«Fate parlare gli esperti». Chi si deve occupare di un’epidemia?
È già successo per le questioni economiche, e in generale per ogni tema che stimola un'attenzione di massa. La concezione ingenua dell'esistenza di una scienza oggettiva che ci guida nasconde le scelte politiche che vengono fatte
Ogni volta che l’attenzione di un’ampia fascia di persone viene catalizzata da un evento particolarmente rilevante c’è qualcuno che dice: «fate parlare gli esperti». È successo a lungo e succederà per le questioni che riguardano l’economia, dalle politiche di austerità all’euro, ma succede sostanzialmente per tutti i settori, dalla giustizia alla scuola, dai trasporti all’urbanistica. A volte l’idea del far «parlare gli esperti» deborda fino a investire i referendum. In molti non si sono ancora ripresi dall’aver visto la gente votare sulle centrali nucleari o sulle proroghe alle concessioni per le trivellazioni. Quelli più arditi si sono spinti a criticare anche l’idea che gli elettori comuni potessero esprimersi sulla responsabilità civile dei giudici e, pensate un po’, sulla riforma costituzionale.
L’argomento è sempre lo stesso: fate decidere gli esperti, sono loro che sanno che le «cose sono complicate», che «non sono così semplici». Questa posizione è in genere difesa da chi occupa qualche ruolo istituzionale, spesso in una università «prestigiosa», e ripetuta da seguaci che è gentile definire groupies col tono solenne di chi sta dicendo una grande verità che la gente comune non vuole afferrare. In effetti, chi penserebbe mai che si deve studiare per conoscere un tema?
I social network li hanno solo resi più aggressivi, nel tentativo di emulare quello che sembra il loro padre nobile: Nanni Moretti, che in una famosa scena di Sogni d’Oro rimprovera gli aspiranti registi di parlare di cose che non conoscono: «Parlo mai di astrofisica, io? Parlo mai di biologia, io? Parlo mai di neuropsichiatria? Parlo mai di botanica? Parlo mai di algebra? Io non parlo di cose che non conosco! Parlo mai di epigrafia greca? Parlo mai di elettronica? Parlo mai delle dighe, dei ponti, delle autostrade? Io non parlo di cardiologia! Io non parlo di radiologia! Non parlo delle cose che non conosco! Non parlo di cose che non conosco». Ma le intenzioni di Moretti non sembravano quelle di far tacere le persone comuni. Riserva infatti la cattiveria maggiore verso l’esperto da cineclub che critica il film perché il pastore abruzzese, il bracciante lucano e la casalinga di Treviso non lo avrebbero potuto capire.
Curiosamente, o forse no, questa posizione, a prescindere dalla coerenza di chi l’afferma – difficilmente a un ingegnere o a un medico si direbbe di non intervenire in un dibattito sui sistemi politici – è figlia di una visione ingenua della competenza. In modo più o meno esplicito si pensa che alcuni temi abbiano una risposta univoca e che esista da qualche parte una comunità che si incontra e, magari dopo aver armonicamente discusso sorseggiando un brandy, comunica all’esterno la soluzione da seguire. E invece, guarda un po’, «la questione è più complicata di così».
Se si analizzano le decisioni con gli strumenti offerti dalla policy analysis si nota come queste siano il prodotto di processi di cui fanno parte anche le posizioni degli esperti ma non certo esclusivamente. E, soprattutto, che raramente gli esperti hanno una posizione univoca, tant’è che in genere si confrontano studi che esprimono posizioni differenti. Del resto, se mai i processi partecipati fossero presi sul serio, in linea del tutto teorica sarebbe il gruppo di «cittadini informato» a dover prendere infine la decisione dopo aver sentito le opinioni differenti degli esperti.
