Chi sono i veri antisemiti?
Le accuse infamanti di antisemitismo a chi critica Israele, il razzismo della destra, le contraddizioni della sinistra, il Piano Trump per la Palestina. Ce ne parla un dissidente israeliano
Ronnie Barkan è un dissidente israeliano e un attivista della campagna per i diritti del popolo palestinese Bds e dei movimenti contro le politiche di colonialismo, occupazione militare e apartheid del governo israeliano. Attualmente vive a Berlino dove, insieme ad altri due attivisti, sta sostenendo un processo per aver definito pubblicamente le politiche di Israele «crimini contro l’umanità».
Ronnie, per inquadrare innanzitutto il tuo attivismo, quali sono a grandi linee gli obiettivi politici che ti spingono ad agire in un contesto come quello tedesco in generale e berlinese in particolare?
Credo che il nostro ruolo di attivisti debba essere volto superare le ingiustizie sistemiche e affermare i diritti o i valori per i quali crediamo valga la pena lottare. In secondo luogo, come individuo, sono anche nato in un contesto specifico, in cui i miei diritti e i miei privilegi mi vengono consegnati e garantiti a spese degli «altri». Tutto ciò che riguarda la creazione del progetto sionista in Palestina ruota attorno a questa semplice nozione: i privilegi per un gruppo etnico sono a spese di tutti gli altri, specialmente se gli altri sono gli indigeni di quella terra. Chiunque pensi che lo Stato di Israele sia stato istituito per qualsiasi altro scopo è quantomeno poco informato sulla questione. Esattamente per come qualsiasi persona bianca consapevole dell’apartheid in Sudafrica o durante la schiavitù in Nord America, il mio parlare e agire per l’abolizione del sionismo è qualcosa di naturale, è il risultato diretto e più ovvio dell’essere nato in quel sistema di oppressione. La ragione poi per cui concentro i miei sforzi in lungo e largo qui a Berlino è perché la vedo come l’ultimo bastione permanente del sionismo. Penso che piuttosto che imparare dal suo orribile passato, la Germania in generale, e Berlino in particolare, quasi non vogliano mai guardarsi allo specchio. E per questo sostengono attivamente uno Stato la cui politica ufficiale è quella di praticare crimini contro l’umanità. Poiché larga parte della cosiddetta «sinistra tedesca» è in prima linea nell’assalto ai palestinesi in nome di una presunta protezione dello Stato criminale sionista, per i pochi dissidenti israeliani che sono in giro è ancora più urgente prendere parola proprio su quel terreno in cui l’intero spettro politico tedesco risulta ambiguo.
A questo proposito tu sei tra gli animatori a Berlino della campagna internazionale Bds. E recentemente il Bundestag ha votato una mozione in cui si definiva la campagna Bds antisemita. Una definizione particolarmente odiosa e un’accusa molto grave. Come hai letto, da ebreo, dissidente israeliano e attivista della campagna questo voto? E quali riscontri ha qui in Germania la campagna Bds?
