Il diritto di disconnettersi
Il Portogallo ha vietato ai datori di lavoro di stabilire contatti non urgenti con il personale al di fuori della giornata di lavoro. Si tratta di una buona idea, ma è difficile che basterà a tutelare i e le precarie senza orari fissi
All’inizio di novembre, i legislatori portoghesi hanno dichiarato illegale la pratica dei dirigenti di chiamare i dipendenti al di fuori dell’orario di lavoro. La nuova legge prevede che, salvo casi di forza maggiore, «il datore di lavoro ha l’obbligo di astenersi dal contattare il lavoratore durante il periodo di riposo». Le aziende che saranno scoperte a infrangere la nuova regola sono passibili di multe salate. Il provvedimento è stato redatto da una commissione parlamentare che si è dedicata al fenomeno del lavoro da casa. Ma poiché questo principio costituisce un cambiamento nel diritto del lavoro, si applicherà a tutti i dipendenti, sia che lavorino a distanza sia che vadano in ufficio.
La notizia di questa misura in un piccolo paese ai margini dell’Europa si è diffusa rapidamente in tutto il mondo. Mentre in tutto il pianeta si sta ancora cercando di capire quali sono i contratti di lavoro temporanei e quali a tempo indeterminato, durante il secondo anno di lockdown intermittenti, un intervento del genere è destinato a essere visto come all’avanguardia. Tuttavia, sebbene la misura sembri particolarmente rilevante in tempi di pandemia, non è da considerarsi né inedita né legata al problema specifico del Covid-19.
Nel 2016 il governo francese ha approvato una legge che sancisce il «diritto alla disconnessione», proteggendo i lavoratori e le lavoratrici da eventuali sanzioni derivanti dalla mancata risposta a e-mail e chiamate al di fuori dell’orario di lavoro. Nello stesso anno, una legislazione simile è stata introdotta dai governi italiano e spagnolo. In Germania, sebbene non ci sia ancora una legge, è una pratica diffusa tra alcuni dei maggiori datori di lavoro del paese sin dai primi anni 2010. Ad aprile, l’Irlanda ha introdotto un codice di condotta che integra la legislazione esistente al fine di proteggere i dipendenti dal superlavoro.
Ma la legge portoghese va anche oltre il «diritto alla disconnessione» del lavoratore. Scarica sul datore di lavoro l’onere di non contattare il dipendente al di fuori dell’orario di ufficio. Non è una semplice differenza semantica, significa porre un freno ai capi che hanno carta bianca. La legge redatta in altri paesi europei, nel migliore dei casi, offre ai lavoratori e alle lavoratrici alcuni strumenti per difendersi dagli eccessi dei padroni, se trovano modo di reagire. La versione portoghese dichiara illegittimi questi eccessi fin dall’inizio.
Tuttavia, sebbene la nuova legge abbia motivo di essere salutata con favore, ha incontrato reazioni contrastanti dal lato progressista della politica portoghese. È stata approvata in parlamento senza l’appoggio del Partito comunista e delle forze centriste, esclusi i socialisti al governo. Il Bloco de esquerda ha mostrato un sostegno incerto, astenendosi durante le fasi di stesura ma alla fine votando insieme al Partito socialista.
Le ragioni di questi contrasti risiedono in parte nell’interpretazione che determinate forze politiche danno del diritto al lavoro (e dei diritti sul lavoro) in un sistema capitalista. Ma soprattutto, il divario si concentra sulla vaghezza del linguaggio del testo e sulla consapevolezza che ci sono problemi più grandi da risolvere prima del diritto – o il dovere – di staccare dal lavoro.
Problemi più grandi
Il Portogallo è stato a lungo uno dei paesi dell’Unione europea (Ue) con il più alto numero di ore lavorative annuali. L’anno scorso si è classificato undicesimo nella classifica dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), con una media di 1.613 ore per lavoratore. Si è trattato di una diminuzione significativa rispetto ai tempi pre-pandemia: i dati del 2019 hanno mostrato che i lavoratori e lavoratrici portoghesi dedicano 1.745 ore del loro anno al lavoro. Per fare un confronto, la media dell’Unione europea è di 1.513 ore all’anno, mentre i lavoratori in Germania, il paese più basso, hanno una media di circa 1.332 ore. Ciò significa che lavorano più di sette settimane lavorative (quaranta ore) all’anno in meno rispetto ai loro omologhi portoghesi.
