Il caso vaccini mostra il fallimento del mercato
Il problema principale della più grande campagna vaccinale della storia non è la distribuzione ma la produzione delle fiale. I governi si sono fatti carico dei rischi economici ma il sistema del monopolio dei brevetti non ne garantisce la reperibilità
La scorsa settimana l’Italia e l’Europa tutta hanno ricevuto una doccia gelata sulla prospettiva di vaccinare l’intera popolazione entro la fine dell’anno. Le aziende farmaceutiche Pfizer e AstraZeneca hanno infatti annunciato dei tagli nelle forniture previste ai paesi Ue, fino al 60% nei prossimi tre mesi. AstraZeneca consegnerà solo 31 delle 80 milioni di dosi promesse entro la fine di marzo, e non ha ancora formulato un obiettivo di consegna per il periodo aprile-giugno. Sul vaccino Oxford-AstraZeneca sono riposte molte delle speranze perché è facile da conservare – a temperatura di frigorifero, al contrario di -20°C (Moderna) e -70°C (Pfizer-BioNtech) – e con un prezzo decisamente inferiore rispetto ai competitors (€1,78 a dose, contro i €18 di Moderna e i €22 di Pfizer-BioNtech). Pfizer-BioNtech, il cui vaccino è già in distribuzione in Europa, ha annunciato subito problemi di consegna e ritardi, tanto che in Italia e Germania siamo stati costretti a fermare la vaccinazione, con il nostro governo che ha già minacciato di intraprendere azioni legali.
Entrambi i colossi farmaceutici attribuiscono la causa dei ritardi alle difficoltà incontrate dai due (e unici) stabilimenti industriali che riforniscono l’intera Europa, entrambi in Belgio, nel far fronte alla domanda di centinaia di milioni di dosi. Come sostiene l’economista Andrea Roventini dunque, il problema principale della più grande campagna vaccinale della storia non sembra essere la distribuzione del vaccino quanto la produzione delle fiale, processo che si sta rivelando un vero e proprio collo di bottiglia. Nel gridare allo scandalo minacciando le vie legali, i nostri rappresentanti non dovrebbero indignarsi rispetto alle ovvie difficoltà di tipo operativo incontrate da due stabilimenti industriali nel far fronte alla domanda immediata di centinaia di milioni di vaccini. Il vero scandalo, invece, sta nel fatto che le fiale contenenti quella che a oggi sembra essere l’unica risposta alla profondissima crisi sanitaria, economica e sociale in cui versa l’intero continente, vengano prodotte esclusivamente in due stabilimenti industriali.
Dopo quasi un anno dallo scoppio della pandemia e oltre due milioni di morti in tutto il mondo, viviamo adesso un paradosso dal sapore amaro: la tecnologia per l’immunizzazione è stata sviluppata, la domanda c’è (i soldi stanziati dai governi per le fiale), ma l’offerta è insufficiente (le fiale non vengono prodotte in tempo). In un futuro libro di testo di economia, la situazione attuale verrà descritta come caso emblematico di fallimento del mercato, in cui l’incontro tra domanda e offerta avviene in modo sub-ottimale. Ci si chiede dunque com’è possibile che di fronte a un fabbisogno immediato e globale del vaccino la risposta arrivi da soli due stabilimenti produttivi con una produzione limitata e centralizzata? Per quale motivo non è possibile adibire la moltitudine di impianti farmaceutici in Europa e nel mondo alla produzione delle fiale, così da vaccinare il più persone possibili entro un anno? La risposta a queste domande va cercata nel principio fondante che ha permesso a industrie farmaceutiche di diventare veri e propri colossi: il sistema della proprietà intellettuale e dei brevetti.
Il monopolio dei brevetti e la centralizzazione della produzione dei vaccini
Gli attuali problemi di produzione sono la manifestazione di quello che l’economista Ugo Pagano aveva definito come il capitalismo monopolistico intellettuale, un sistema che permette ai detentori di brevetti, per esempio, di escludere gli altri dall’uso della loro proprietà intellettuale, evitando così la concorrenza. Quali sono le conseguenze? Una riduzione dell’offerta competitiva, aumento dei prezzi e abbassamento del welfare economico a causa dell’uso socialmente inefficiente della conoscenza.
