa, e non dire alcuna parola sulle migrazioni – l’aspetto che più genera tensione – ci sembra una ferita molto grande.
Se pensiamo a un’Europa diversa da questa possiamo indicare un’ampia lista di proposte e programmi attorno ai quali potrebbe delinearsi un’Europa democratica, sociale e ambientale. Ma se dovessimo individuare alcune priorità ben precise per queste prospettive quali indicherebbe?
Innanzitutto, occuparsi del bilancio europeo. Non esistono politiche efficaci senza forti investimenti pubblici, a partire dall’ambiente e dalla transizione ecologica. L’ambiente è un bene pubblico globale per eccellenza così come lo è la ricerca. Una grande missione europea potrebbe essere, ad esempio, la messa in sicurezza del territorio, utilizzando in modo collettivo i dati. Occorre quindi trovare investimenti pubblici e il bilancio dell’Ue, l’1% del Pil europeo, non è all’altezza di questo compito. Il rafforzamento del bilancio europeo rimanda poi al problema di un’adeguata governance economica che permetta di fare debito ma anche di accedere a risorse dei paesi membri. La seconda priorità è il welfare. Senza immaginare un super-stato sociale europeo, dovremmo però pensare a un’Unione sociale europea. Un contesto, cioè, che renda più facile per i paesi membri realizzare i diritti sociali codificati nei diritti sociali europei. Come si può fare? Smettendola con la concorrenza fiscale, il dumping fiscale, al ribasso: con i paradisi fiscali interni all’Ue e recuperando così più margini di manovra. La Commissione potrebbe esercitare una funzione di monitoraggio e sostegno, vincolando i fondi sociali a una serie di condizionalità, misurando il raggiungimento di alcuni benchmark, i progressi che via via si acquisiscono. Serve infine una governance più democratica e quindi più partecipazione quando si definiscono gli obiettivi dell’Unione. Occorre più partecipazione dei paesi membri e della società civile.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme). Elena Granaglia insegna Scienza delle finanze al Dipartimento di Giurisprudenza dell’università di Roma3. Si occupa del rapporto fra giustizia sociale e disegno istituzionale delle politiche di distribuzione delle risorse. Ha scritto, tra gli altri, Il reddito di base (Ediesse, 2016, con M. Bolzoni), Un Manifesto contro le disuguaglianze (Laterza, 2018, insieme al gruppo Agire) e Uguaglianza di opportunità. Si, ma quale? (Laterza, 2022).
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