Giù le mani da George Orwell
L’aggettivo «orwelliano» è stato a lungo un cliché vuoto e anche gli alleati di Trump provano a usarlo per denunciare la chiusura dei profili social dell'ex presidente. Ma se Orwell ci parla ancora è per il suo impegno politico socialista
La presidenza di Donald Trump è finita come è iniziata: con un incremento delle vendite di 1984 di George Orwell. Trump ha provocato un primo picco di vendite del romanzo di Orwell nel 2017, subito dopo il suo insediamento. L’uso da parte di alcuni membri dell’amministrazione Trump dell’espressione «fatti alternativi» ha portato alla ribalta la manipolazione della realtà del Ministero della Verità, il dipartimento della propaganda di 1984 in cui i pezzi di verità fattuale che non si adeguavano a certi scopi erano infilati nel «buco della memoria» per essere inceneriti. Il romanzo più famoso di Orwell sembra quasi anticipare il paesaggio da post-verità tanto caro a Trump.
Quattro anni dopo, mentre il mandato presidenziale di Trump si avvicinava alla conclusione, le vendite del classico di Orwell sono risalite. Stavolta, con uno strano corto circuito logico, erano gli alleati di Trump a evocare Orwell per descrivere non il loro presidente ma i suoi avversari.
Dopo la rivolta di Capitol Hill del 6 gennaio Donald Trump Jr, il figlio del presidente, ha stabilito un confronto rabbioso tra il bando di Twitter contro suo padre e la distopia orwelliana, sostenendo che «viviamo ormai nel 1984 di George Orwell. La libertà di parola ormai non esiste più in America. È morta con l’avvento di Big Tech e quel che rimane vale solo per pochi». Nel frattempo il senatore del Missouri Josh Hawley descriveva l’annullamento del suo contratto editoriale con la casa editrice Simon & Schuster come «orwelliano», sostenendo che «la Sinistra si dà da fare per cancellare tutto quello che non approva».
L’invocazione di Orwell negli anni di Trump dimostra la duratura influenza e la forza retorica dell’autore inglese, ma solleva anche questioni sull’interpretazione della sua eredità. È più corretto descrivere Trump come la vittima o come il responsabile dello scatenamento delle forze orwelliane? Quali erano le idee di Orwell e cosa può ancora dirci sulla politica dei nostri giorni?
Sulla verità
Cominciamo con Hawley e Trump Jr, che si appellano a Orwell sulla base della sua reputazione come oratore disposto a sostenere le verità più spiacevoli e come strenuo difensore della libertà di espressione. Se oggi Orwell fosse vivo, ecco il loro ragionamento, considererebbe le azioni di Twitter e di Simon & Schuster come una violazione del diritto di espressione.
In effetti Orwell è stato un fiero avversario della censura anche rispetto a prospettive che lui avversava con forza, non importa se la censura fosse l’azione dello stato, di un partito o di un privato, come ha sottolineato di recente la storica Laura Beers. «Il livello di libertà della stampa del nostro paese è spesso sovrastimato», scrisse Orwell nelle pagine di Tribune, un periodico di sinistra britannico. «In teoria c’è una grande libertà, ma il fatto che gran parte della stampa sia proprietà di poche persone [implica] una sorta di censura di stato».
Parole che oggi indicherebbero un sospetto verso la capacità di controllo dell’opinione degli utenti da parte delle imprese che possiedono il monopolio dei social media. E come ci ricorda Beers, considerata la difficoltà che ebbe nel trovare editori disposti a pubblicare le sue idee controverse, non è difficile immaginare che Orwell oggi avrebbe messo in discussione le implicazioni della decisione di Simon & Schuster. Ma al contrario di Hawley e Trump Jr, Orwell sapeva, per esperienza diretta, che le prime vittime dell’oppressione politica sono di rado i conservatori. E lo scrisse in quello stesso articolo:
La polizia britannica non assomiglia alle forze dell’ordine dell’Europa continentale e tanto meno alla Gestapo, ma non penso di diffamarla dicendo che nel passato si è dimostrata ostile verso le attività della sinistra. Tendenzialmente sta dalla parte di chi difende la proprietà privata.