Con l’obiettivo di immunizzare miliardi di persone in pochi mesi sarebbe auspicabile poter contare su una catena di fornitura delle fiale il quanto più localizzata possibile. Ciò significa minimizzare la distanza tra la produzione e distribuzione del vaccino, decentralizzando gli impianti farmaceutici per la fornitura delle fiale. Questa prospettiva è però in netto contrasto con i principi fondanti del modello Big Pharma, ovvero la massimizzazione dei profitti attraverso l’applicazione dei brevetti e della proprietà intellettuale. Dal momento che le royalties per i vaccini anti-Covid sono relativamente basse, le compagnie farmaceutiche hanno pochi incentivi di mercato per esternalizzare la propria produzione attraverso accordi con i concorrenti, o per iniziare a impegnarsi in un serio trasferimento di conoscenze e diritti di proprietà intellettuale, in modo che stabilimenti farmaceutici di tutto il mondo possano produrre vaccini. Ci si ritrova quindi, come nel caso dell’Europa, con due soli stabilimenti industriali addetti alla produzione di fiale per l’intero continente. In quest’ottica, l’industria farmaceutica incarna perfettamente due delle caratteristiche principali del capitalismo del XXI secolo, ovvero la finanziarizzazione e il potere monopolistico da un lato, e la centralità dell’economia della conoscenza dall’altro, che pone la massima importanza sul ruolo delle cosiddette risorse intangibili.
Non è sorprendente dunque, ma comunque difficile da accettare, che solo Moderna abbia dichiarato che non applicherà temporaneamente i brevetti relativi al vaccino per il Covid, mentre nessun detentore di diritti sui vaccini si è impegnato a condividere apertamente i suoi brevetti, dati e know-how. Pfizer, infatti, ha dichiarato che farà valere la sua proprietà intellettuale e ha sostenuto il proprio diritto a trarre profitto dai suoi investimenti nei trattamenti contro il Covid. Gli stessi governi occidentali (Stati uniti, Unione europea e il Regno Unito) hanno inoltre bloccato una proposta all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) da parte di un blocco di paesi in via di sviluppo per sospendere temporaneamente l’applicazione della proprietà intellettuale e dei segreti commerciali al fine di accelerare lo sviluppo e la distribuzione dei vaccini anti-Covid, soprattutto nei paesi a basso reddito. La proposta, presentata dall’India e dal Sudafrica in ottobre, e firmata da un totale di 100 paesi, chiedeva all’Omc di esentare i paesi membri dall’applicazione di alcuni brevetti, segreti commerciali o monopoli farmaceutici secondo l’accordo dell’organizzazione sui diritti di proprietà intellettuale legati al commercio. Ciò avrebbe permesso a paesi come l’India, con una grandissima presenza di industrie chimiche e farmaceutiche, di produrre i vaccini e di immunizzare in tempi rapidi e a basso costo l’intera popolazione.
Innovazione pubblica, profitti privati
Gli interessi Big Pharma non si sono fatti attendere nel cercare di legittimare il sistema di brevetti, sostenendo che la perdita della protezione della proprietà intellettuale minerebbe gli incentivi per le aziende di impegnarsi nella ricerca e sviluppo. Anche la stampa conservatrice si è lanciata in difesa dello status quo. Il quotidiano inglese conservatore The Telegraph ha commentato la sbalorditiva rapidità di sviluppo del vaccino anti-Covid sostenendo che «un mercato competitivo per i vaccini anti-Covid dimostra che il capitalismo vince sempre».
Entrambi gli argomenti ignorano il fatto che lo sviluppo di questi vaccini è in gran parte un prodotto dello stato, nel suo ruolo di stato innovatore (come teorizzato da Mariana Mazzucato), essendo frutto di una delle più grandi sovvenzioni di denaro pubblico alle imprese private nella storia del capitalismo. La start-up BioNTech ha ricevuto 375 milioni di euro dal governo tedesco e altri 100 milioni dalla Banca europea per gli investimenti. Il vaccino, sviluppato in collaborazione con Pfizer, avrà un prezzo di 39 dollari per un trattamento di 2 dosi, mentre i costi di produzione ammontano a 15 dollari. Le vendite globali dovrebbero ammontare a 13 miliardi di dollari con il loro vaccino, di cui il 50% andrà a BioNTech. Moderna ha ricevuto quasi 1 miliardo dollari dal governo americano per il finanziamento della ricerca, AstraZeneca 900 milioni e Sanofi 1,5 miliardi. Pfizer ha ricevuto quasi 2 miliardi di dollari dal governo americano in accordo di acquisto anticipato, l’equivalente dell’acquisto di 100 milioni di dosi di vaccino garantite dallo stato, prima che i risultati degli studi clinici fossero noti, fornendo così un esempio di assorbimento del rischio da parte del governo. L’Unione europea ha aggiunto altri 4 miliardi di dollari di impegno di acquisto. Se anche queste somme risultano inferiori a quelle poi sborsate da investitori privati per lo sviluppo dei vaccini, hanno comunque avuto il ruolo fondamentale di favorire questi investimenti, abbassando il rischio per gli investitori con i soldi pubblici.
