Una finestra sulla Glasgow post-industriale
«Shuggy Bain», romanzo di Douglas Stuart sulla Scozia negli anni di Margaret Thatcher e sulla resilienza delle donne della working class, ha vinto il prestigioso Booker Prize
Quest’anno il Booker Prize, uno dei più prestigiosi premi letterari al mondo, è stato assegnato al romanzo d’esordio di un autore scozzese di estrazione sociale working class: Shuggie Bain di Douglas Stuart. Una storia ambientata nei quartieri popolari di una Glasgow degli anni Ottanta, impoverita dalle politiche di Margaret Thatcher. Una vittoria significativa che porta alla ribalta un romanzo working class privo di testosterone che ci ricorda che la letteratura working class è viva e vegeta e si è messa alle spalle il «romanzo da rissa fuori dal pub». Per questo riproponiamo la traduzione di questa riflessione attorno al libro di Stuart uscita qualche mese fa su Jacobin magazine (Alberto Prunetti).
Con il suo romanzo splendidamente cesellato Douglas Stuart ha dato a Glasgow quello che James Joyce ha dato a Dublino. Ogni città ha bisogno di un libro come Shuggie Bain (Grove Atlantic, 2020), dove il potere della descrizione è così forte che, annusando le pagine, puoi quasi sentire il fumo dei pub e il puzzo del fritto, mentre risuona nelle tue orecchie il tipico dialetto della città.
È un romanzo sull’amore. Su quello vero, complicato. Shuggie cresce «diverso», «effemminato», nella Glasgow degli anni Ottanta. Ama sua madre, Agnes, nonostante sia distratta e affranta dall’abuso di alcolici. Agnes è bella, orgogliosa e «scintillante» come una Liz Taylor scozzese. Ama Shug, suo marito, anche se lui è infedele e crudele. E nonostante la città sia dipinta come in preda alla povertà, scura e avvilente, il libro è una sorta di lettera d’amore a Glasgow. È un ritratto di una città devastata dal governo di Margaret Thatcher, un ritratto che è insieme autentico, spietato e tenero fino a diventare commovente.
È difficile spiegare a chi non conosca bene Glasgow l’impatto brutale della chiusura dei pozzi minerari e dei cantieri navali sulla città. Alcune delle descrizioni di Stuart, ambientate negli anni Ottanta, suonano efficaci ancora oggi, guardando la città. La perdita di quelle industrie che avevano fatto di Glasgow una città operaia, forte e orgogliosa, ha avuto un impatto profondo sulle comunità. Mentre lavora come tassista, Shug perlustra la città e osserva:
La città stava cambiando. Lo vedevi sul viso della gente. Glasgow perdeva senso e lui se ne accorgeva da dietro i finestrini […]. I giorni dell’industria erano finiti e le ossa delle ferrovie Springburn e dei cantieri navali Clyde giacevano nella città come dinosauri imputriditi.
Camminando per Glasgow, si possono ancora vedere le carcasse di queste aree industriali, un tempo così orgogliose. E si possono ancora incontrare quei personaggi prodotti da un’era tumultuosa: anime perse consumate dal bere, altre indurite da un’ostinata resilienza.
I due personaggi che Shug prende a bordo nel suo viaggio incarnano questi due archetipi. Uno è «un vecchio ubriacone di Glasgow» che indossa «una camicia gialliccia e un abito grigio sgualcito» con «un soprabito troppo grande… che lo fa sembrare un rifugiato». L’altra è una «casalinga di Glasgow», che «sta seduta nel mezzo con aria seriosa, rigida, retta, come una regina presbiteriana, con le ginocchia unite, la schiena dritta, le mani intrecciate sul grembo». Confida a Shug che il taxi per lei è un lusso: suo marito infatti ha perso il lavoro. «Venti. Cinque. Anni. Alle fonderie Dalmornock Iron Works. E l’hanno mandato via con tre settimane di liquidazione», dice. «Tre settimane! Ci sono andata io, ho battuto alla grande porta rossa del capo, e gli ho detto cosa poteva farci con tre settimane di paga».
Donne e Pithead
Tra le cose più interessanti di Shuggie Bain c’è la maniera in cui il romanzo illustra il rovesciamento dei rapporti di genere, conseguenza diretta della disoccupazione di massa. I due passeggeri del taxi raccontati dalla penna di Stuart sono classici esempi di come uomini e donne rispondono in maniera diversa a una crisi. Come in guerra, gli uomini si percepiscono come le principali vittime e si aspettano che le donne tengano assieme i pezzi, rimangano forti e uniscano la famiglia.
