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I “pacchi” del governo Conte

Marta Fana 9 Settembre 2019

I 29 punti del programma del nuovo esecutivo sono vaghi e contraddittori. La reale direzione politica tutta da verificare nella congiuntura economica europea. Ma c'è terreno per un'opposizione che riporti al centro gli interessi sociali

«Io con la crisi di governo, scarico pacchi. Io senza la crisi di governo, scarico pacchi. Io col governo tecnico M5S-Gap-Pd-Craxi, scarico pacchi. Io con nuove elezioni, scarico pacchi!». Ecco uno dei tanti meme nella solita ondata bulimica di notizie, tentati scoop, dichiarazioni, gallerie fotografiche, commenti, analisi preventive succedutisi durante l’appena conclusa crisi di governo. Può sembrare sprezzante o, al contrario, denigrante nei confronti dei lavoratori, dipinti come indolenti nei confronti della democrazia parlamentare e dei meccanismi istituzionali. 

Niente di tutto questo. Mentre scorrevano le immagini dell’insediamento del nuovo governo, l’ufficio nazionale di statistica tedesco annunciava un calo congiunturale del 2,7% degli ordinativi alle aziende. Il giorno dopo, la brusca frenata della produzione industriale che registra un -4,2% sull’anno precedente. Non è un dettaglio: il nuovo esecutivo si muoverà sul filo del rasoio non soltanto per i numeri risicati al Senato, ma soprattutto per la capacità di incidere – dentro gli esigui margini di manovra – nella politica che conta, dove l’Italia ha da anni perso terreno, in un periodo di forte instabilità politica ed economica. A determinarne l’indirizzo politico saranno il pendolo degli interessi sociali e la capacità di imporre nelle trattative con Bruxelles un’agenda in radicale discontinuità coi decenni precedenti. In un contesto economico e geopolitico segnato da un’ormai strutturale instabilità, dall’avanzata della crisi economica in Germania e da una crisi globale che si intravede all’orizzonte dentro e oltre il perimetro della guerra dei dazi tra Stati uniti e Cina. 

È guardando a questi fondamentali dell’economia che si può andare oltre le etichette «il governo che piace ai mercati» vs «il governo più a sinistra degli ultimi decenni». E da questi fondamentali dipenderanno in larga misura i margini di negoziazione con la Commissione Europea. 

Lo spazio per chiedere flessibilità sul deficit e fare un po’ di espansione fiscale c’è: la Germania ha bisogno di frenare il calo della produzione, cioè deve mantenere alto il livello delle esportazioni di cui quelle italiane valgono 70,3 miliardi di euro (+6,8% rispetto al 2017). Tuttavia, l’Italia non è solo un partner commerciale della Germania, bensì un ingranaggio dei suoi stessi processi produttivi e filiere: solo tra il 2015 e il 2017, la Germania si è intestata operazioni di acquisizione e fusione di aziende italiane per oltre cinque miliardi di euro. È di fronte ai movimenti di capitale che bisognerebbe avere una strategia per governare i processi e non subirli: avere un’idea sul che fare, quando queste aziende entreranno in crisi e decideranno piani di licenziamenti e ristrutturazioni, o molto più  banalmente si sposteranno all’estero, magari verso est, perché la manodopera costa meno, innescando crisi a catena lungo gli indotti. 

Non c’è da stupirsi se la scelta del nome a capo del Ministero dell’Economia è ricaduta su un nome, Roberto Gualtieri, di garanzia degli “equilibri” europei, perché i dossier aperti al di là della crisi non sono dei più banali: si parla della revisione delle regole di bilancio, ma anche di nuovi meccanismi per rendere il sistema “punitivo” più  efficace contro chi non rispetta le regole imposte. È arrivato il momento – parola delle presidenti designate di Bce e Parlamento Europeo – di «usare tutta la flessibilità prevista dalle regole per promuovere crescita e investimenti», per impedire al malato d’Europa, la Germania, di sprofondare.

Tracciato brevemente e in modo non esaustivo il contesto entro cui opererà il nuovo governo, proviamo a leggere politicamente il compromesso che hanno fatto per formarlo andando oltre un elenco puntato. Fin qui, infatti, i ventinove punti programmatici dell’esecutivo M5S-Pd non sono che una lista della spesa, da cui emergono con forza le omissioni, le inconsistenze e le incompatibilità tra le proposte avanzate. 

