
Davide migrante contro Golia Fincantieri
Una battaglia (per ora vinta) da quaranta lavoratori bengalesi che lavorano in appalto a Marghera illumina la condizione negli stabilimenti della multinazionale a maggioranza pubblica
Sono le sette di sera del 2 febbraio quando, a Marghera, quaranta lavoratori bengalesi firmano il contratto a tempo indeterminato con Humangest, agenzia di somministrazione che opera per conto di Isolfin – azienda di coibentazione in appalto per Fincantieri. La nota di Humangest – riportata dall’edizione mestrina del Gazzettino del 3 febbraio – parla di assunzioni «in linea con i termini dell’accordo precedentemente sottoscritto con le organizzazioni sindacali». La lotta, per il momento, ha pagato e il risultato è conseguito. Ma il percorso è stato tortuoso e merita di essere raccontato, al fine di accendere i riflettori su quanto accade ogni giorno negli stabilimenti del gruppo Fincantieri, multinazionale di proprietà perlopiù pubblica (tramite Cassa Depositi e Prestiti) con posizione di leadership nel mercato mondiale per la produzione di navi sia civili sia militari.
L’organizzazione del lavoro in Fincantieri
Fincantieri possiede e controlla stabilimenti in diversi paesi. Negli Stati uniti, dove lavora per conto della marina, ma anche in Romania, Norvegia, Brasile, Vietnam e ovviamente in Italia dove la produzione navalmeccanica, geograficamente diffusa, insiste su diverse regioni del paese. A Monfalcone, Marghera, Sestri Ponente e Ancona le navi da crociera che vengono realizzate sono delle vere e proprie città galleggianti: una nicchia produttiva, il cui know how è ancora in Europa, al momento non insidiato (in attesa di un balzo in avanti cinese) dai competitors dell’Estremo Oriente. Eppure le condizioni di lavoro sono estremamente problematiche a causa, tra l’altro, dell’organizzazione del lavoro adottata dal colosso pubblico. L’80% del valore di una nave prodotta in Italia è infatti realizzato da ditte esterne, più di 400 all’interno dei maggiori stabilimenti come quelli di Monfalcone e Marghera. «La giungla degli appalti» – così viene spesso definita in casa Fiom – ha ridefinito dagli anni Novanta a oggi la fisionomia della forza lavoro navalmeccanica. I dipendenti diretti sono una minoranza e tra essi la componente impiegatizia ha un ruolo maggiore rispetto al passato. È inoltre aumentata la quota di lavoratori Fincantieri addetta alla supervisione e al controllo della produzione portata avanti dalle imprese di appalto e subappalto.
L’imperativo dominante è quello di tagliare i costi, probabilmente più di quanto avvenga in Francia o in Germania nel medesimo settore. I lavori vengono dati spesso al ribasso, prova ne è il Mol (Margine Operativo Lordo) sofferente di molte ditte che da questo meccanismo vengono spremute. Chi paga il conto è il lavoro vivo, taglieggiato nei diritti, così come nel salario diretto e ancor più indiretto e differito. Il lavoro vivo nel comparto navalmeccanico è spesso e volentieri lavoro migrante. Negli stabilimenti del Nord e di Ancona che qui consideriamo (diversa è la situazione al Sud), l’organizzazione del lavoro si regge sulla segmentazione etnica, su precise gerarchie che dividono, scompongono, frammentano la classe. I lavoratori diretti sono italiani. I più numerosi lavoratori indiretti sono migranti interni dal Mezzogiorno (Castellammare di Stabia è ancora un bacino di reclutamento significativo), rumeni, croati. Moltissimi e prevalenti i bengalesi. La manodopera dell’Europa dell’Est è generalmente dedita alle lavorazioni più specializzate, quella del Bangladesh ricopre le mansioni che la sociologia classificherebbe sotto l’insegna delle tre D (dirty, dangerous, demeaning jobs). C’è da dire che dopo vent’anni di presenza, gli immigrati bengalesi stanno iniziando ad accedere a segmenti più professionalizzati del ciclo produttivo (es. tubisteria, impianti elettrici ecc.), ma rimangono sovrarappresentati nelle pulizie, nella coibentazione, nella molatura, nella verniciatura. La fame di salario, del resto, incide così come la necessità di rinnovare il permesso di soggiorno. Nelle biografie e nel progetto migratorio di molti lavoratori bengalesi spesso l’unica alternativa è la ristorazione – che quasi sempre significa nero, turni ancora più impossibili.