Orwell continua il suo articolo descrivendo come la polizia abbia appoggiato il fascista britannico Oswald Mosley. È una dinamica che ricorda il trattamento discriminatorio della polizia verso gli attivisti di Black Lives Matter e i manifestanti contro Trump. «Nell’unico grande raduno di Mosley che ho osservato», scrive Orwell, «la polizia collaborava con le camicie nere per ‘mantenere l’ordine’. Non avrebbe fatto lo stesso con i socialisti o i comunisti». Pertanto, anche se è ragionevole pensare che Orwell avrebbe riconosciuto il senso delle lamentele di Hawley e Trump Jr, si può con altrettanta certezza dire che non avrebbe solidarizzato con il loro vittimismo, e tanto meno con le loro prospettive ideologiche.
Ma se Hawley e Trump Jr non possono facilmente arruolare dalla propria parte Orwell, possono forse farlo gli avversari di Trump? L’elezione di Trump ha davvero preannunciato l’incubo di 1984?
Nonostante le sue tendenze autoritarie, è evidente che Trump non sia l’equivalente del Grande Fratello, anche perché la sua presa sul potere è sempre stata meno salda di quella del Partito nel romanzo di Orwell. Trump ha ostentato un’attrazione emotiva simile a quella che Orwell denunciava nella sua recensione del 1940 del Mein Kampf di Hitler, ma ha anche messo in guardia verso un uso eccessivo della parola «fascista» come termine denigratorio per criticare le politiche degli avversari. Questo ci porta a pensare che avrebbe anche preso le distanze da certe denunce del mondo della sinistra nordamericana verso Trump.
Inoltre per molti Trump risulta meno «orwelliano» del suo predecessore repubblicano George W. Bush, che si guadagnò dei confronti con il Grande Fratello per il suo significativo aumento delle misure di sicurezza nazionale dopo gli attacchi dell’11 settembre. Inoltre un altro recente aumento di vendite dei libri di Orwell è avvenuto in seguito alle rivelazioni di Edward Snowden sulle misure di sorveglianza digitale della National Security Agency, un apparato di sorveglianza che è cresciuto negli anni di Bush. Pertanto non sarebbe corretta neanche l’idea che soltanto Trump abbia incarnato quel tipo di tiranno totalitario verso cui Orwell ci ha messo in guardia a metà del secolo scorso.
Orwell e i proletari
Perché allora Orwell è tanto importante ai nostri giorni? Se Orwell ci parla ancora della nostra grave situazione attuale, non è tanto per i termini che tradizionalmente sono associati al suo nome – gli spettri incombenti della propaganda, della sorveglianza e del totalitarismo – ma anche per un aspetto della sua eredità che curiosamente – o forse bisognerebbe dire: in maniera rivelatoria – viene meno riconosciuto: il suo impegno politico.
Descrivere Orwell come un socialista democratico – una definizione che lui stesso accettava – può risultare a prima vista sorprendente. In fondo il libro di Orwell più conosciuto dopo 1984 è La fattoria degli animali, un’allegoria in forma di satira della Rivoluzione Russa raccontata dalla prospettiva degli animali di una fattoria che si rivoltano contro il governo degli umani, col risultato che i maiali usano cinicamente le idee della rivoluzione per giustificare la propria dittatura contro gli altri animali. Ma la reputazione postuma di Orwell come un caustico critico della rivoluzione socialista è decisamente fuorviante. È più un prodotto della cultura della Guerra fredda, che arruolò la sua opera nella propaganda antisovietica.
È vero che Orwell era contrario al comunismo sovietico, ma l’immagine di Orwell come un crociato anticomunista omette un dato rilevante: le posizioni di Orwell non derivavano da un culto del capitalismo bensì dalla necessità di salvare il socialismo da quella che considerava una minaccia per il suo originario significato liberatorio. Ecco come ha spiegato le proprie intenzioni nell’introduzione all’edizione ucraina di La fattoria degli animali:
A mio parere, niente ha contribuito alla corruzione dell’idea originaria di socialismo più della convinzione che la Russia sia un paese socialista […]. E negli ultimi dieci anni mi sono convinto che la distruzione del mito sovietico sia essenziale se vogliamo ridare vita al movimento socialista.