Ciò è ancora più vero per una questione enorme come una pandemia. A studiare il virus e le possibili strategie di contrasto medico devono essere sicuramente i virologi, ma già nel passaggio dal vaccino alle soluzioni non farmacologiche si assiste all’ingresso nell’arena decisionale di altre competenze. Gli epidemiologi sono medici che hanno una solida base statistica e matematica ma non possono avere un quadro chiaro degli effetti di una politica pubblica su un target indifferenziato o meno di persone. Difficilmente si sono occupati di policy evaluation e quand’anche se ne fossero occupati, la disciplina di per sé è sfuggente, poco incline a dire «questo funziona sicuramente» e a generalizzare i risultati. Ce ne stiamo accorgendo in questi giorni: sappiamo che è necessario il «distanziamento sociale» ma le modalità con cui debba essere realizzato sono varie – dalla chiusura delle scuole alla quarantena, passando per l’isolamento di gruppi o l’imposizione di misure che non consentano contatti ravvicinati. Ma un’altra cosa che spesso sfugge agli epidemiologi è che non basta varare dei provvedimenti perché abbiano efficacia. È altrettanto importante la modalità di implementazione e la verifica se riescono a incidere sul fenomeno che si intende modificare. Ed è ingenuo ritenere che lo stesso intervento possa avere gli stessi effetti in gruppi-obiettivo diversi, ricchi, poveri, cittadini, campagnoli, istruiti, eccetera. Sarebbe già complicato se si potessero seguire pedissequamente le indicazioni degli epidemiologi ma i decisori ovviamente dovranno fare i conti con gli interessi in campo, che sono in grado di distorcere la decisione originale. Ricapitolando:
- prendere una decisione non significa che quella decisione sia giusta perché quella giusta tecnicamente non esiste;
- la decisione originaria verrà distorta dagli interessi differenziati presenti nelle arene decisionali;
- la decisione avrà differenti modalità di implementazione e quindi differenti esiti;
- tra le altre cose l’esito dipenderà anche dalle caratteristiche del gruppo a cui la decisione è destinata.
Eppur si decide. A cosa servono i numeri
Nel caso dell’epidemia il problema è stato identificato con una certa correttezza: si teme che il sovraccarico degli ospedali finisca con l’esaurire la disponibilità di posti, soprattutto in terapia intensiva, con la conseguente impossibilità di somministrare cure fondamentali a un numero ampio di malati. Ma a inizio febbraio il problema che emergeva necessitava di una conoscenza approfondita di almeno due dati:
- il numero di posti disponibili in terapia intensiva, in forma disaggregata;
- quante persone era pensabile supporre che potessero arrivare insieme in terapia intensiva.
Il numero di posti disponibili in terapia intensiva
Oggi, un conteggio dei posti disponibili in terapia intensiva non è immediato sia per le difficoltà del sistema di fornire dati precisi sia per la natura stessa dei riassetti ospedalieri. I posti in terapia intensiva non sono stabili, perché una parte – non è chiarissimo quanti – di questi sono «attivabili» per far fronte a emergenze, ma non vengono tenuti in funzione costantemente, per i soliti motivi di risparmio. Le esigenze di risparmio non riguardano tanto le strutture fisiche – camere, arredi, spazi – quanto il personale necessario per farle funzionare. È relativamente facile attivare la struttura fisica nel momento in cui serve un posto in più, magari con straordinari, sovradimensionamento di mansioni o ricorsi a precariato; diventa una catastrofe se c’è l’improvviso sovraccarico, proprio per via del personale che andrebbe impiegato. Quando si legge di turni interminabili e di medici e infermieri stremati ci si riferisce proprio a questo.
Ad ogni modo stime più o meno precise danno una disponibilità di posti letto in terapia intensiva in Italia in una forbice compresa tra 5.200 e 6.300 all’inizio di febbraio. Di questi in genere una percentuale intorno al 50% è fisiologicamente già occupata, a chi è colpito dal SARS-CoV.2 ne rimarrebbero quindi circa 3.000. Al 6 aprile si stima un incremento di posti in terapia intensiva di circa 1.500 unità, insomma saremmo intorno ai 7.500 posti disponibili. Come detto però questo dato andrebbe disaggregato perché le regioni d’Italia non sono tutte uguali. Così mentre i 1.600 posti letto della Lombardia sono quasi tutti occupati i 557 del Lazio o i 153 della Calabria sono pieni solo per il 20%.
Quante persone è pensabile supporre che possano arrivare insieme in terapia intensiva
In questi giorni in tanti aspettano la conferenza stampa della protezione civile alle 18 di ogni sera con i dati delle ultime 24 ore. Sono questi i dati su cui si sono scatenati modellisti e epidemiologi nonostante sia ormai assodato che la base dati da cui tutto parte – il tampone – sia sostanzialmente inaffidabile. Ad ogni modo il calcolo a spanne, confortato da alcune ricerche sull’andamento dell’epidemia in Cina, stima che tra il 4 e il 5% dei contagiati avrà bisogno di cure in terapia intensiva. L’8 aprile, in Italia, su 95.262 contagiati ci sono 3.693 persone in terapia intensiva, circa il 4%. Ci sono mille cautele da prendere su questi ultimi conti. Il numero dei contagiati è sicuramente sottostimato e le modalità di somministrazione del tampone si modificano col tempo ed è ragionevole attendersi una diminuzione di contagiati che necessitano dei servizi ospedalieri. Il problema enorme continua a riguardare il fatto che stiamo parlando di un dato aggregato quando sull’Italia pesa come un macigno il caso Lombardia in prima battuta e il gruppo Piemonte, Emilia, Liguria, Marche, Veneto in seconda.