Durante le sessioni dello scorso maggio al Bundestag, c’è stato un voto unanime contro la campagna Bds. Non un singolo parlamentare, nemmeno uno, ha votato contro l’equiparazione tra Bds e antisemitismo. Tre mozioni sono state presentate al parlamento. L’Afd, una coalizione Cdu-Spd-Verdi e la Linke hanno votato ciascuno per la propria mozione ma contro quelle quasi identiche presentate dai gruppi loro concorrenti. Per quanto ne so, nessun parlamentare ha scelto di esprimere una voce dissenziente. La maggior parte delle persone si aspetterebbe che io, in quanto dissidente israeliano, individui come avversari più insidiosi un partito espressamente razzista come Afd o magari il movimento anti-Deutsch che è ultra-sionista e soffre evidentemente di dissonanza cognitiva. Ma, paradossalmente, la minaccia di gran lunga maggiore alla libertà di espressione in Germania viene da una tradizione politica ben diversa; da chi ha creato le condizioni perché si arrivasse ai recenti attacchi contro le voci filo-palestinesi e il movimento Bds. E tra questi attacchi ci sono anche i tentativi di criminalizzare gli attivisti per reati d’opinione difficilmente dimostrabili senza quel genere di voto politico. Tra questi tentativi c’è anche il procedimento penale contro di me e altri compagni per aver stigmatizzato apertamente i crimini israeliani. Amaramente devo ammettere che i principali avversari che abbiamo di fronte fanno parte della sinistra tedesca. È il partito Die Linke e la sua ala di pubbliche relazioni, la Rosa Luxemburg Stiftung che, oltre a svergognare l’eredità della stessa Luxemburg, oggi è il nostro principale antagonista. Hanno alle spalle una storia decennale di falsa equiparazione tra Bds e l’antisemitismo e di isolamento delle voci che chiedono la piena uguaglianza in Israele-Palestina. Proprio come per la cosiddetta «sinistra» israeliana, anche quella tedesca giustifica il suo attacco ai diritti dei palestinesi con una facciata democratica e pseudo-liberale. Diventa fondamentale che gli attivisti, i militanti, gli elettori siano informati in maniera seria e per questo sono preziosi i giornalisti così coraggiosi e rigorosi da confutare discorsi colmi di menzogne. Retoriche che formalmente affermano di voler promuovere pace e giustizia mentre agiscono instancabilmente per proteggere e perpetuare sette decenni di crimini israeliani contro l’umanità. E le mistificazioni e accuse contro il movimento Bds non sono solo odiose per queste ragioni ma anche perché utili a distogliere l’attenzione da casi molto reali di antisemitismo e razzismo nell’estrema destra.
Andando oltre i partiti qual è la sensibilità sulle politiche sioniste nella società tedesca, nei media, nei movimenti sociali, nella sinistra diffusa?
Dal mio soggettivo punto di vista non esiste una sinistra politica tedesca, così come non ce n’è una in Israele e per ragioni molto simili. Ho scelto di stabilirmi qui proprio perché vedo questo contesto come il posto più sionista del mondo. È vero, ovviamente, che qui è necessario lottare non solo contro il sionismo o altre forme di suprematismo. Ma per esempio, la società tedesca incoraggia l’obbedienza e non mette mai in discussione l’autorità; e da questo punto di vista c’è ancora molta strada da fare. Il largo supporto politico, acritico e miope, all’impresa criminale sionista si presenta come una «soluzione semplice» per la società tedesca; un’adesione che libera psicologicamente l’intera società dal riflettere nel profondo sul proprio razzismo strutturale e sulla propria cieca obbedienza all’autorità. A dire il vero, ad alcuni giornalisti di testate importanti è stato necessario fare espressamente divieto dal diritto di critica verso le scelte del governo israeliano, ma su questa questione si va persino oltre. Esemplare a tal proposito è la definizione della Staatsräson tedesca – la ragione di Stato – una definizione suprema al di sopra di qualsiasi legge scritta, compresa la Costituzione, che tutela il singolo essere umano. Nella Staatsräson si sostiene che il compito fondamentale e la ragione reale per l’esistenza della Germania post-nazista è garantire l’esistenza dello Stato sionista, non importa a quale prezzo. Questo supporto fideistico da parte di un’intera società, il sostegno a uno Stato che commette crimini contro l’umanità elevato a ragione di Stato ufficiale è, credo, davvero molto significativo. E spiega efficacemente il motivo per cui ho deciso di stabilirmi qui e quanto importante sia il ruolo politico che i dissidenti israeliani come me possono svolgere in questo contesto.
Nelle recenti elezioni inglesi le accuse di antisemitismo contro Jeremy Corbyn e il Labour Party hanno avuto un peso importante quasi quanto il tema principale, la Brexit. Ora negli Usa sembra si ripeta lo schema contro la campagna di Bernie Sanders. Che idea ti sei fatto su questo imporsi nel dibattito politico di una nuova «emergenza antisemitismo»?