Bisognerà chiedere ai diretti interessati cosa voglia dire che «Il Governo è impegnato a difendere la sanità pubblica e universale, valorizzando il merito»: di chi? per cosa? Bisognerebbe avere il coraggio di dire che la sanità è pubblica e universale se accessibile a tutti sull’intero territorio nazionale e in grado di garantire cure adeguate lungo tutto l’arco di vita a prescindere dalla propria posizione economica, sociale, etnica. Non esiste sanità universale se l’assistenza ai disabili e agli anziani ricade sulla disponibilità di tempo ed economica delle famiglie. Non esiste una sanità come bene pubblico se è esternalizzata ai privati. Non ha carattere universale tutta quella parte di sanità gestita dai fondi integrativi attraverso il meccanismo del welfare aziendale, in cui si baratta, ma solo per chi ce l’ha, il diritto alla salute con un aumento salariale: istituti che attengono a due sfere distinte dei diritti sociali.

Per non parlare del volo pindarico con cui hanno fatto rientrare nella nebulosa che porta il nome di «governance della società digitale» il tema dell’equità fiscale – come, dove, chi e quando non è dato sapere –, ma anche «i modelli redistributivi che incidono sulla logistica, sulla finanza, sul turismo» e dulcis in fundo «i diritti dei lavoratori digitali (cosiddetti riders)». Una confusione teorico concettuale che si fa fatica a capire se sia voluta o meno: a essere digitali sono i meccanismi di governo dei processi, non di certo i lavoratori in carne e ossa che ogni giorno percorrono chilometri di asfalto per consegnare pasti nei tre stati della materia – solido, liquido e gassoso. Lo stesso vale per i facchini e i magazzinieri, per i camerieri e gli addetti alle pulizie del settore turistico-alberghiero. Molto banalmente se esiste l’intenzione di governare processi e meccanismi digitalizzati si potrebbe iniziare imponendo vincoli stringenti all’affermarsi di piattaforme come Airbnb, obiettivo politico che si diffonde in Europa. Senza questi interventi, appare quanto mai incongruente la proposta di «rendere più trasparente la contrattazione in materia di locazioni» dal momento che le case destinate agli affitti lunghi diminuiscono a vista d’occhio; e probabilmente gli interventi a favore dell’edilizia pubblica, se mai dovessero essere quantitativamente congrui, avrebbero bisogno di tempi di realizzazione ben diversi da quelli dettati dall’urgenza della realtà quotidiana.

A parte il surrealismo di alcuni punti, il documento programmatico appare nel suo insieme il risultato di una mediazione senza convergenza, non soltanto tra Pd e M5S, ma all’interno degli stessi partiti. L’alleanza di facciata e il senso di responsabilità istituzionale rappresentano la maschera di un rapporto inevitabilmente competitivo. Ciascuno è interessato a riconquistare consenso: provando a far dimenticare decenni di austerità ma anche i quattordici mesi all’insegna del liberismo autoritario del governo Lega-M5S. È in questo interstizio che si apre uno spazio politico per riportare al centro lo scontro tra interessi sociali, incalzare e sfidare l’azione di governo e provare – per chi è ancora interessato – a riunificare attraverso il conflitto un blocco sociale, a cui magari dare un giorno una rappresentanza piena dentro e fuori le istituzioni.  

La via di fuga che il programma concordato lascia intravedere è una politica economica che normalizzi le cause del conflitto sociale dentro un assetto concertativo e inevitabilmente corporativo. Una riduzione del cuneo fiscale per i lavoratori da un lato e, dall’altro, una lunga lista di incentivi alla imprese. Incentivi per investire nella riconversione ecologica, per le aziende che offrono ospitalità (cioè quelle del settore turistico), per le start up, per il Made in Italy, per le imprese agricole. Ed è proprio il tema del cuneo fiscale al centro della narrazione sulla presunta discontinuità del nuovo governo rispetto ai precedenti. Discontinuità tutta di facciata, funzionale a recuperare consenso in una parte del mondo del lavoro senza intaccare le relazioni con il blocco borghese. Non si dice infatti in che modo sarà finanziato e si rimuove la questione salariale come terreno di conflitto distributivo, dipendente cioè dai rapporti di forza tra lavoratori e imprese, prima ancora che redistributivo. Siamo sicuri che non tirino fuori dal cassetto quel piano di privatizzazioni da 18 miliardi già proposto lo scorso inverno dal Ministro Tria a Bruxelles? Verificheremo quale sia e se esiste la convergenza sul tema del salario minimo, dal momento che le proposte del Pd e del M5S non sono poi così compatibili. Ad ogni modo, senza dubbio su questi due temi si misureranno da un lato l’autonomia della politica e, dall’altro, la capacità di spinta progressiva dei sindacati e/o delle forze politiche che intendono rilanciare la questione sociale nel nostro paese. 