«Lavoravo per un ristorante cinese di merda» ci ha detto, nel corso di un’intervista realizzata nell’ambito di un progetto di ricerca, un operaio di Monfalcone, interpretando in senso «etnicizzato» lo sfruttamento (accade così anche per i lavoratori pakistani nel distretto tessile del pratese, vessati da contoterzisti anch’essi cinesi). «Quando lavori in cucina per dieci ore, devi lavorare sempre. Sei in uno spazio chiuso, non puoi andare in bagno o prenderti due minuti per un caffè. Se vuoi avere un attimo per respirare, arriva subito il capo che ti redarguisce prontamente» racconta un lavoratore di Marghera, addetto alla coibentazione. Esperienze di vita che spiegano come il lavoro operaio rappresenti ancora un residuo di garanzie minime. Anche il lavoro operaio deregolato e precario degli appalti del sistema Fincantieri porta con sé un pacchetto relativo di sicurezza sociale. Più dei ristoranti, nel paese in cui i ristoratori piangono un giorno sì e l’altro pure su giornali disposti a ospitarne le lamentele: per via del reddito di cittadinanza non si trova personale, asseriscono seriosi. I governi – Draghi in primis e Meloni più robustamente e radicalmente – traggono le conseguenze: disciplina, workfarismo ancora più spinto, tagli al sussidio.
Tornando a Fincantieri – che per alcuni lavoratori immigrati è pur sempre meglio di molte cucine – funziona così. Quasi tutte le ditte d’appalto non offrono una paga regolare, sindacale. Regna il sistema della cosiddetta «paga globale». È un sistema retributivo illegale pensato per consentire ad appaltatori e subappaltatori un governo ampiamente discrezionale della forza lavoro. Il lavoratore viene privato delle ferie, della malattia, dei permessi, della tredicesima, del Tfr, degli infortuni, delle ore di assemblea sindacale retribuita. Questi istituti contrattuali – che sono parti essenziali della retribuzione – sono conglobati e forfetizzati in una paga oraria individualmente contrattata tra lavoratore e impresa. Altre volte la busta paga, a una prima e superficiale lettura, sembra regolare ma viene utilizzato ampiamente l’istituto della trasferta (detassato) per lavoratori che non si sono mai mossi dal cantiere di Marghera o di Monfalcone o di Genova. Altre volte ancora nelle buste paga vengono inserite ore di assenza fittizia per taglieggiare il salario. O vengono addebitati i costi della doccia. Nei casi più gravi il titolare (a volte connazionale degli operai sfruttati) accompagna il suo dipendente al bancomat e si fa restituire parte dello stipendio – a volte centinaia di euro. La forfetizzazione delle ore di straordinario (su cui i lavoratori contano per arrivare a ottenere un salario decente) viene favorita dal fatto che Fincantieri non mette a disposizione delle organizzazioni sindacali il registro delle timbrature per verifiche strutturali e costanti. Inoltre, appena un lavoratore interrompe il suo rapporto con una ditta è difficile poter accedere allo «storico» per chiedere l’esatto numero di ore lavorate e gli eventuali arretrati tramite vertenza legale (nelle vertenze legali – specie se il sindacato fa un lavoro di «indagine» poco accorto – succede spesso che l’operaio ottenga molto meno di quanto gli spetterebbe). Il sottoinquadramento e la mancata corresponsione degli scatti di anzianità sono la norma. La paga globale come sistema, comunque, è molto correlata alla razzializzazione della forza lavoro. Nel cantiere di Palermo, dove gli occupati sono prevalentemente locali e campani, irregolarità e problemi retributivi nell’appalto sono comunque all’ordine del giorno ma il meccanismo strutturale della paga globale è meno oliato. Nei cantieri con costante presenza di lavoro migrante è invece legge non scritta.