La cosa più urgente da dire è che oggi non esiste alcuna emergenza antisemitismo nella politica inglese. Anzi semplicemente non è mai esistita. E anche se non esisteva nella realtà, era ovunque nei media britannici e globali. Ma per i sionisti probabilmente potrebbe essere emersa una crisi antisionista. Le false accuse di antisemitismo, provenienti da organizzazioni sioniste, non si sono infatti fermate nemmeno dopo le recenti elezioni nel Regno Unito. Mentre parliamo, il Board of Deputies, che è una rabbiosa organizzazione sionista che pretende di rappresentare tutti gli ebrei, sta portando avanti l’assalto agli esponenti del Partito laburista britannico critici nei confronti del sionismo. E lo fanno con una campagna che vuole imporre loro di sottoscrivere un elenco di dieci impegni. Potremmo facilmente smontare i dieci impegni, evidenziando le bugie e la manipolazioni presenti in ognuno.
Sfortunatamente, però, la maggior parte dei media non si farà mai carico di un impegno così gravoso. Questo poiché è comunque più comodo rigurgitare il discorso esistente basato sulle menzogne. Discorso che parte sempre dall’accettazione della strumentale sovrapposizione tra ebraismo e ideologia sionista suprematista, riferendosi allo Stato sionista come «lo Stato ebraico», con il suo intrinseco sistema di apartheid e regime suprematista cui riferirsi come «democrazia israeliana» e così via. Gli stessi attacchi contro Corbyn sono ora rivolti contro Sanders e hanno la stessa validità. Dobbiamo ricordare che Sanders e Corbyn rappresentano una visione che è incompatibile col progetto sionista e per questo non si fermeranno davanti a nulla per toglierlo di mezzo. Basterebbe anche solo un leader di un paese della Nato che metta in discussione la legittimità anche solo di alcuni aspetti del sistema di oppressione sionista, per provocare un potenziale effetto domino. Come nel caso delle calunnie contro Corbyn, ora anche contro Sanders sono i cosiddetti referenti progressisti del «sionismo liberale» a guidare questa implacabile campagna di delegittimazione. E come è stato dimostrato con Corbyn, l’unica risposta efficace a tali tentativi può essere solo con toni non dispiaciuti e senza concedere nulla se non diritti pieni e uguali per tutte e tutti.
Però è innegabile che in diversi contesti, penso all’Italia, ma anche agli Stati uniti come alla Germania c’è effettivamente un aumento significativo di azioni antisemite, no?
Certo, è così. Questo innanzitutto perché c’è un diffuso sentire razzista «anti-qualcosa» e persino un ritorno evidente di forme più o meno esplicite di fascismo. Ed è un sentire in aumento in tutto il mondo. E include ovviamente anche l’antisemitismo. Ma la forma di razzismo di gran lunga più presente ed evidente in Germania è l’islamofobia. Per comprendere le ragioni dell’aumento degli atti di razzismo basterebbe osservare il consenso delle retoriche di odio di leader come Bolsonaro e Trump, Orban e Netanyahu, solo per citarne alcuni. Insieme all’ascesa delle forze fasciste, tuttavia, esiste una concreta possibilità per l’affermarsi di un movimento antirazzista globale, basato sui diritti e quindi universale. Il movimento Bds ne è un brillante esempio, ma per una voce globale deve ancora esserci l’incontro di altri gruppi oppressi ed emarginati come anche di altri indigeni di tutti i continenti. Di recente a Berlino abbiamo organizzato una marcia anticoloniale che ha riunito molti gruppi da tutto il mondo, incluso ovviamente il Bds palestinese. Stiamo davvero osservando la globalizzazione di una lotta antifascista davanti ai nostri occhi e ci sono molte ragioni per essere ottimisti, ma allo stesso tempo realisticamente abbiamo ancora molta strada da fare. Oltre a tutti questi processi, c’è anche uno straordinario aumento di un sentimento antisionista in tutto il mondo. Non è ancora prevalente in Germania, ma nei luoghi in cui la consapevolezza pubblica dei crimini israeliani è maggiore, vi sono crescenti critiche nei confronti del sionismo e delle sue pratiche criminali. Questo cambiamento nell’opinione pubblica è molto preoccupante per le organizzazioni sioniste che a loro volta rilanciano provando a confondere il sionismo con l’ebraismo, imponendo alla sinistra di assumere che essere antisionisti (e quindi antirazzisti) equivale a essere antisemiti. La nostra risposta a ciò dovrebbe semplicemente essere la negazione di ogni e possibile legame tra sionismo ed ebraismo.
