Harris chiude il ciclo social-liberale
Lo schema politico della sinistra moderata che per resistere alla destra reazionaria propone di difendere lo status quo, è in crisi almeno dal default finanziario del 2007. La lezione americana è che sarebbe ora di cambiare fase
Ci sono diversi modi per reagire alla netta vittoria di Donald Trump nelle presidenziali statunitensi. Vittoria che stavolta, a differenza del 2016, si fa forte anche del vantaggio nel voto popolare, segnalando che la maggioranza del popolo americano è con lui. Si può reagire come fa la maggior parte dell’establishment, soprattutto europeo, e soprattutto giornalistico, sventolando l’allarme della democrazia che rischia di scomparire. Una minaccia poco realistica, al momento, non realizzata durante il primo mandato trumpiano nonostante il tycoon abbia piazzato diverse bombe a orologeria sotto il sistema politico statunitense. Il quale, in realtà, resta il primo responsabile della propria condizione di fragilità democratica con un sistema elettorale anti-storico, uno spiccato elitarismo e soprattutto la commistione tra business e politica come dimostra l’afflusso dei fondi privati nelle casse delle campagne elettorali.
Si può reagire guardando più dettagliatamente al modo in cui la working class, i blue collar della Rust bealt – l’ex area industriale che corrisponde soprattutto a tre decisivi stati chiave – abbia votato di nuovo per Trump o, forse, non sia stata convinta da Kamala Harris (mentre si era fidata nel 2020 di Joe Biden). Si può guardare meglio al voto delle comunità musulmane e scoprire, ad esempio, che a Dearborn, in Michigan, dove il 55% dei residenti provengono dal Medioriente, Trump ha vinto con il 42,48% dei voti contro il 36,26% di Kamala Harris che ha visto alla sua sinistra balzare la posizione più netta della candidata dei Verdi Jill Stein che raggiunge il 18,37%.
C’è però una reazione che non può mancare per chi, come noi, pensa che Trump sia un rappresentante della peggior destra conservatrice, turbo-capitalista, misogina e anti-ecologista, e cogliere che la sconfitta di Harris, e del Partito democratico tutto, rappresenta la fine della lunga corsa social-liberale della sinistra internazionale. La parola «sinistra» è sicuramente eccessiva nel caso di Kamala Harris e dell’establishment democratico statunitense che si è raccolto dietro di lei, ma così viene percepita a livello di massa e così presentata dalla sinistra nostrana e dalla stampa sua amica. Questa impostazione politica che deriva, con alti e bassi, aggiustamenti e parziali ripensamenti, ma senza alterazioni di fondo, dagli anni Ottanta, è giunta al capolinea. Anche quando produce delle vittorie queste si traducono in meri imbellettamenti dell’ordine liberista se non episodi momentanei destinati a lasciare sul campo non solo macerie ma vere regressioni culturali. Si pensi a quanto sta accadendo in Germania con la crisi del «socialdemocratico» Olaf Scholz o alla crisi già evidente dei laburisti al governo in Gran Bretagna.
L’ipotesi, tanto cara a gran parte del mondo liberaldemocratico italiano, che per esistere la sinistra deve interiorizzare i valori profondi del capitalismo – competizione, produttività, rigore di bilancio, flessibilità dei salari – è morta definitivamente nell’ambizione dei Democratici americani di reagire alla propria disfatta, avvenuta non nel voto del 5 novembre 2024 ma nella disastrosa presidenza Biden, invocando i valori della democrazia e della civiltà e dimenticando i fondamentali della politica.
Se c’è un’immagine della campagna elettorale che meglio di altre aiuta a capire il successo di Trump è quella in cui il candidato repubblicano enumera i prodotti da supermercato evidenziando gli aumenti di ognuno di essi. Oppure la domanda rivolta durante i suoi comizi alla folla: «Come state? Meglio o peggio di quattro anni fa?».
A fronte di questo approccio, Harris ha lavorato sul frame della «libertà», ha sbandierato un ottimismo ingiustificato per i valori della democrazia americana e, nell’ultima fase, ha esibito come trofei gli appoggi dei Cheney, padre e figlia, emblema dei neocons repubblicani. Dietro di lei si sono stagliate le facce delle grandi «famiglie», in senso letterale, politiche dei Clinton e degli Obama, la presenza imperitura di personaggi come Nancy Pelosi, quasi tutta Hollywood, il mondo della musica, tutti intenti a spiegare alle classi subalterne come l’ordine neoliberale fosse il più adatto per il loro futuro.
A giudicare dai primi dati del voto, la popolazione della rust belt è sfuggita alla presa dei Dem. Anche perché, a differenza di Biden nel 2020, Harris non ha potuto beneficiare della eccezionale campagna che nelle primarie di quell’anno fu condotta da Bernie Sanders e dalla «squadra» di sinistra socialista che cercava di mobilitare l’elettorato sensibile ai temi sociali condizionando così il messaggio politico di Biden. La cui vittoria, inoltre, fu consentita anche dal modo disastroso con cui Trump aveva gestito l’emergenza Covid. Harris rappresenta la fase terminale di una gestione politica fallimentare da parte dei Democratici, espressa simbolicamente dal confronto televisivo di Biden nel giugno scorso, ormai imperituro volto di una presidenza che non ha prodotto nessun cambiamento tangibile nella vita degli statunitensi. E, in fondo, un peccato originale risiede proprio nella candidatura di Biden nel 2020, un presidente già molto anziano, con scarse possibilità di rielezione – come poi è accaduto – già inadatto allora a replicare alla ventata «populista» trumpiana contro cui occorreva affilare le armi di una proposta politica più dirompente e socialmente efficace. Nondimeno, Biden non ha fatto nulla nei suoi quattro anni presidenziali per preparare la successione e il Partito democratico è rimasto a contemplarsi nella gestione del potere dando per scontato che fosse impossibile una rimonta di Trump dopo i processi, le condanne e le varie crisi che questi ha dovuto affrontare. Ad andare in crisi invece sono stati i Democratici, la cui proposta politica è apparsa, come con Hillary Clinton nel 2016, inadatta e muta.