L’avversione di Orwell verso il comunismo sovietico non derivava da un’ostilità verso il socialismo ma dalla sua esperienza di prima mano dei metodi sovietici, che lui di fatto criticava come controrivoluzionari. Arrivò a questa conclusione dopo aver combattuto nel Poum, un partito marxista indipendente, nella Guerra civile spagnola. Mentre il Poum combatteva nello stesso tempo contro le forze fasciste di Franco e per la rivoluzione sociale, i comunisti insistevano nel mantenimento di un’alleanza con la borghesia liberale spagnola (e per questo bisognava tirare il freno alla rivoluzione).
Nella Guerra intestina che seguì, membri del Poum vennero imprigionati, torturati e uccisi dalle forze alleate ai sovietici. Orwell e sua moglie Eileen riuscirono a fuggire oltre il confine con la Francia, ma alcuni dei loro compagni non furono altrettanto fortunati. Già ostile al bolscevismo dal punto di vista ideologico, Orwell rafforzò le sue idee antisovietiche alla luce delle proprie esperienze in Spagna. Ma questo non significa che rinunciò al socialismo rivoluzionario. In realtà è vero il contrario. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale Orwell si ritrovò esposto ancora una volta al fuoco fascista, stavolta proprio in Inghilterra. E cercò di applicare le lezioni imparate in Spagna.
Il pamphlet del 1941 intitolato Il leone e l’unicorno: il socialismo e il genio inglese rappresenta il suo tentativo di trasferire il caso del Poum nel contesto inglese. Per sconfiggere i nazisti, sosteneva Orwell, bisognava forgiare un socialismo autoctono, sulla base delle proprie tradizioni politiche e culturali. Bisognava plasmare quel sentimento socialista originario dell’Inghilterra per dare avvio a un insieme di trasformazioni in Inghilterra che avrebbero costruito la forza morale necessaria a vincere la guerra contro il fascismo fuori dai confini nazionali. Alcuni punti di quel programma socialista che Orwell descriveva in Il leone e l’unicorno includono la nazionalizzazione delle principali industrie e un riallineamento dei redditi.
La fiducia di Orwell nella rivoluzione cominciò a declinare negli anni Quaranta e 1984 è un’evidente espressione del suo pessimismo verso il futuro. Ma nell’idea di Orwell anche quel libro dalle prospettive così tetre non andava inteso come un rifiuto del socialismo. Come scrisse in una lettera del 1949 a Francis A. Henson del sindacato United Automobile Workers,
il mio ultimo romanzo NON VA inteso come un attacco al socialismo o al British Labour Party (di cui sono un sostenitore) ma come una dimostrazione delle perversioni a cui è esposta un’economia centralizzata, perversioni che sono già state in parte realizzate dal fascismo e dal comunismo. Non credo che il tipo di società che io descrivo arriverà necessariamente, ma ritengo (tenendo conto del fatto che il mio è un libro satirico) che qualcosa di simile possa accadere. Ritengo inoltre che le idee totalitarie abbiano messo radice nelle menti degli intellettuali un po’ ovunque. Pertanto ho provato a portare queste idee alle loro logiche conseguenze. Il romanzo è ambientato in Gran Bretagna al fine di dimostrare che i popoli di lingua inglese non sono migliori degli altri e che se non ci si oppone al totalitarismo, questo può trionfare ovunque.
Si può discutere se Trump abbia l’ambizione e le capacità per diventare quel tipo di dittatore che i suoi avversari temono già sia. Ma la sua vittoria nel 2016 e i 74 milioni di voti che ha conquistato nel 2020 suggeriscono che ci sia il potenziale di vittoria per una forma ancora più ferma e decisa di demagogia. In fondo quelle forme di alienazione e risentimento che hanno permesso il successo iniziale di Trump sono ancora in azione e continueranno a inasprirsi fin tanto che il capitalismo rimanga libero da ogni forma di controllo da parte di quelle forze sociali democratiche disposte a fronteggiarlo.
Per bloccare la prossima figura pubblica che abbia caratteristiche simili a quelle di Trump bisognerà pertanto attivare quelle energie popolari che secondo Orwell erano la chiave per la sconfitta del fascismo. Come ci ricorda Winston Smith, il protagonista di 1984, se c’è una speranza, va cercata nei proletari.
*Benjamin Schacht è uno studioso indipendente e un redattore freelance. Ha un dottorato in letterature comparate presso la Northwestern University. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Alberto Prunetti.
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