A queste statistiche si aggiungono considerazioni spesso trascurate come gli straordinari non pagati, ma non riescono a dare l’idea della cultura del lavoro in questi paesi. Il Portogallo, nonostante la sua potente storia sindacale, è stato paralizzato da decenni di controriforme e indottrinamento culturale, in aggiunta all’endemica bassa retribuzione. I diritti dei lavoratori conquistati durante l’anno rivoluzionario del 1974 e fino alla fine di quel decennio, alla metà degli anni Ottanta furono fatti a pezzi dall’irruzione dell’era neoliberista. Al loro posto, i successivi governi portoghesi hanno costruito un sistema che fornisce sussidi mediocri ai disoccupati piuttosto che difendere i lavoratori da licenziamenti facili o riconoscere loro il diritto a salari dignitosi.
Nel 2019, secondo le statistiche ufficiali, lo stipendio medio mensile era di circa 1.300 euro e il salario minimo di 600 euro al mese: il 21% della popolazione che si stima viva con il salario legale più basso fa fatica ad arrivare a fine mese. Nel 2021, il Portogallo è in una seconda generazione di lavoratori abituati alla precarietà, pagati miseramente e un ambiente di lavoro fertile per gli abusi. Il lavoro a distanza ha aggravato una situazione già raccapricciante.
La forza maggiore
«Maria» è un’assistente al servizio clienti di un call center. Il suo problema non è tanto il suo diretto superiore, ma il team informatico con cui lavora. I problemi con le password e altre questioni di accessibilità vengono spesso risolti dopo il suo orario di lavoro, tramite messaggini. Ma le intrusioni a volte sono andate al di là di un rapido scambio di WhatsApp. Nel caso «più grave», Maria si è lamentata di un problema con il suo schermo e non ha ricevuto risposta dai tecnici. Poi «appena sono andata in ferie mi hanno chiamato alle 7 del mattino e hanno chiesto al mio supervisore di accendere il computer». Ha dovuto litigare con il suo manager per essere lasciata in pace durante le ferie.
Alcuni anni fa, nella regione di Leiria, un hotel abbandonato ha assunto l’addetto alla manutenzione José Bettencourt Costa e Silva. L’edificio era particolarmente fatiscente, il che significava che José veniva spesso chiamato dalla direzione dopo il suo orario di lavoro per risolvere vari problemi. «Poiché conoscevo l’infrastruttura, che si trattasse di aria condizionata, riscaldamento dell’acqua, ecc., ho potuto risolvere via telefono». È successo molte volte e il suo lavoro extra non retribuito è stato così apprezzato che anche dopo aver lasciato il lavoro José è stato chiamato per formare nuovo personale o dare un piccolo aiuto quando nessuno era reperibile. Le interruzioni hanno finito per disturbare anche la sua vita domestica: «Ho il sonno pesante, quindi non mi sveglio, ma mia moglie si sveglia con le chiamate e sveglia a sua volta me».
José pensa che la nuova legge sia un buon passo avanti, anche solo per spingere le aziende a pagare il tempo impiegato dai lavoratori per lavorare quando dovrebbero riposare. Tuttavia, José sa che in situazioni di crisi il capo potrebbe contattare legalmente i lavoratori, indipendentemente dall’ora del giorno. Su questo punto, José è pragmatico: «Può succedere ma [in un certo senso] che sia pagato». Nel suo caso «non è mai stato valutato o remunerato in un pacchetto, [quindi era] impossibile quantificare [quanto fosse lavoro fuori orario]».
Ecco la più grande critica al nuovo corso: la sua vaghezza. Il Sindicato dos Trabalhadores de Call Center (Stcc) lo ha definito «insufficiente e peggiore… Molto poco chiaro». Il sindacato è stato invitato a contribuire ai lavori della commissione parlamentare, ma i suoi suggerimenti presentati durante l’estate non hanno trovato posto nel documento finale. Nella dichiarazione, pubblicata sui canali dei social media del sindacato il 14 novembre, ci si interroga su cosa costituisca un caso di forza maggiore che consentirebbe ai datori di lavoro di interrompere legalmente il riposo dei lavoratori.