Tuttavia c’è qualcosa che ancora non mi torna, probabilmente sono legato a schemi superati. Qualche giorno fa, per esempio, avete organizzato come Bds un presidio di fronte al Bundestag. Come prevedibile c’è stata una contro manifestazione, abbastanza piccola a dire il vero. C’è una foto dei contro-manifestanti che mi ha colpito. In primo piano c’è un sionista che sventola una bandiera israeliana, indossa un cappello da baseball con scritto «Make America Great Again». E fin qui visti i rapporti tra Trump e Israele potrebbe non esserci contraddizione. Ma alle sue spalle c’è un militante naziskin con testa rasata, tatuaggi e simboli che si richiamano alla destra neonazista tedesca. Come è possibile? Non c’è una contraddizione nell’alt-right e nei movimenti sovranisti globali che sventolano una bandiera con la stella di David e si richiamano alle forme più classiche di antisemitismo?
Non esiste contraddizione all’interno dell’alt-right. Essere antisemiti e sionisti è un fenomeno più che naturale. I primi sionisti erano esplicitamente anti ebraici e discutevano degli ebrei religiosi in Europa nei modi antisemiti più razzisti che si possano immaginare. Per questo cercarono di creare un «nuovo ebreo» che non aveva nulla a che fare con la religione ebraica e tutto con una forma moderna di nazionalismo e suprematismo. Il nazionalismo è un elemento estraneo al giudaismo e la falsa nozione di «nazionalismo ebraico» è una delle tante creazioni del sionismo che si allontanano dal giudaismo. Richard Spencer ha ragione al 100% quando si definisce «sionista bianco». A differenza dei cosiddetti sionisti liberali, Spencer in realtà è coerente. Il sionismo è semplicemente una forma di supremazia etnica che vuole parlare a nome di tutti gli ebrei, proprio come il Kkk afferma di parlare a nome dei cristiani o l’Isil a nome dei musulmani. La dissonanza cognitiva non riguarda Spencer ma ogni singolo «sionista liberale» come l’intera redazione del quotidiano Haaretz che gravita intorno a uno specifico ragionamento liberal sionista basato su menzogne. A differenza dei sionisti onesti e non pentiti come Spencer o la destra israeliana, i sionisti liberali devono costantemente mantenere una narrazione falsa per apparire eticamente morali e sionisti allo stesso tempo. Questo per due ragioni. In primo luogo, quel genere di discorso nasce da un bisogno quasi «psicologico» di raccontarsi come il volto umano e eticamente accettabile in una situazione evidentemente disumana. In secondo luogo, è funzionale a convincere l’opinione pubblica mondiale, anche in modo molto efficace, che esista qualcosa di legittimo nel progetto sionista per la Palestina. Così hanno creato con successo un mito: la possibilità che esista uno stato sionista che non sia profondamente contrario ai principi democratici di uguaglianza, multiculturalismo e rispetto dei diritti delle minoranze. Questo è un modo comprovato di disinformazione nello Stato di Israele, in cui non vengono inventati i fatti ma piuttosto si agisce su come raccontarli. Nel discorso pubblico si crea così una sorta di «area intermedia», di compromesso fittizio, in una dialettica avvincente tra due polarità: un suprematismo non apologetico da una parte e le persone che da questo vengono oppresse e sottomesse.