Stuart illumina tutto questo con una luce leggera ma tagliente, soprattutto quando il romanzo racconta il trasferimento della famiglia Bain a Pithead, uno squallido quartiere operaio al margine di una miniera dismessa. Convinta da Shug che trasferirsi rappresenterà una nuova opportunità per la famiglia, Agnes acconsente a spostarsi dall’appartamento della madre a Sighthill in un «appartamento di edilizia popolare di due stanze sotto e due sopra», con la promessa di «un giardino con entrata indipendente».
La casa «col tetto basso» in periferia, per cui Shug firma il contratto senza neanche averla vista, «come se avesse comprato un biglietto della lotteria», è un emblema di quell’aspirazione alla vita domestica a cui la Gran Bretagna di Thatcher incoraggiava le persone di estrazione working class urbana a lottare. In realtà le abitazioni di queste aree periferiche erano (e sono ancora) mal coibentate e costruite con materiali di poco valore. Nel romanzo c’è una scena magnifica sulla lenta ascesa e il tracollo di ogni speranza familiare, quando i protagonisti viaggiano in automobile verso la loro nuova casa:
Joe ha detto che è come un piccolo villaggio felice. Il posto più bello dove potresti sperare di vivere […] Abbassarono i finestrini fino in fondo e il taxi si riempì di un vento intenso che profumava di erba tagliata e campanule selvatiche. […] La strada si fece più stretta e scomparve anche l’ultimo giardino ben curato. All’improvviso davanti a loro comparve il quartiere di edilizia popolare… case col tetto basso, dritte e tozze, accalcate in file separate. Il quartiere era circondato da un acquitrino pieno di torba, con una terra annerita, puntellata da scorie di carbone escavato.
«È quello?», chiese lei.
Shug non rispondeva. Da come la sua spalla era sprofondata, lei si rese conto che anche il suo cuore era andato a fondo.
Il cambio di casa è un disastro. «Non posso più stare qui. Non posso stare con te. Con la tua miseria, col tuo alcolismo», ecco cosa dice Shug a Agnes nella loro prima notte nella nuova abitazione. La lascia quando lei è ancora «luminosa e morbida, come un abito da festa gettato a terra» nel corridoio della loro nuova casa, in quello strano nuovo mondo.
Agnes scopre presto che Pithead è una comunità gestita da donne. Gli uomini, resi impotenti dalla disoccupazione, sono persi come bambini e silenziosi come fantasmi.
Gli stivali chiodati dei minatori facevano scintille sull’asfalto. Gli uomini cominciavano lentamente ad andare alla deriva uno dopo l’altro lungo la strada vuota. Adesso non c’era più la sirena della miniera. Eppure gli uomini conservavano nei muscoli la memoria di una routine mortale e tornavano a casa all’ora in cui finiva il lavoro, senza che nulla fosse davvero finito, con lo stomaco pieno di birra ale e la schiena piegata dall’ansia.
Al contrario, le donne sono rappresentate con immagini che restituiscono tutta la forza della capacità descrittiva di Stuart. «Colorate di grigio», con volti «tesi come un teschio con la pelle», le donne perlustrano il loro reame con le braccia «piegate simili a paraurti». Sono loro che vanno a ritirare gli aiuti domestici e imparano piccoli trucchi per tirare avanti, per avere almeno le monetine per il contatore del gas e poter riscaldare i figli. Tengono in piedi quel che resta della loro società sporca di fumo, sbiadita e dimenticata. Ma non c’è solidarietà dentro a quella comunità. A un certo punto Agnes mette in discussione questa curiosa assenza di mutuo aiuto:
Talvolta, ma non spesso, Agnes pensava che fosse una vergogna non poter essere più civili. Erano così tante le cose che le donne avevano in comune, anche se Agnes si sarebbe strappata via la lingua a morsi prima di ammetterlo… Conoscevano il margine affilato della necessità. Ognuna per conto proprio… rimanevano sveglie nel silenzio della notte a cercare la formula per allungare il brodo. Era la matematica delle madri.