In effetti, la maggioranza pensa che la forza maggiore dovrebbe essere riservata a tragedie maggiori. Ma non è difficile immaginare che alcuni capi pieghino la definizione alla loro volontà. L’hotel in cui lavorava José potrebbe sostenere che i problemi per i quali i suoi servizi erano necessari erano di fatto emergenze? Come affronterà la legge il caso dell’improvvisa indisponibilità di un lavoratore a presentarsi al lavoro (diciamo, se gli viene diagnosticato il Covid) e della direzione che deve sostituirlo con urgenza?
Potremmo chiederci in particolare come aiuterebbe una lavoratrice come Ana Catarina. Quest’estate, la studentessa di Lisbona ha fatto domanda per lavorare in un campeggio. Ana Catarina non ha avuto un «contratto regolare», ma aveva un disperato bisogno di soldi e ha accettato. Come membro dello staff, anche lei si è accampata in loco e ha lavorato al bar-caffetteria, sembrava un buon affare. Ma le cose si sono presto messe male. «Appena arrivata mi sono ritrovata a lavorare più di otto ore al giorno, quasi tutti i giorni. Ho finito per lavorare fino a quattordici ore, dovendo effettivamente ‘riempire i turni’ e avere solo un giorno libero alla settimana, interrotto da chiamate e messaggi del capo». Ogni volta che un collega non si presentava, indipendentemente dall’ora o dal giorno, il manager di Ana Catarina la disturbava per chiederle di lavorare. Ogni progetto per i giorni di riposo era costantemente rovinato. «Di fatto non potevamo rifiutare e dire di no. Fondamentalmente, poiché avevamo paura di non essere pagati, e poiché non c’era un registro di quelli che lavoravano, abbiamo dovuto sopportarlo». Eppure la nuova riforma prevede poco per le situazioni di lavoro occasionale e non regolamentato, cui sono sottoposti molti lavoratori e lavoratrici portoghesi. Anche se ci fosse stata una regolare assunzione, la necessità del capo di Ana Catarina non sarebbe stata considerata come forza maggiore?
È ora di fare di più
L’Autorità portoghese per le condizioni di lavoro (Autoridade para as Condições de Trabalho, Act) ha da tempo adottato politiche sull’orario di lavoro settimanale massimo (quaranta), sugli straordinari (mai più di 150 ore all’anno) e sul riposo (ogni cinque ore di lavoro e almeno undici ore tra due giorni lavorativi). Detto questo, ci sono eccezioni e scappatoie legali, incluso il cosiddetto «regime di adattabilità» che molti datori di lavoro hanno utilizzato indiscriminatamente durante la pandemia per legalizzare il proprio personale che lavora a distanza. È un sistema di lavoro pieno di zone grigie, in cui i lavoratori sono spesso lasciati alla mercé dell’azienda a causa del loro analfabetismo legale.
«Cambiare la legge non cambia le pratiche sociali. Gli abusi di tempo hanno molte dimensioni e i rapporti di lavoro sono caratterizzati da una grande disuguaglianza – ha scritto il deputato del Bloco de esquerda José Soeiro sulla sua pagina Facebook – Ma che la legge dia questo segno ha un grande significato politico e giuridico. E significa che i lavoratori hanno un’arma in più da impugnare nella lotta per difendere il loro tempo».
Il problema sta allora, come spesso accade, nella capacità della sinistra di far passare riforme immediate senza perdere di vista l’obiettivo finale. Inoltre, con le elezioni generali alla fine di gennaio 2022, la posizione di ciascun partito in parlamento riguarda anche il proprio collegio elettorale. Per il Bloco de esquerda valeva la pena votare per la nuova legislazione sul lavoro. I comunisti erano apparentemente determinati ad andare oltre.
Alla fine, i lavoratori in Portogallo vedranno se i capi adempiono al nuovo «dovere» e se vengono effettivamente applicate sanzioni a coloro che non lo rispettano. Solo i lavoratori e le lavoratrici saranno in grado di dire se è valsa la pena di tutto il clamore della stampa internazionale o se invece sono necessarie misure più rivoluzionarie.
*Joana Ramiro è una giornalista, commentatrice politica, conduttrice. Vive a Londra. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione
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