
Il gioco dei pesci e il coltello della cuoca
Il progresso per Ernst Bloch si situa laddove siamo consapevoli di quale sia il nostro fine, di ciò che vogliamo recuperare e di ciò che invece non ci appartiene
Se si lasciasse il mondo alla sua entropia, diceva Ernst Bloch in una conferenza tenuta il 27 ottobre del 1955 all’Università di Lipsia nella Ddr, esso assomiglierebbe a una tinozza in cui i pesci fanno il gioco dell’amore o si mordono l’un l’altro, fino a che dalla porta non entra la cuoca con diversi coltelli e pone fine a tutto. Una metafora interessante, con la quale non si fa fatica a identificarsi anche oggi, a distanza di più di cinquant’anni: non ci sentiamo forse come questi pesci, nello spazio confuso del nostro privato, attorniati da voci e dinamiche globali che costellano la nostra quotidianità con il senso di una catastrofe imminente, mentre continuiamo questa navigazione senza scopo?
Nell’Europa pre-bellica, quando il modo di produzione capitalistico si stava ancora dispiegando su scala mondiale, nell’intreccio tra intenti illuministici, estensione commerciale e crescita produttiva, l’orizzonte sembrava aprirsi al futuro e al progresso: un avanzare molto cupo, a dire il vero, considerando la condizione della classe operaia o delle popolazioni colonizzate, ma che manteneva in apparenza un senso della storia. Dinanzi alle situazioni contemporanee, alle guerre e alle dinamiche economiche che le sottendono, allo sfruttamento planetario che sembra davvero trovare un argine scarso nella progettualità dei soggetti politici internazionali, non ci illudiamo davvero più che il nostro passo proceda in avanti e verso il meglio. Ci siamo resi conto che i nostri fini erano limitati e contraddittori, davvero troppo europei, che la nostra meta giustificava la creazione di troppe rovine, che mentre inseguivamo democrazia e libertà imponevamo sfruttamento e morte. Ma allora, dinanzi a questo scenario desolante, non ci resta che continuare a essere dei pesci in una tinozza che, dopo aver disgregato il significato del cammino storico come somma di effetti irrelati, procedono senza più chiedersi dove stanno andando o se ci si muove davvero insieme?
Differenziazioni sul concetto di progresso, così il titolo della conferenza di Bloch che venne poi pubblicata l’anno successivo e che è nuovamente edita in italiano grazie alla traduzione di Vittorio Morfino, con un’introduzione di Mauro Farnesi Camellone (PGreco|filorosso 2023) si pone, tra le altre, anche questa domanda. Con un’indagine serrata, questo testo esplora il binomio progresso/regresso, che attraversa la modernità in tutte le sue fasi, nella molteplicità delle sue possibili declinazioni: dal miglioramento delle tecniche produttive allo sfruttamento sempre più diffuso e diversificato della forza-lavoro; dalla presunta idea di «civilizzazione» di cui l’Occidente si era fatto portavoce alla disgregazione del tessuto politico e sociale dei territori colonizzati – «dico Bibbia», afferma Bloch con acuta ironia, «e intendo cotone» –; fino al monopolio culturale che il mondo europeo si era ascritto richiamandosi a un astratto e livellante concetto di classico. L’idea di progresso viene scavata da Bloch con sguardo da detective, come se fosse indizio di un delitto compiuto e nascosto, che deve essere portato alla luce. È così che si svela come nominare «progresso» il passo di marcia delle ricerca del profitto, lo sviluppo tecnico tout court, l’imporsi dispotico della cultura occidentale non sia altro che un occultare le macerie reali nell’ornamento di una bella definizione.
Come sottolinea il saggio finale di Morfino, che è una delle appendici che chiudono questa nuova traduzione italiana, la posizione di Ernst Bloch è però singolare anche all’interno del panorama di discussione marxista di quegli anni, che in modi diversi, con la punta più alta di efficacia forse nelle cosiddette Tesi sul concetto di storia di Walter Benjamin, aveva decostruito questo abusato concetto di progresso. Il testo blochiano lavora su un duplice binario: cerca di lasciarsi alle spalle il guscio vuoto di una categoria «celebrata da coloro che non hanno più niente davanti a loro», per restituirle tuttavia nuova energia. L’originalità della posizione di Bloch, che spinge a leggere questo saggio con una nuova attenzione e forse una nuova curiosità, si situa nella consapevolezza che il vero progresso non è mai stato nella mani dei vincitori. E quindi, non bisogna cercarlo nei discorsi eurocentrici, nelle voci che allo sviluppo tecnico-produttivo associano l’inevitabile sfruttamento delle risorse naturali, nelle parole che fanno della storia il trascorso necessario dell’unico tempo presente. Invece, il progredire verso «il meglio» si trova proprio in quelle espressioni diverse, molteplici e forti che formano il Multiversum di un’idea di emancipazione che non ci accomuna come genere umano, ma che possiamo fare in modo, nella lotta, che diventi il nostro scopo comune.