Concludendo spostiamoci proprio in Palestina. Da dissidente israeliano e attivista Bds come giudichi l’attuale situazione israelo-palestinese?
Per valutare la situazione in Palestina, anche nota come Israele, è importante comprendere il modo in cui si è lì imposto il progetto sionista. Questo problema fondamentale non ha mai riguardato la «terra», ma piuttosto quali fossero le persone a cui concedere il diritto di vivere su quella terra. Sono dei «nostri» o dei «loro»? Questo è il cuore della questione e la ragione fondamentale da cui nasce tutto ciò che sappiamo. Lo Stato di Israele è stato costruito letteralmente sulla Palestina e in particolare a spese della sua popolazione indigena. Alcuni furono espulsi sette decenni fa e a loro fu negato, e lo è fino a oggi, il ritorno alla propria terra; altri sono controllati giorno e notte da un esercito che nega i loro diritti più elementari, incluso il diritto alla vita; e un terzo gruppo vive come cittadini o residenti di seconda classe soggiogati, in uno Stato il cui principio fondamentale è negare loro i diritti riservati esclusivamente ai padroni della terra. In totale, quindi, ci sono tre distinti gruppi più o meno delle stesse dimensioni che vengono direttamente interessati da questo sistema di oppressione: parliamo di 20 milioni di persone in tutto. Un primo gruppo composto da chi beneficia di un sistema costruito esclusivamente nel suo interesse; un altro terzo della popolazione soggiogato o sotto una brutale occupazione militare. E l’ultimo terzo completamente assente dal territorio. A questi viene negato il diritto a tornare a casa da settant’anni per una e una sola ragione: «loro» non sono dei «nostri». Direi che tutto sommato poco è cambiato politicamente nel sistema Israele-Palestina. Ciò che sta cambiando, anche molto rapidamente, è però l’intera percezione della situazione. Questo per le forzature della destra israeliana al potere da una parte e per l’allargamento del consenso intorno alla campagna Bds nell’opinione pubblica globale. In altre parole tutto sta diventando più chiaro ed esplicito rispetto al passato. Ora che il discorso strumentale del «sionista liberale» sta finalmente perdendo peso politico, l’opinione pubblica come anche i rappresentanti politici di tutto il mondo si trovano in una condizione in cui sono obbligati a prendere una posizione: con gli oppressori o con gli oppressi? Con l’apartheid o la democrazia? Con i «diritti» da garantire solo a un gruppo esclusivo o a tutte le figlie e tutti i figli di questa terra?
Una novità si è prodotta proprio in questi ultimi giorni: il Piano di Trump. Come si inserisce questa novità nella tua valutazione? E quali sono gli elementi più significativi secondo te del piano presentato dal Presidente degli Usa?
