
Dalla paura si esce tutti e tutte insieme
L'unica strada per attraversare lo scenario del contagio è prenderci cura della nostra insicurezza. E trovare azioni collettive che impediscano che l'emergenza venga gestita dall'alto e che ci vengano imposte forme di vita e modelli di comando
Noi abbiamo paura.
Ci coglie nel cuore della notte quando ripensiamo alla giornata appena trascorsa, segnata da eventi fino a pochi giorni fa impensabili. Ci prende allo stomaco quando vediamo le file ai supermercati e i detenuti che si arrampicano sui tetti delle carceri per chiedere dignità. Ci attanaglia quando scrutiamo alla finestra le strade dei nostri quartieri semi-deserte e la diffidenza negli sguardi sotto le mascherine. Ci insegue quando scorriamo il bollettino serale con morti, contagiati e ricoverati. L’inquietudine ci sorprende quando ci rinchiudiamo in casa e veniamo privati della ricchezza sociale che caratterizza le nostre vite.
Pensiamo che la paura sia un sentimento legittimo, di cui non vergognarsi e da affrontare collettivamente. Per questo alla paura, cominciando a lavorarci in tempi non sospetti, abbiamo dedicato il numero 6 di Jacobin Italia. Adesso più che mai pensiamo che ci sia bisogno di non aver paura di parlare dei nostri timori, affrontarli collettivamente e uscire dall’atomizzazione forzata. Per questo continueremo a parlare di paura: solo parlandone si impedisce che diventi disperazione e si trasforma in un sentimento attivo e dunque politico e rivendicativo.
La minaccia invisibile e onnipresente che porta il nome di CoVid 19 produce un duplice effetto. Da una parte crea nuovi confini, barriere alla libera circolazione degli esseri umani e non di capitali e merci. Dall’altra costringe tutte e tutti negli spazi angusti delle proprie esistenze individuali. Unica deroga alla reclusione, come recita il decreto emanato qualche giorno da Palazzo Chigi, sono le esigenze lavorative. Ovviamente, in questo caso, attenersi alle regole stabilite dai medici e arginare il virus è una necessità. Ed è proprio per questo che va sottolineata la forma parossistica e iperbolica del disciplinamento capitalista in cui ci troviamo: ci si muove solo se si è utili alle esigenze della produzione. Noi pensiamo che anche in questo caso, anche di fronte alla paura del contagio e al dramma che colpisce soprattutto i più deboli, si debba trovare il modo di rompere l’isolamento, mantenendo spazi di autonomia di pensiero e discussione, praticando, nei limiti del possibile, spazi di partecipazione che vadano oltre le mere esigenze della produzione, rivendicando la priorità della vita delle persone sui profitti.
Rispettare i limiti necessari a battere il contagio non significa spegnere il cervello. Va detto e ripetuto che ci ha portato qui la competizione individuale, e ci salverà solo la cooperazione collettiva. Suona paradossale che chi comanda faccia appello alla responsabilità sociale e alla tutela del bene comune dopo anni in cui si è predicato il trionfo della competizione, del merito, del darwinismo sociale e in cui, come ha scritto su Repubblica il sociologo Ilvo Diamanti da direttore dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza, si è prodotta in alcuni settori sociali una specie di «assuefazione alla paura» capace di rendere quasi inascoltati gli allarmi di queste ore. È la dimostrazione che nessun potere dall’alto può vincere una guerra come quella al virus senza una mobilitazione dal basso, soprattutto se quel potere da troppo tempo si è messo al servizio del profitto di pochi, e ha limitato per questo gli stessi strumenti, come la sanità pubblica, con cui ora prova ad agire. È la prova che dentro questo spazio, anche se reclusi dentro casa o costretti a centellinare le relazioni sociali, possiamo prenderci cura collettivamente delle nostre paure e far pesare la nostra voce. E prepararci alla battaglia per la ricostruzione, quella in cui dovremo fare i conti su chi, tra i servizi pubblici universali e il libero mercato, ci ha protetto e chi ci ha messo in pericolo.
Il noto (e un po’ abusato) paradosso di Fredric Jameson, poi ripreso da Mark Fisher, secondo cui siamo immersi a tal punto nella mancanza di alternative all’attuale modello di produzione che è più facile immaginare la fine del mondo rispetto alla fine del capitalismo viene improvvisamente superato dai tragici eventi di queste settimane. L’epidemia globale di Coronavirus è uno dei tanti modi in cui il capitalismo, coi suoi modelli di allevamento intensivo e la miopia dell’industria farmaceutica, rischia seriamente di determinare la fine del mondo che abbiamo conosciuto.
Quella che sembra una vera e propria Apocalisse, nel senso proprio di distruzione del mondo e al tempo stesso svelamento delle verità, inserita nel contesto a sua volta apocalittico della crisi climatica, non era percettibile ai nostri occhi quando, ormai mesi fa, abbiamo cominciato a ragionare su un numero della rivista dedicato al tema della paura. Non avevamo previsto tutto questo, il panico generalizzato e l’angoscia per un nemico imprevedibile, mortale e contagioso. Ma avevamo intuito che la paura fa parte ormai da anni del nostro vissuto quotidiano. Il potere di decidere sullo stato d’emergenza gioca la sua parte, la politica della paura agisce tutti i giorni per costruire forme nuove di sovranità e di comando sulle nostre vite. Al tempo stesso, però, ci eravamo resi conto che in tempi di precarietà e angoscia esistenziale avere paura è inevitabile, non è solo il frutto di un’opera di manipolazione delle coscienze dall’alto ma la reazione fisiologica all’incertezza e alla solitudine.
Ecco perché abbiamo scelto di relazionarci al sentimento della paura nella sua complessità, abbiamo provato a coglierne la natura sociale e dunque a capire come questa possa produrre forme di alleanza dal basso e tessitura di percorsi collettivi. Della paura come emozione specifica della nostra epoca abbiamo deciso di farci carico, di trovare il modo per iniziare a discuterne e prendercene cura per affrontarla tutti insieme.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.