Chi ha preso le decisioni – che sarebbe sbagliato identificare tout court con il governo o il presidente del consiglio – conosceva questi numeri e i provvedimenti mostrano la capacità di influenza dei gruppi di interesse più che una specifica aderenza con il problema da aggredire. L’epidemia della Lombardia è diversa da quella della Basilicata e – considerate le modalità di diffusione del virus – strettamente dipendente dalle abitudini degli abitanti di quei luoghi. In Lombardia si sta nelle fabbriche e stretti in metropolitana, in Basilicata no ed è amaramente beffardo osservare che le cautele prese per la Basilicata superano enormemente quelle prese per la Lombardia. Ai gruppi di potere della parte più influente dello Stivale è stato relativamente agevole relegare le caratteristiche dell’epidemia in secondo piano. Non serve neanche troppa immaginazione per osservare come questi si siano saldati con il cinismo politico delle élite meridionali che hanno intravisto nella pandemia un’occasione per aumentare la propria visibilità.
A nulla è servito il «Piano nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale» di cui, su raccomandazione dell’Oms, preoccupata dall’epidemia di aviaria del 2003, il Ministero della salute si è dotato nel 2006. Secondo il piano, durante la fase pandemica l’impatto di misure di restrizione della mobilità sarebbe limitato mentre la cosa più importante sarebbe evitare i viaggi verso aree non ancora infette; isolare i pazienti preferibilmente a livello domiciliare o in apposite aree attrezzate; dotare di mascherine i pazienti sospetti e più in generale chi ricorre all’assistenza medica (non è raccomandato per persone non sintomatiche in luoghi pubblici); cercare di ridurre l’intervallo tra l’esordio dei sintomi e l’isolamento. Sono raccomandazioni che lo Stato faceva a sé stesso. Magari è per questo che ha ritenuto di poterle disattendere senza troppe preoccupazioni.
L’illusione di un futuro, la speranza di un altrove
Se questa è la situazione pensare di «guardare i dati» per trovare lì la fine dell’incubo in cui siamo precipitati tutti non è granché utile. Del resto nessuno, né tra i decisori, né tra gli epidemiologi, né tra i virologi, si azzarda a dire quale dovrebbe essere il dato che consenta il «passaggio di fase».
Della curva incrementale abbiamo accennato: il picco degli incrementi è stato toccato verosimilmente tra il 20 e il 21 marzo e quello di cui si parla in questi giorni pare di capire sia il «picco dei contagiati». Ora, è necessario però comprendere che questo «picco» così inteso non arriverà sostanzialmente mai, perché anche se in forma lieve prima o poi il virus ce lo prenderemo tutti, quindi fino a quando non si copre l’intera popolazione italiana il picco non ci sarà, almeno questa sembra l’ipotesi più diffusa tra virologi ed epidemiologi. Sarà possibile un periodo, molto limitato nel tempo, in cui non si registrano nuovi contagi, ma basterà allentare un po’ la stretta perché il virus torni a girare. Un’altra ipotesi è che si aspetti il decremento sostanziale dei posti occupati in terapia intensiva. Ma ancora, qual è la soglia che ci si aspetta? Insomma, cosa dovrebbe succedere il primo, il 7 o il 16 maggio?
Quello che però sicuramente sta contando in questi giorni è la dimostrazione di forza che un assetto di potere sta dando in primo luogo ai propri cittadini e in secondo luogo sulla scena internazionale. Con la collaborazione dei soggetti più svariati, alcuni inaspettati – come insigni costituzionalisti che che rimandano al «dopo» la discussione sul vulnus di diritti che lascerà questo terribile periodo – altri immediatamente reattivi come le forze dell’ordine, l’Italia non ha rinunciato al suo storico ruolo di laboratorio. E se si osserva con sgomento la realizzazione di un celebre aforisma di Plinkett di Tammany Hall – «tutto sommato che cos’è la Costituzione, tra amici?» – è impossibile non notare come i mezzi di informazione stiano collaborando alla costruzione di un edificio sempre più inscalfibile con vari mezzi:. la costruzione delle prime pagine e delle notizie d’apertura; il diverso rilievo offerto alle posizioni di chi sostiene e rafforza la paura rispetto a chi oppone dei ragionamenti persino banali ma ragionamenti; l’uso spregiudicato delle immagini, come rilevato anche su Giap; e, per finire, l’attacco sistematico a chi sta cercando di battere strade diverse, dipinti come incoscienti, ignoranti, o sulla via della redenzione.
