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Hiv: l’intramontabile richiamo dello stigma

Cesare Di Feliciantonio 11 Dicembre 2018

Nel leggere alcune testate sembra di tornare ai primi anni 90, quando non c'erano terapie efficaci e la paura dell’Aids aveva un’associazione diretta con alcuni gruppi sociali. Ma il principale problema dell’Hiv è di natura sociale

Nel leggere alcune testate giornalistiche italiane degli ultimi giorni sembra di tornare ai primi anni Novanta, quando ancora non erano state introdotte terapie antiretrovirali efficaci e la paura dell’Aids portava a un’associazione diretta tra malattia e alcuni gruppi sociali, in particolare froci, puttane e tossici. In un articolo morboso che spazia tra distopia sessuofobica e patologizzazione del bug chasing, l’Huffington Post descrive le persone sieropositive come «portatori di Hiv», alla faccia della ricerca medica che ci dice che le persone sieropositive con carica virale azzerata non possono trasmettere il virus. Leggiamo così che fare sesso con una persona sieropositiva sarebbe addirittura «come andare con uno sano» e «si ricerca il rischio di infettarsi, di infettare, per provare di nuovo quelle sensazioni che ormai si sono atrofizzate». Nella giornata di martedì 20 novembre ci è poi toccato leggere dei vestiti e rifiuti sanitari «infetti» da diversi virus, tra cui l’Hiv, smaltiti in mare dall’Aquarius. Nel discorso giornalistico l’intramontabile paura dell’Hiv viene così a intrecciarsi con l’onnipresente paura dei migranti provenienti dall’Africa.

Quanto siano inesatte e false le affermazioni contenute in articoli dai toni allarmistici come quelli citati che parlano ancora di Hiv come una sorta di peste o preludio alla morte, lo spiega la conoscenza medica: l’aspettativa di vita delle persone che vivono con Hiv (in terapia antiretrovirale e per le quali la terapia funziona) non differisce da quella della popolazione generale, le terapie disponibili permettono una qualità della vita sempre migliore con relativa diminuzione degli effetti collaterali, per cui vivere con l’Hiv rappresenta una condizione cronica gestibile. Se questi aspetti di salute pubblica sono ormai chiari, bisogna focalizzarsi invece sulla dimensione sociale e quotidiana che il vivere con l’Hiv comporta, in particolare i due processi (profondamente connessi) che continuano a rendere particolarmente problematica questa condizione: stigma e invisibilità. Dato che le ricerche che ho condotto negli ultimi anni riguardano le esperienze di vita di uomini gay sieropositivi, gli esempi cui farò riferimento riguardano tale gruppo sociale, per cui assume particolare importanza l’intersezione tra omofobia e sierofobia.

Lo stigma sociale

Nel parlare di stigma in relazione all’Hiv è opportuno differenziare tra stigma vissuto/praticato e stigma percepito. Il primo fa riferimento a quelle azioni e norme apertamente discriminatorie e di rifiuto che, nelle esperienze degli uomini intervistati, sono state messe in atto da diverse figure in ambiti differenti. L’esperienza forse più traumatica riguarda le azioni di stigma messe in atto da familiari, partners e in generale persone care, per cui si va da casi di vera e propria violenza e insulto a forme di stigmatizzazione e biasimo più sottili, come nel caso di familiari che non respingono il diretto interessato ma non perdono poi occasione per affermazioni del tipo «come hai potuto farti questo?» oppure gli chiedono di non farne mai parola con nessuno perché la sieropositività è associata a un senso di vergogna sociale.