Tra i ventinove punti trovano spazio quattordici righe sull’importanza dell’agricoltura come «comparto decisivo rispetto alle sfide che il nostro Paese deve affrontare» (sic!) ma nessuna parola sulle filiere produttive e la loro organizzazione, la stessa che produce e riproduce fenomeni di caporalato nel settore agroalimentare così come in molte altre industrie. E come verrà coniugata l’autonomia differenziata con lo sviluppo del sud? Nelle intenzioni del governo promuovendo crescita e lavoro al sud tramite una banca di investimenti che dovrà aiutare le aziende di tutta Italia a investire nel meridione. Con la stessa contraddizione in termini si sostiene di voler dare diritto di tornare in Italia ai milioni di cittadini emigrati – sono 2 milioni solo quelli del sud negli ultimi quindici anni, secondo il rapporto Svimez 2019 – non per una questione di giustizia sociale, di diritto o di libertà, ma per tenerli vincolati a quel ricatto escludente chiamato «merito». E non potrebbe essere altrimenti senza un politica che ribalti da cima a fondo il processo di svalutazione e precarizzazione del lavoro.

Tra i temi agitati con più enfasi c’è sicuramente quello ambientale: si parla addirittura di Green New Deal, di necessità di un cambio di passo culturale che abbia a cuore la biodiversità. Con una carrellata di intenzioni: investimenti per la conversione energetica, l’adozione di provvedimenti che «incentivino prassi socialmente responsabili da parte delle imprese; perseguire la piena attuazione della eco-innovazione». Tutto con una grande attenzione nella scelta del lessico, ma manifestamente in contraddizione rispetto alla volontà di proseguire con le grandi opere, ribadito dalla neo ministra delle infrastrutture Paola de Micheli. Così come quando si parla di sostenibilità ambientale senza affrontare il tema di come rilanciare il trasporto pubblico locale, la mobilità ferroviaria regionale diventata, specie al sud, una chimera o talmente costosa da lasciare quale unica alternativa il trasporto su gomma.

Non serve stare a guardare, con un apatico o cinico «lasciamoli lavorare»: ci sarà bisogno di rinvigorire la dialettica democratica e il conflitto sociale, costringendo le istituzioni a confrontarsi con la società e le sue rivendicazioni. Lo sanno bene gli imprenditori che ancora prima dell’esito finale dell’accordo tra Pd e M5S hanno espresso chiaramente le proprie richieste: alzare i salari, ma solo ai giovani e senza far ricadere l’aumento sulle loro spalle. Una partita di giro che mantiene i profitti l’unica variabile veramente indipendente. Non solo, chiedono anche che lo Stato si impegni a finanziare parte degli investimenti in tecnologia e innovazione delle aziende private piuttosto che il reddito di cittadinanza o quota 100. E a nessuno sorge spontanea la domanda sul perché dovremmo socializzare i costi ma non i profitti. Se qualcuno ancora nega la necessità di un intervento di pianificazione democratica della produzione, si potrebbe almeno ribattere che non basteranno esigui incrementi salariali per pareggiare i conti. Discontinuità non significa fare a gara a chi propone gli incentivi più estrosi, ma rimettere in discussione i processi e i meccanismi di produzione e distribuzione della ricchezza. A partire da quelli che coinvolgono in ogni sua forma il sistema degli appalti e delle esternalizzazioni. E di queste due parole, nel programma di governo non vi è traccia. 

Non ci si può accontentare della dichiarazione di voler aumentare i fondi per l’istruzione e l’università se contestualmente si rilancia l’idea di un sistema di reclutamento che ricalchi i migliori standard internazionali da accompagnare con l’introduzione dell’ennesima agenzia. Perché se il perno è di nuovo sul «merito» siamo di fronte a un cortocircuito: non esiste diritto universale se questo è reso dipendente da un concetto che non fa che mascherare l’istituzionalizzazione delle diseguaglianze. Il merito, in una società sempre più classista, si eredita come la ricchezza e non ha niente a che vedere coi bisogni, con la democrazia, con l’articolo 3 della Costituzione. In due parole: con la giustizia sociale. 

Per non lasciare l’opposizione nelle mani di Salvini, andranno sfruttati tutti i margini di competizione tra le forze politiche, le loro lotte interne, contraddizioni e ambiguità. Portare a casa il possibile di quel poco che verrà – se verrà – concesso, continuando a proporre e praticare una visione radicale realmente a vantaggio della maggioranza di questa società. E per farlo non abbiamo bisogno di più responsabilità, ma di più politica.

*Marta Fana, PhD in Economics, si occupa di mercato del lavoro. Autrice di Non è lavoro è sfruttamento (Laterza).

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