Una piaga, portatrice di evasione fiscale e contributiva, che si approfitta di alcune particolarità che il lavoro mobile porta con sé. Lavoratori croati che hanno un progetto migratorio di breve termine, che vogliono monetizzare tutto e subito, con poca attenzione alla contribuzione sociale. Lavoratori bengalesi con famiglie in patria, in attesa del ricongiungimento: forte necessità di cash per inviare rimesse; nel breve periodo meno propensione a godere di ferie e permessi. Poi magari le cose cambiano a inclusione avvenuta nel tessuto sociale, con l’avvicinamento alle esigenze ordinarie dei lavoratori italiani. Ma il capitale, finché può, sfrutta in maniera differenziale situazioni specifiche. E fornisce un esempio da replicare nei contesti circostanti. Un sindacalista di Usb a Monfalcone lamenta che il meccanismo della paga globale si stia espandendo in altre realtà produttive del territorio. Ad Ancona un esponente della Fiom ci dice lo stesso: nell’edilizia – nel gran cantiere della ricostruzione post-terremoto delle Marche – i meccanismi sono molto simili a quelli esemplari della Fincantieri.
Il conflitto sindacale possibile
L’ordine delle cose si può sfidare, ma il sindacato resta indietro, in affanno. Certo, una partita è stata vinta: in Italia nessuno stabilimento di Fincantieri è stato chiuso al tempo della ristrutturazione. Un’anomalia rispetto a quanto successo in Francia, dove ci sono state chiusure e razionalizzazioni, o in Svezia con la dismissione radicale del settore. È un risultato di sicura importanza, dato il carattere diffuso della produzione cantieristica italiana. L’impatto sociale della chiusura degli stabilimenti di Palermo e Castellammare, in contesti difficili e segnati da marginalizzazione e disoccupazione croniche, sarebbe probabilmente devastante. Ma il prezzo da pagare per non chiudere è stato drammatico sull’organizzazione del lavoro, su cui i sindacati hanno pochissimo margine di manovra e contrattazione. Fincantieri applica il contratto nazionale dei metalmeccanici, ma l’articolo 9 di questo contratto (il presidio di civiltà che limita l’esternalizzazione delle funzioni core, non a caso ciclicamente attaccato – per ora senza successo – da Federmeccanica) in Fincantieri non trova riscontro. Fincantieri è un’azienda di Stato, ma nei suoi appalti e subappalti la legge dello stesso Stato non vale. La centralità della forza lavoro migrante richiederebbe una sfida per il sindacato a ripensarsi, a decolonizzare lo sguardo, a interessarsi alla soddisfazione di bisogni materiali che vanno oltre le mura e i cancelli degli stabilimenti cantieristici (la questione abitativa a Monfalcone è assolutamente drammatica e si combina con politiche di welfare escludenti dell’amministrazione a trazione leghista).
Forse è proprio per questo stato di difficoltà delle organizzazioni dei lavoratori che raccontiamo alcuni segnali di controtendenza come la vertenza che si è chiusa positivamente a Marghera il 2 febbraio. La Fiom nel cantiere veneto è riuscita a sindacalizzare i lavoratori di qualche ditta di appalto. Così a Genova e Palermo. Altrove la situazione è più prossima all’anno zero. La lotta in questione, a ogni modo, inizia nel pieno dell’emergenza pandemica. I lavoratori di una ditta subappaltatrice che opera nella coibentazione – la New World Service – sono senza stipendio da mesi. Una condizione drammatica, che incide maggiormente nel periodo più duro dell’emergenza dovuta al Covid-19. Gli operai, di nazionalità bengalese, si rivolgono al sindacato. Congiuntura vuole che organizzare un’assemblea ai tempi del pieno dilagare del virus è arduo e complesso. In qualche modo si prova a fare, con i dipendenti che tra l’altro sono marcati a vista, fin sotto la sede della Cgil, dal titolare (anch’esso bengalese, che si appoggia a un consulente del lavoro di Ancona). Denunciano di essere sottoposti alla paga globale. Gli scatti di anzianità non vengono riconosciuti. E ci sono le mensilità arretrate. La Fiom manda ai propri legali la documentazione per procedere. Dalla New World Service arriva un acconto ai lavoratori, nemmeno 1.000 euro per qualche mese di salari non corrisposti. Si va in tribunale, mentre l’azienda appaltatrice decide di tagliare i propri rapporti con la ditta di subappalto evidentemente divenuta