Se tali esperienze riguardano i rapporti più stretti di affetto, un’altra forma particolarmente diffusa di aperta stigmatizzazione riguarda invece la vita quotidiana, soprattutto di chi utilizza le applicazioni “da rimorchio” come Grindr, dove abbondano messaggi pubblici del tipo «solo sani» o «solo puliti». Un’indagine recente condotta da Raffaele Lelleri per Plus mostra come un quarto dei rispondenti sieropositivi affermi di essere stato rifiutato/evitato/escluso «qualche volta» da gay sieronegativi a causa del proprio stato sierologico, mentre il 14,6% afferma che ciò sia avvenuto «molto spesso». Tali dati trovano riscontro nelle mie ricerche, per cui praticamente tutti gli intervistati che utilizzano applicazioni “da rimorchio” hanno raccontato di infiniti casi in cui sono stati bloccati da altri utenti nel momento in cui hanno rivelato il proprio status, oppure di come abbiano abbandonato la conversazione dopo aver ricevuto messaggi del tipo «sei sano?». Quello che colpisce maggiormente nell’ascoltare tali racconti è l’atteggiamento di distacco che i diretti interessati hanno sviluppato nei confronti di tale tipo di dinamica. Alla domanda esplicita su cosa si prova in questi casi, la maggioranza di risposte è costituita da espressioni del tipo «c’è sempre il cretino di turno» o «l’ignoranza è una brutta bestia», evitando così di nominare direttamente il disagio provato, disagio che in molti casi fa sì che col passare del tempo si tenda a non svelare il proprio status all’interno delle chat/applicazioni proprio per evitare affermazioni spiacevoli.

La fobia sociale e l’atteggiamento discriminatorio verso la sieropositività non sono tuttavia esenti da contraddizioni che derivano da altri processi o norme sociali, come ad esempio l’aspetto fisico e una presunta “mascolinità”. Recentemente, durante un incontro di gruppo di ascolto e mutuo aiuto, un ragazzo raccontava di aver fatto un esperimento su Grindr, utilizzando una foto fake di un ragazzo particolarmente attraente secondo gli standard dominanti e segnando apertamente su questo profilo lo stato Hiv-positivo (fatto estremamente raro nel contesto italiano). Il ragazzo raccontava con stupore misto a disagio come in tanti lo avessero contattato per incontrarlo e non avessero battuto ciglio a proposito dello stato sierologico; al contrario quando, nella stessa area, aveva utilizzato la propria foto e aveva esplicitato il proprio stato sierologico positivo aveva ricevuto numerosi commenti negativi e discriminatori. Ipocrisia e contraddizioni aumentano quindi il senso di insicurezza e paura a venir fuori, a cui si aggiungono le discriminazioni da parte di chi dovrebbe essere maggiormente informato. Molti hanno raccontato di episodi spiacevoli avvenuti con operatori sanitari e medici di diverso tipo; il caso più frequente sembra essere quello di essere inseriti sempre per ultimi al momento di assegnare i turni per degli interventi chirurgici, circostanza purtroppo confermata anche da alcuni ricercatori medici che lavorano nel contesto inglese (quando si parla di Hiv, la discriminazione sembra non avere nazionalità).

Le esperienze di stigma fin qui accennate riguardano coloro che rendono noto agli altri il proprio stato sierologico. Ugualmente doloroso e segnante per l’esperienza di vivere con l’Hiv è il caso dello stigma percepito, per cui il soggetto interiorizza il senso di stigma sociale che associa la sieropositività a una condanna morale legata a pratiche sessuali “rischiose” e abiette. Lo stigma percepito è strettamente legato al discorso pubblico dominante e risulta ancora più forte e difficile da combattere in contesti particolarmente omofobici, poiché l’Hiv viene direttamente associato all’omosessualità. Tale visione della sieropositività come “pestilenza” tende a rendere emotivamente difficile anche il solo fare il test. Di fronte alla prospettiva di “fallire” ancora una volta risultando sieropositivi, vari uomini intervistati hanno raccontato di quanto sia stato difficile fare il test o ritirare i risultati, spesso continuando a rimandare l’evento. Questa difficoltà trova riscontro nei dati epidemiologici, per cui in Italia è particolarmente elevata la percentuale di diagnosi tardive che possono portare a pericolose complicazioni cliniche. Un cambiamento radicale del discorso pubblico sul tema è quindi fondamentale per aumentare l’accesso al test e non può prescindere da un cambiamento nei riguardi del modo di cui si parla di sesso. Moralismo e condanna continuano a essere pervasivi nel discorso pubblico sul sesso tra uomini, per cui a un’informazione centrata sulle diverse pratiche e gli strumenti di prevenzione a disposizione viene preferito il messaggio «quello che stai facendo è sbagliato e irresponsabile».