Resilienza e resistenza
Shuggie Bain non è tanto un libro su Shuggie quanto su Agnes. È lei la vera eroina della storia, un personaggio evocativo straordinario, che non dimenticherete. Stuart descrive con buon mestiere Shuggie, un ragazzo solitario e dolce che lotta per la propria sessualità, ma questa rappresentazione impallidisce in confronto alla forza impressionante con cui ha creato Agnes.
Agnes è disperata, sprezzante, umile, egoista, intraprendente e piena d’amore. La sua dipendenza dall’alcol spezza il cuore, proprio perché ha la forza di spezzare lentamente la volontà di questa donna. «Ogni giorno, truccata e con i capelli a posto, usciva dalla tomba e rialzava la testa», osserva Shuggie. «Quando si rovinava con l’alcol, si alzava il giorno dopo, indossava il suo abito migliore e affrontava il mondo. Anche con lo stomaco vuoto, affamata, si sistemava i capelli e lasciava credere il contrario al mondo».
Perché allora Stuart non ha chiamato il libro «Agnes Bain»? Il titolo forse fa riferimento alla sopravvivenza di Shuggie. Tra tutti i personaggi del romanzo, Shuggie è forse l’unico a conservare un po’ di speranza nel proprio cuore. Nonostante tutto quel che ha visto e passato, nonostante i fallimenti, i traumi e il dolore, ha ancora la capacità di amare.
Shuggie Bain è, nel complesso, un ritratto cupo della vita della working class scozzese. Ci presenta un mondo pieno di persone dure e fredde che si preoccupano solo di se stesse. Con l’eccezione di Shuggie – e per certi aspetti di suo fratello Leek – i personaggi di Shuggie Bain sono di solito egoisti e inesorabilmente meschini. Anche un personaggio che arriva alla fine e sembra avere un’influenza positiva – fornendo al lettore un po’ di sollievo – alla fine si rivela essere una tremenda delusione e rende le cose anche peggiori.
Ci sono momenti di tenerezza, certo. Ci sono scene tra Agnes e Shuggie che sono belle e divertenti, come quelle con i suoi figli più grandi, o quelle tra Agnes e sua madre Lizzie. Ma questi rari momenti di gioia e fiducia sono severamente confinati alla piccola unità familiare. Il mondo esterno è minaccioso, beffardo, sinistro, un posto crudele dove non ci si può fidare di nessuno.
Non è Misery-Lit
Comunità come queste, negli anni Ottanta, erano davvero posti da guerra di tutti contro tutti? Senza dubbio la vita in questi posti era dura ed è certamente vero che attorno alle dipendenze e alla sessualità ci fossero molti più problemi che adesso. Ma abbiamo anche certezza della forza della solidarietà e della resistenza di classe, in questi posti: un esempio che viene subito in mente è quello dell’insurrezione di Glasgow del 1989 contro la poll-tax, che a detta di molti ha provocato il declino di Margaret Thatcher. Ci sono anche molti resoconti di comunità, nella Scozia di quegli anni di deindustrializzazione, che si sostenevano a vicenda e che univano le proprie forze. In tutto questo, le donne erano le più attive.
È anche plausibile che molti posti in Scozia non siano stati toccati da questo spirito di solidarietà. Inoltre non spetta a Stuart fornire una retrospettiva storica esaustiva della classe operaia scozzese. Stuart è uno scrittore di fiction e il suo romanzo si salva dalla trappola della «letteratura della miseria» in cui sarebbe potuto cadere grazie alla bellezza della sua scrittura e all’autenticità del suo mondo. Anche Stuart è cresciuto nelle case popolari di Glasgow e affronta i problemi sociali che i suoi personaggi si trovano di fronte con delicatezza e compassione.
Venendo al punto: Shuggie Bain è pieno di persone che fanno e dicono cose tremende gli uni contro gli altri, continuamente, ma nessuno sembra davvero spregevole. Forse è proprio questo a rendere il romanzo così potente e triste: rovescia il lato brutto dell’umanità per trovare la delicatezza e la bellezza che stanno sotto. Ci mostra che questa bellezza, come la speranza che «gorgoglia nello stomaco di Shuggie come un tramonto giallo», contro ogni avversità, sopravvive ancora.
*Eliza Gearty è scrittrice e giornalista, critica teatrale per The Skinny. Ha scritto On The Doors. Vive a Glasgow. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Alberto Prunetti.
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