Per rafforzare questo racconto i giornali hanno prima provato a rappresentare la comunità scientifica come unita e concorde, e quando si sono moltiplicati gli approcci differenti li hanno spesso rubricati come eccentrici o marginali rispetto alla scienza ufficiale. L’esempio più clamoroso rimane quello dell’annuncio del 12 marzo del governo presieduto da Boris Johnson sull’immunità di gregge. Il tracotante leader conservatore sostanzialmente riportava, adeguandosi, il parere di epidemiologi illustri come Chris Witty – di rilievo non inferiore a qualche star italiana – che in Italia sono stati descritti come dei superficiali cinici pronti a sacrificare vite per non perdere qualche sterlina. Ma qualsiasi voce scientifica dissonante, che trattasse di previsioni differenti sulla velocità di diffusione del contagio, delle possibilità di trattare i contagiati diversamente e, naturalmente, di realizzare diversamente il «distanziamento sociale» è stata seppellita da riprovazioni basate, secondo i media mainstream, sulla «scienza».
L’attenzione per la Svezia da questo punto di vista è rivelatrice. La Svezia sta adottando una strategia che per gli standard scandinavi prevede già grosse limitazioni ma decisamente distante dalla reclusione forzata accompagnata dalle kafkiane certificazioni per riuscire a prendere una boccata d’aria. Ma questo non significa che si stia disinteressando del problema, come potrebbe sembrare leggendo la stampa italiana, e il monitoraggio dei contagiati può far scattare provvedimenti più restrittivi. In questi giorni il Governo ha chiesto mano libera al Riksdag (il parlamento svedese) per poter gestire gli eventuali peggioramenti in modo più autonomo, e tanto è bastato per titolare «La svolta della Svezia», sottintendendo che si stesse per adeguare al modello italiano. Nell’immaginario del lettore di Repubblica o del Corriere, norvegesi e finlandesi sono chiusi in casa, a differenza degli svedesi che allegramente si assembrano nelle piste da sci. In realtà le limitazioni di Norvegia e Finlandia sono più ampie di quelle svedesi ma ancora molto lontane dal modello di gestione italiano.
Tutto questo, giova ricordarlo, non significa credere che alla fine i risultati migliori saranno quelli di Gran Bretagna, Svezia, Norvegia o Finlandia. Quello che è rilevante è smontare una narrazione: non c’è mai stata una sola strada per affrontare l’epidemia provocata dal Sars-CoV2.
Basta dichiarare un’emergenza?
L’incontro tra la prima pandemia post moderna e una società che nel frattempo aveva sviluppato peculiari modalità nell’affrontare questioni come la vita, la malattia, la diseguaglianza, la scienza, la giustizia va affrontata convocando tutti quelli che di questo si occupano e da questo vengono condizionati ogni giorno della loro esistenza. Cioè da tutti noi. L’avocare la questione a gruppi specifici non risponde a esigenze tecniche, perché generalmente i virologi non hanno idea delle conseguenze della chiusura di una taverna in un paesino in declino industriale, gli economisti non sanno che tipo di conseguenze possa provocare l’improvvisa perdita della privacy, i sociologi hanno idee molto confuse sul significato della vita e della morte, i filosofi possono non tenere conto dei limiti di un sistema giuridico, i giuristi possono essere interessati solo a far quadrare i conti con la Costituzione eccetera. Confrontarsi su quello che non è possibile affrontare con le proprie competenze aiuterebbe tutti a tenere a bada panico e ottimismi. Lo Stato che si preoccupa della mia vita sembra disinteressato a quella di tanti suoi cittadini, quello che pensa di sacrificare gli anziani sembra preoccupato che alla fine il numero di morti per gli effetti sociali dell’intervento non superi quello dell’epidemia. E non si può non vedere con sgomento il passo indietro fatto in poco più di un mese sulla considerazione dei disagi psicologici.
Ma quello che preoccupa più di tutto è la capacità di potersi disfare rapidamente così dei diritti costituzionali, di come immediatamente una delle prime cose da non fare più fosse «riunirsi», in qualsiasi forma fisica. Se basta dichiarare un’emergenza la prossima potrà essere quella ambientale, quella economica e si potrà arrivare rapidamente a quella genericamente criminale. Se si chiude la gente in casa perché uscendo potrebbe infettare, perché non chiuderla in casa argomentando che uscendo potrebbe andare a compiere una rapina? Se si impediscono le riunioni perché pericolose perché non impedirle perché potenzialmente finalizzate a preparare contestazioni violente? Adesso, sia da monito a tutti, si può fare.
*Roberto Salerno è dottore di ricerca in Scienze Politiche e relazioni internazionali. Si è occupato di analisi dei processi decisionali e collabora con Palermograd e con la rivista di storia delle idee inTrasformazione.
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