Sarà dura per un tale establishment e il loro corollario internazionale, prendere atto che una fase storica si è chiusa. Questa sbornia social-liberale, del resto, affonda le proprie radici nella svolta liberista degli anni Ottanta, ma lo slancio decisivo le fu dato dalla vittoria di Bill Clinton nel 1992. La «terza via» nasce sul campo con lui e viene poi teorizzata da Tony Blair che vince le elezioni nel 1997 e si afferma come il faro della sinistra internazionale per molto tempo, probabilmente fino a oggi. Le coordinate di quello schema le conosciamo bene: libertà all’impresa, illusione che anche la working class possa beneficiare della crescita complessiva del sistema – cosa che non avverrà – un elogio della precarizzazione spacciata per flessibilità e quindi per libertà. Il tutto condito da una costante insistenza nei valori dell’istruzione – «education, education, education» – e nella difesa delle libertà civili. È questa la ragione per cui, abbracciando sul piano economico e sociale le politiche della destra, questa «sinistra» cercherà di identificarsi soprattutto con i valori della libertà civile, truffando anche in questo campo l’elettorato perché proprio dagli epigoni della Terza via verranno molte delle politiche securitarie e repressive in tema di immigrazione e nessun vero successo mondiale ad esempio contro il patriarcato.
E si sbaglierebbe moltissimo a insistere sulla falsa contrapposizione tra libertà civili e giustizia sociale come se fossero i connotati di due distinte sinistre, e non, invece, due programmi destinati a unirsi.
Lo schema social-liberale è sembrato andare in crisi a seguito del «default» finanziario globale del 2007-2008. La vittoria di Barack Obama negli Usa avrebbe potuto rappresentare una svolta, ma Obama ripristina i fondamentali di questa «sinistra»: vara la riforma sanitaria – con centinaia di compromessi con il settore privato – ma affronta la crisi finanziaria caricandone il costo sullo Stato e lasciando di nuovo mano libera alla finanza privata. Nessun cambiamento avviene a livello mondiale tanto che nel 2011-2012 la crisi si scarica sull’Europa. E come reagisce la sinistra europea? Punendo sonoramente la Grecia di Alexis Tsipras, imponendo le regole della stabilità economica a un continente in affanno e rilanciando i profitti con la falsa idea che per quella via si sarebbero migliorate le condizioni di vita.
Con alti e bassi questa impostazione non è mai stata eliminata dal campo: la socialdemocrazia liberale si è colorata, molto parzialmente, di rosso quando è stata all’opposizione salvo riprendere in mano le solite ricette quando è andata al governo. Anche Tsipras ha subito la stessa involuzione distruggendo il patrimonio, e una possibile speranza, della sinistra alternativa. E sempre è stata ribadita la stessa illusoria promessa: che con l’ordine social-liberale ci sarebbe stata una redistribuzione della ricchezza, una diminuzione delle disparità sociali, un miglioramento effettivo delle condizioni di vita. Che il progresso capitalistico, insomma, avrebbe rappresentato un’opportunità e che quindi battersi per la riforma di quello sarebbe stato nell’interesse delle classi popolari. Promessa vacua e, infatti, non creduta. Se in questi anni l’astensionismo è cresciuto a dismisura è proprio in virtù di questo disincanto. A questa invocazione è seguita poi la logica del ricatto: il voto a una sinistra-presidio dell’esistente si è giovato dell’inesistenza di qualsiasi alternativa invocando il voto «utile» a battere la destra. La logica del «meno peggio» assurta a pietra angolare di un sistema politico.
Votando Trump, «l’infernale» Trump, che vince nel voto popolare, strappa gli «swing states» ai Democratici, conquista il controllo del Senato e probabilmente della Camera, il segnale inviato è che a quel ricatto gran parte dell’elettorato non ha più ceduto. Anche perché di quel sistema politico, sociale ed economico, non ha tratto alcun beneficio. Tra le tante analisi sulla crescita della diseguaglianza durante la presidenza Biden colpisce il dato dell’Institute for Policy Studies di Forbes Real Time Billionarire secondo cui a marzo 2020 gli Stati Uniti avevano 614 miliardari con un ricchezza pari a 2,947 trilioni di dollari mentre nel 2024 il numero è salito a 737 miliardi con una ricchezza complessiva di 5,529 trilioni: un aumento dell’87,6%. Analisi identiche si possono produrre, in gran quantità, per quanto riguarda l’Europa dove è stata esaltata la vittoria del laburista Starmer nel Regno unito anche se ha ottenuto meno voti assoluti di quando Jeremy Corbyn fu sconfitto dai Tories.
La lezione americana è dunque chiara, almeno per chi ha voglia di capire i dati reali e non rifugiarsi nel fumo delle proprie ideologie. Parla a tutti e parla soprattutto all’Europa che degli Stati uniti continua a scimmiottare le anomalie. Diceva Nanni Moretti nel vuoto di un piazza Navona d’altri tempi, che «con certi dirigenti non vinceremo mai». Al di là dei dirigenti sono proprio quelle politiche a condannarci allo stallo in cui viviamo da circa quarant’anni, oscillando tra il timore di una destra cattiva che avanza e la rassegnazione di una sinistra pallida che dice di resistere, ma che prepara sempre nuove sconfitte. Sarebbe ora di cambiare fase.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).
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