Si è di fronte quindi a un modello in cui i governi si sono fatti carico dei rischi relativi allo sviluppo dei vaccini, per poi trovarsi di fronte all’irreperibilità delle fiale frutto del sistema di brevetti e proprietà intellettuale, su un bene che hanno contribuito a sviluppare. Questa vicenda sottolinea come da un lato ingenti investimenti pubblici nella ricerca e tecnologia diano risultati formidabili in termini di sviluppi innovativi, dall’altro, come la produzione e commercializzazione di un bene fondamentale lasciata nella sfera di un sistema capitalistico e monopolistico non possa far fronte all’emergenza in cui il mondo versa. I vaccini sono stati sviluppati con i soldi pubblici e pubblici devono rimanere. Il ritardo nella produzione e distribuzione dei vaccini rappresenta un sacrificio di vite umane per proteggere gli interessi miliardari delle aziende Big Pharma.
La pandemia e la crisi del capitalismo
I politici europei si stanno gioco-forza scontrando con la realtà dei fatti, realizzando che il modello di produzione e distribuzione attualmente in campo non può garantire l’obiettivo di immunizzare l’intera popolazione entro i tempi inizialmente previsti. Salvo una mozione presentata all’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa da parte di 38 eurodeputati, le risposte rispetto a questo problema sembrano però mancare il nocciolo della questione. Da un lato, governi come l’Italia e la Polonia minacciano le vie giudiziarie, come se una causa legale potesse in qualche modo risolvere i problemi operativi della produzione delle fiale. Dall’altro, la Germania e la Commissione europea hanno avanzato la proposta di bloccare l’export di vaccini prodotti all’interno dell’Ue (in uscita verso il Regno Unito), spostando la dialettica su un campo nazionalistico invece che sui rapporti tra pubblico e privato. Dalla Francia arrivano timidi segnali di un tentativo di rottura della produzione monopolistica e centralizzata dei vaccini. Il gruppo Sanofi, sotto pressione da parte del governo francese che controlla il 16% delle azioni dell’azienda, si è reso disponibile a produrre a partire dall’estate il vaccino Pfizer-BioNtech nel suo stabilimento di Francoforte. Nel nostro paese, purtroppo, la questione viene inserita in una sterile polemica sull’operato dei commissari pubblici nella gestione della pandemia, perdendo ancora una volta l’occasione di introdurre nel dibattito pubblico questioni fondamentali rispetto all’assetto del nostro sistema produttivo.
Ancora una volta, la pandemia ha messo a nudo le inefficienze e inadeguatezze del sistema economico capitalistico nel far fronte ai bisogni fondamentali della nostra società. I problemi emersi nella produzione di vaccini in Europa sono solo l’ultima manifestazione di tale inadeguatezza. A inizio emergenza, la domanda di materiale protettivo come mascherine e camici si è scontrata contro la mancanza di manifatture in grado di produrre questi beni, perché considerati di basso valore economico. Il processo di digitalizzazione delle attività lavorative e scolastiche, necessario a causa del distanziamento sociale, ha visto intere aree del nostro paese sprovviste di connessione alla rete, perché non costituiscono un’utenza sufficiente a garantire il profitto delle aziende private di telecomunicazioni. Questi sono solo alcuni degli esempi di come il paradigma del mercato libero e della legge del profitto abbiano fallito nel dare risposte adeguate alle esigenze emerse nella crisi sanitaria.
Di fronte a tale fallimento, è venuto il momento di aprire un dibattito serio e condiviso che metta in luce le criticità dell’attuale sistema economico e produttivo. Se è vero che la pandemia ha rimarcato la centralità delle istituzioni pubbliche nel far fronte ai bisogni della società, è allora necessario che chi le rappresenta si impegni nell’affrontare seriamente le cause di questa crisi sistemica, a partire dal ridefinire gli equilibri tra interessi pubblici e privati. È venuto il momento di dare ascolto a visioni alternative rispetto al dominio incontrastato di grandi interessi economici di attori privati, contrastando a parole e a fatti la diffusa percezione di ineluttabilità dello status quo. Le proposte per riequilibrare il rapporto tra pubblico e privato nella nostra economia non mancano e giungono dalle campagne di movimenti sociali e ambientalisti, dalle lotte intersezionali, e dalle numerose voci di accademici e studiosi che ormai da anni immaginano una realtà in grado di superare l’insostenibilità ambientale, economica e sociale del paradigma capitalista.
*Charlotte Bez, dottoranda in Economics presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, si occupa di cambiamento climatico, innovazione e proprietà intellettuale. Giovanni Tonutti, dottorando in Data Science presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, si occupa di analisi delle politiche di welfare e contrasto alla povertà. Entrambi fanno parte del collettivo Exploit/Limonaia.
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