problematica. Si riesce a imporre a questa di farsi carico dei dipendenti divenuti di colpo in esubero. Lo fa tramite Humangest, agenzia di somministrazione cui Isolfin si affida (questo a riprova della complessa geografia degli appalti interni a Fincantieri, una giungla in cui è difficile districarsi). Ma Humangest propone agli operai sempre e solo contratti brevi: un mese, due mesi o giù di lì. Nonostante si fosse riusciti a ottenere il mantenimento delle condizioni economiche e normative (contratto metalmeccanico), nonché il riconoscimento dell’anzianità pregressa maturata con New World Service, la precarietà estrema continua a mordere. E i lavoratori, da subito, iniziano a covare malessere. Così continuano a organizzarsi con la Fiom che, nel frattempo, utilizza il tempo guadagnato per eleggere le Rsu sia in Isolfin che in Humangest. La Fiom, a dire il vero, fa da regista. Isolfin applica il contratto dei chimici, così la Rsu sarà della Filctem Cgil. Stesso discorso per i somministrati di Humangest, con un ruolo per il Nidil. La Rsu di Isolfin conta tre rappresentanti: due italiani e un benglese – tutti in quota Cgil (Cisl e Uil non si occupano degli «indiretti»). Quella di Humangest tre rappresentanti, tutti e tre bengalesi. Uno specchio della forza lavoro, che nell’agenzia di somministrazione è al 90% bengalese. A riprova di una segmentazione feroce.
Che Fiom, Filctem e Nidil riescano a coordinarsi è un fatto positivo, non scontato. Il rischio è che ognuno proceda a compartimenti stagni, in un posto di lavoro dove proliferano i contratti nazionali di lavoro più disparati (artigianato, legno, l’immancabile multiservizi che sostituisce il metalmeccanico nelle pulizie industriali). A Monfalcone hanno trovato addirittura un uso fraudolento del contratto dell’agricoltura, giusto per evitare e aggirare le disposizioni contenute nel Decreto Dignità. Senza il ruolo di coordinamento tenuto dalla Fiom a Marghera – ruolo che alle tute blu della Cgil non riesce in tutti i cantieri, a testimonianza di una situazione complessa – ogni categoria sarebbe potuta andare per conto proprio riproducendo la frammentazione e le divisioni prodotte dalla liberalizzazione estrema. I lavoratori bengalesi vogliono acquisire maggiori diritti e farla finita con i contratti di breve periodo. Dal primo livello dell’appalto rispondo che la colpa è di Fincantieri. Ci sarebbero ritardi nei pagamenti. Uno scaricabarile che non convince i lavoratori, che a dicembre del 2022 ottengono alcuni impegni: un percorso di stabilizzazione (parte in Isolfin, parte in Humangest) e somministrati a tempo determinato soltanto per periodi non inferiori ai 6 mesi. Nelle loro rivendicazioni, gli operai fanno i conti innanzitutto con la materialità della propria condizione di vita. Contratti troppo brevi sono un problema per rinnovare il permesso di soggiorno, è come vivere con una spada di Damocle della doppia precarietà (lavorativa ed esistenziale) continuamente sulla testa. E non consentono di chiedere un mutuo per comprare casa. Per molti la stabilizzazione potrebbe essere un traguardo con una prima concretizzazione: il sogno di un tetto, liberi dalla morsa degli affitti. La riproduzione sociale conta, e non poco, nel definire i rapporti di potere interni al posto di lavoro. La casa è una delle fonti di vulnerabilità. Potrebbe anche essere un terreno di conflitto per un sindacato capace di rinnovarsi.
Questi impegni strapparti alle controparti avrebbero dovuto cominciare a prendere gamba col finire di gennaio 2023, dopo un ultimo rinnovo di breve periodo. A fine gennaio non si materializza nessuno, azienda e agenzia sembrano scomparse. Si teme, da parte di Fiom e Cgil, che i lavoratori possano pagare un conto salato per aver «osato» avvicinarsi al sindacato e costituire una Rsu. Succede spesso nel modello Fincantieri. Riesci a sindacalizzare una ditta e quella nel giro di poco tempo sparisce. Sempre a Marghera era successo con Arcobaleno, impresa di pitturazione e sabbiatura. Anch’essa aveva visto processi di organizzazione collettiva degli operai bengalesi, che avevano portato all’elezione di una rappresentanza. Tempo pochi mesi e Arcobaleno aveva iniziato a non pagare. Un infernale gioco dell’oca, in cui l’obiettivo è quello di farti tornare sempre alla casella di partenza.