L’invisibilità

Strettamente legata alla questione dello stigma è quella dell’invisibilità di chi vive con Hiv. Nel parlare di invisibilità di solito ci si riferisce ai miglioramenti legati alle terapie antiretrovirali che non rendono più la sieropositività uno “spettacolo visibile” come nel caso della lipodistrofia Hiv-correlata analizzato da Asha Persson. Qui invece parliamo del concetto di “secondo ripostiglio” (second closet), ovvero il nascondere la propria sieropositività per evitare un giudizio sociale negativo. Come scritto da  Rigmor Berg e Michael Ross, «essere nel closet richiede un grosso sforzo, in particolare nella gestione continua dell’informazione stigmatizzante, risultando quindi molto impegnativo dal punto di vista psicologico. Sfortunatamente l’essere nel closet riproduce anche lo status egemonico dell’Hiv quale malattia vergognosa, così quelli che devono sopportarne il peso finiscono per perpetuare il diffuso evitare sociale che circonda lo stigma della sieropositività». Gli effetti negativi del tornare nel “ripostiglio” risultano spesso collegati a un’esperienza problematica della propria sessualità, per cui nonostante la maggiore visibilità si stenta ancora a parlare di omosessualità, soprattutto in ambito familiare e lavorativo, dove il “venir fuori” provoca spesso disagio o silenzio.

Anche in questo caso, molti degli uomini intervistati hanno sminuito, nel corso dell’intervista, gli effetti negativi di questo tipo di situazioni facendo riferimento alla difficoltà di genitori e familiari di parlare di affettività e sesso, oppure spiegando che «a lavoro non sai mai come possono reagire». Nascondere il proprio senso di fallimento rispetto a un modello dominante, alle possibili aspettative dei genitori e degli altri accomuna tanto l’esperienza dell’omosessualità quanto quella della sieropositività in tanti casi. In molti tra noi omosessuali abbiamo cercato di rispondere all’omofobia dilagante nella propria quotidianità attraverso un modello di “omosessuale responsabile e normale” che lavora, consuma, si riproduce e cerca di essere il più maschile possibile (caratteristiche alla base di quel modello solitamente definito come omonormativo). Tuttavia, nel momento in cui questo modello si incrina per via della sieropositività, il dolore e il senso di vergogna riemergono, e la persona in questione torna a rifugiarsi nel “ripostiglio”.

Uscire dal ripostiglio

Uscire dal “secondo ripostiglio”, rompere il silenzio e andare al di là della paura sono processi individuali complessi che richiedono tempi e modalità differenti a seconda del proprio posizionamento, delle proprie reti sociali e affettive e quanto altro. La ricerca di Berg e Ross citata sottolinea il ruolo privilegiato dell’attivismo e dell’impegno sociale e politico per rompere gli effetti negativi dello stigma sociale e del “secondo ripostiglio”. Nelle ricerche svolte molte persone hanno mostrato un percorso simile, persone che in alcuni casi hanno vissuto per anni nel “secondo ripostiglio” e che hanno fatto riferimento al senso di forza e possibilità acquisito grazie all’attivismo e alla partecipazione. Nel desolante contesto italiano non mancano esempi straordinari di attivismo legato all’Hiv (come l’Asa a Milano o Plus a Bologna) che lavorano per rompere l’omertà del contesto sociale e politico, mostrando a chi coinvolto che la vita non è affatto finita ma anzi si possono creare momenti straordinari di incontro e consapevolezza.

Una strategia complementare e/o alternativa a quella dell’attivismo riscontrata nelle ricerche è quella di partire, trasferirsi altrove per inventarsi una nuova vita, spesso in grandi città dove è più facile incontrare altre persone omosessuali e sieropositive, dove si ha la possibilità di riscoprirsi e creare nuovi rapporti che partono dalla volontà di uscire dal “ripostiglio”. Sono queste le storie da privilegiare nella narrazione sulla sieropositività, le storie di chi riesce ad andare avanti, di chi ha la forza di nominare la propria condizione e le proprie pratiche quotidiane, di chi trova la forza di impegnarsi in nuove relazioni (di qualunque tipo esse siano). Ovviamente non tutti riescono a sviluppare questa forza o hanno i mezzi per sostenerla, ma smontare le narrazioni tossiche, sottolineando come il principale problema dell’Hiv sia soprattutto di natura sociale, è un importante primo passo per abbattere pregiudizio e sierofobia.

*Cesare Di Feliciantonio, ricercatore in geografia umana, è il responsabile di un progetto di ricerca su migrazioni omosessuali, Hiv e regimi di welfare finanziato dal programma Marie Skłodowska-Curie.

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