L’attenzione alla multiculturalità, all’autonomia dei differenti spazi di liberazione o delle istanze ecologiche, femministe, lo sguardo verso riflessioni, tradizioni e usi che non ci appartengono, ma che abbiamo imparato a non considerare come arretrate o semplicemente folkloriche ha avuto un benefico effetto sulla nostra capacità di osservazione. C’è un rischio, però, nel considerarle diramazioni statiche e indipendenti le une dalle altre: ci si dimentica che le differenze sono anche prodotte, e che spesso sono il riflesso di disuguaglianze materiali e di antagonismi strutturali. Con la bella definizione di «multiversum centripeto», Farnesi Camellone sottolinea come l’intenzione blochiana non sia quella di immaginare una semplice coabitazione di differenze all’interno di un unico spazio, ma di ripensare il ritmo della storia e la topografia del mondo, per illuminare il progetto concreto di un ordine diverso da quello capitalistico: per mettere a fuoco la pluralità di un universale, schierato e orientato, dalla parte degli sconfitti. Il progresso allora, rovesciato rispetto al suo uso capitalistico, diventa attraverso lo sguardo blochiano un avanzare verso il meglio che si può realizzare soltanto attraverso la convergenza di tutte le energie, plurali e diversificate, che mirano all’emancipazione.
La filosofia, se sceglie di essere, marxianamente, un’interpretazione del mondo che si orienta alla sua trasformazione, assume il compito critico di procedere oltre l’apparenza e di scoprire, nella costellazione di fatti e istanze del presente, la sua logica e la sua genesi. Il concetto occidentale di progresso voleva essere una parola luminosa, carica di libertà dai vincoli tradizionali e da una natura in apparenza minacciosa. Non occorre uno sguardo che vada troppo a fondo per vedere come questa aspirazione sia stata lasciata per strada. Ma la categoria di progresso, se spogliata dalle sue vesti ideologiche, rivela la pluralità dei tempi e degli spazi che costellano il presente: resistenze e conflitti che contraddicono l’avanzamento in apparenza inarrestabile del capitale, forme letterarie e musicali che si fanno reperto e anticipazione di un’altra storia possibile, civiltà e forme comunitarie antagonistiche rispetto al modo di produzione dominante. Ripensando questo concetto, Bloch non intende spingere la teoria a costruire un grande magazzino, che accolga tutta questa pluralità; ma non vuole neanche leggere quest’ultima semplicemente come un ritmo diverso, che si sforza passivamente di porre un argine alle tendenze in apparenza più attuali. La storia, se non è un cammino stadiale che conduce per necessità al presente, non è neanche però deposito di discontinuità assolute o di resistenze isolate. Il progresso si situa laddove siamo consapevoli di cosa vogliamo portare avanti, di quale sia il nostro fine, di ciò che vogliamo recuperare e di ciò che invece non ci appartiene. La riappropriazione di una costruttiva idea di socialismo è, secondo Bloch, uno dei bisogni teorici e pratici della teoria.
Con la conquista di un concetto di tempo elastico, con la decostruzione di un’idea lineare e storicistica del passato, si scopre la poliritmia e il contrappunto che costellano il cammino storico, ma anche il basso continuo di un’idea di emancipazione che attraversa la tradizione e che non ha ancora esaurito del tutto le sue energie. Tante voci nella storia, Thomas Müntzer e le migliori forze del chiliasmo, la rivoluzione francese, e la loro complessità non rispondono alla mera cronologia, ma sono per Bloch come le dominanti di una sinfonia storica di cui non si è ancora trovata la tonica, la meta: sta a noi ricostruire questa tradizione, collezionarla e realizzare quelle istanze che di essa sono andate perdute. In questo, nel suo momento politico, la filosofia si salda alla storia.
Non è un rigettare, dunque, il concetto di progresso lasciandolo al monopolio del capitale, ridotto a indicare solo lo sviluppo delle forze produttive; né al contrario intenderlo come il passo violento di un gigante che non fa che produrre macerie. Si tratta, piuttosto, di riconquistare le nostre finalità e un «meglio» che sia finalmente non più a favore di pochi, non più schierato falsamente con i vincitori. In questo saggio, Bloch indaga i modi concreti in cui questo progetto possa essere realizzato, cercando di disegnare una topografia dei luoghi possibili in cui un rinnovato concetto di progresso possa trovare il suo spazio. Nel suggerire le direzioni in cui ripensare i rapporti tra i soggetti umani e con il mondo extra-occidentale, con l’arte e con la natura, questo testo spinge a considerare il «progredire» non come qualcosa di già dato, ma come un compito sociale, un impegno da perseguire nella convergenza delle lotte. Perché d’altronde, come viene ricordato alla fine del saggio, la categoria occidentale di progresso non implicava affatto un vertice europeo nelle sue rivoluzioni, ma la costruzione di una terra migliore.
Forse, la spinta aurorale, che Bloch vedeva oggettivamente profilarsi nelle rivendicazioni del suo tempo, oggi può apparirci lontana. Ma rileggere ora questo testo significa anche chiedersi se essa ci sia ancora e dove si insedi. Del resto, Bloch non diceva affatto che non siamo davvero dei pesci che galleggiano in una tinozza, ma piuttosto che possiamo scegliere di non esserlo: nella confluenza di centinaia culture diverse e nel lavoro vivo delle nostre lotte, possiamo orientarci alla realizzazione di qualcosa di unitario, ma non di univoco. La liberazione universale dal modo di produzione capitalistico, che tradisce le sue aspirazioni al progresso, ma soprattutto le nostre, è qualcosa che riguarda, urgentemente, tutte e tutti noi.
*Chiara De Cosmo si è laureata presso l’Università di Pisa ed è attualmente dottoranda in Filosofia alla Scuola di Alti Studi, Fondazione Collegio San Carlo di Modena.
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