Il Piano Trump contiene in realtà pochissime cose nuove o sorprendenti. Oltre al modo grottesco in cui è stato presentato, ci sono solo due punti realmente degni di nota. In primo luogo, il piano è la conseguenza ovvia e prevedibile della legge sullo «Stato nazionale ebraico», votata nel luglio 2018. In secondo luogo, è interessante prestare attenzione non solo a ciò che è stato detto, ma anche a ciò che è stato deliberatamente omesso. Iniziamo dal primo punto. Al contrario di quanto molti media scrissero rispetto alla legge sullo «Stato nazionale ebraico», nei testi giuridici israeliani poco o niente veniva modificato. Tutto ciò che era specificato nel testo di legge non era una novità, ma, anzi, era lì da sempre. La differenza è che alcune prassi giuridiche venivano solo rese esplicite. In particolare nel quadro giuridico dello Stato sionista, i diritti della razza/gruppo etnico vengono definiti dalla distinzione fondamentale tra diritti «nazionali» e diritti di «cittadinanza». Grazie a questa distinzione è stata possibile l’emersione progressiva di un regime di apartheid. Fondamentalmente si è creato un sistema legale a doppio livello che distingue tra alcune persone che vanno ricercate e richiamate verso lo Stato di Israele e altre persone che vanno espulse in quanto indesiderate. Un sistema che offre i diritti più alti e i privilegi più importanti a un gruppo esclusivo – definito secondo il concetto di «nazionalità» e contemporaneamente crea una fragile parvenza democratica offrendo a tutti i diritti di «cittadinanza». La legge dello Stato nazionale ebraico è servita solo al governo israeliano di destra per disvelare l’unica sostanziale differenza tra destra e sinistra israeliana. Quella tra forme esplicite e implicite di suprematismo. La legge infatti non cambia nulla rispetto al passato, ma ha valore rispetto a una pianificazione del futuro! Così nell’articolo 1, al comma c) si stabilisce che: «La realizzazione del diritto all’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è unica prerogativa per il popolo ebraico». Con questa nuova Legge fondamentale approvata, praticamente impossibile da modificare, viene resa di fatto irrilevante l’intera questione della demografia o «la necessità di separarsi» dai palestinesi. E mentre la cosiddetta sinistra israeliana ha un disperato bisogno di creare uno stato palestinese o forzare un’autonomia dai palestinesi al fine di segregarne il maggior numero per mantenere il proprio Stato «razzialmente» puro, l’ala destra, che non si vergogna del proprio suprematismo, ha gioco più facile. Tutto ciò che serve è garantire che loro, e solo loro, resteranno i padroni della terra in futuro, indipendentemente dai futuri assetti demografici: i diritti «nazionali». Questo pone le basi per qualsiasi futura annessione di terra ma senza l’ossessione di porre attenzione al gioco dei numeri. Consentirebbe l’annessione immediata dell’Area C ma persino dell’intera Cisgiordania. Consentirebbe anche, se lo si desiderasse, il ritorno dei 6 milioni di rifugiati palestinesi nella diaspora, perché nei fatti espulsi da qualunque possibilità di esercitare diritti politici o effettivo potere decisionale. Consentirebbe formalmente di dare «piena cittadinanza» alla popolazione annessa assicurandosi che i sionisti rimangano i padroni della terra. E il piano Trump è pionieristico da questo punto di vista perché fa un primo e significativo passo verso una serie di cosiddette annessioni legali e democratiche. E qui passiamo al secondo aspetto rilevante che riguarda il Piano di Trump: le omissioni necessarie verso i sionisti israeliani. YNet, la più grande piattaforma di notizie israeliana, ha scelto di pubblicare il discorso di Trump-Netanyahu ma, attraverso una piccola correzione, ha avuto la premura di censurare una frase di Trump. Sfortunatamente non erano le sue dichiarazioni da macho a Mike Pompeo, ma si trattava piuttosto di questo impegno: «Nessun palestinese o israeliano verrà sradicato da casa sua». Nella psiche collettiva israeliana quella frase è incomprensibile perché totalmente inaccettabile. E quel passaggio era tutto sommato persino un impegno controproducente giacché l’intero obiettivo del Piano è annettere legalmente la terra, cosa che inevitabilmente richiederà lo sradicamento forzato, ancora una volta, dei palestinesi dalle loro case. La novità è che questa volta ciò potrà avvenire sotto l’ombrello legale di un corpus normativo democratico in un cambio di un paradigma ancora al di là dall’essere compreso realmente sia in Israele sia nell’opinione pubblica globale.
*Ronnie Barkan è un attivista ebreo israeliano, co-fondatore dell’associazione Boycott from Within e del gruppo Anarchists against the Wall, tra i principali portavoce del movimento Bds. Per scrivergli o seguirlo su Twitter: @ronnie_barkan. Nicola Carella è ingegnere e attivista. Dal 2012 vive a Berlino occupandosi di welfare, precarietà e cambiamenti macroeconomici.
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