Ad ogni modo, stavolta inizia una mobilitazione dei lavoratori. In prima battuta senza riscontro nelle controparti. Controparti al plurale, perchè si prova naturalmente a trattare a più livelli: Fincantieri, Isolfin, Humangest. Risalire e riscendere la filiera. Il 2 febbraio si torna in presidio, con due ore di sciopero. Stavolta si adotta una pratica più radicale: si bloccano le merci. Dalle testimonianze raccolte chi doveva consegnare ha perfettamente capito la situazione e ha mostrato empatia, vicinanza, solidarietà. Il blocco smuove Fincantieri, che si trova costretta a esercitare pressione su Isolfin e Humangest per concludere positivamente la vertenza. In serata si stabilizzano una quarantina di lavoratori. Tempo indeterminato. Non senza un ultimo tentativo padronale di inserire trenta giorni di periodo di prova nei contratti individuali di lavoro, affondo che la Fiom respinge. Del resto si parla di operai che in cantiere sono impiegati da anni, scappatoie per esercitare un mese di potere arbitrario sarebbero una beffa. La vertenza si chiude, con contratti sottoscritti nella sala della Rsu. Un segnale importante, perché in posti di lavoro così segmentati, dove il lavoro diretto è residuale rispetto a quello esterno, nonché più impiegatizio e più di supervisione rispetto al passato, il rischio che la Rsu assuma un atteggiamento corporativo – da «aristocrazia operaia» – è sempre presente. I simboli contano.
Restano alcune questioni da monitorare. Humangest stabilizza una quarantina di lavoratori, ma continuerà a usarne altri a tempo determinato. Su questo – ci dice un lavoratore bengalese – si continuerà a vigilare; si è firmato per il risultato, ma non tutto è risolto e probabilmente sarà necessario stare col fiato sul collo delle controparti, pronti a rilanciare la mobilitazione se necessario. I lavoratori inoltre passano dal contratto metalmeccanico a quello chimico (lo stesso di Isolfin); secondo una clausola dell’accordo le condizioni comunque dovrebbero essere almeno pari a quelle precedenti. Incrociando i livelli del Contratto nazionale di lavoro applicato in precedenza e quello nuovo potrebbe esserci bisogno di istituire un superminimo. Tutti temi su cui le parti torneranno a confrontarsi in un tavolo già convocato dopo la metà di febbraio.
La necessaria comunità di lotta
Intanto i lavoratori hanno ottenuto una vittoria parziale. Difficile, dentro la giungla degli appalti. Difficile perché è stato difficile tenere insieme quella che – con le parole di Davide Però, studioso di indie unions e sindacalismo di base – potremmo definire community of struggle, comunità di lotta. In contesti così segnati dalla precarietà e dall’incertezza è fisiologico cercare vie di fuga individuali. Ma stavolta si è restati uniti e si è vinto. Gli esseri umani in fusione sono più forti di quelli in serie, destinati a esperire da soli la quotidiana sopraffazione di un capitalismo così feroce (qui ben rappresentato da un’azienda di Stato). Insomma, la lotta paga. Ma il percorso non è semplice o scontato in situazioni del genere. Gli appalti sono un terreno drammatico di impoverimento e schiacciamento del lavoro e dei suoi diritti. Un buon motivo per essere molto preoccupati delle riforme del codice degli appalti pubblici che prima Draghi e ora, in uno sfondamento all’insegna della deregulation più selvaggia, Meloni e Salvini hanno portato e stanno portando avanti. Meno vincoli, meno regole e subappalto libero perché «non bisogna disturbare chi produce», secondo il vangelo della premier. Ma subappalto libero significa solo una cosa: insicurezza e lavoro nero. Speriamo di poter raccontare di nuovo di altri episodi in cui Davide batte Golia, in cui il lavoro migrante può segnare un goal nella porta di chi sfrutta ed esternalizza.
*Nicola Quondamatteo, dottorando in scienze politiche e sociologia presso la Scuola Normale Superiore, si occupa di lavoro, precarietà e movimenti sociali. È autore di Non per noi ma per tutti. La lotta dei riders e il futuro del mondo del lavoro (Asterios 2019).
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