
Il liberismo autoritario
La Lega di Salvini, come altre forze in giro per il mondo, ha riunito un nuovo blocco di destra, capace di rispolverare le politiche liberiste in crisi attraverso l'identificazione di un nemico «esterno»
L’ascesa vertiginosa della Lega di Salvini si presta a due letture opposte. La prima sottolinea la novità assoluta, nella storia repubblicana italiana, del consenso di massa a un partito a forte profilo nazionalista, identitario e xenofobo. La seconda invece invita a considerare che le recenti elezioni europee hanno semplicemente riportato la destra (nella quale, oltre alla Lega, vanno conteggiati Fratelli d’Italia e Forza Italia) ai suoi livelli tradizionali, vale a dire a circa il 50% dei consensi, come quasi sempre tra gli anni Novanta e gli anni Zero del duemila.
Le due letture colgono una parte di verità. L’azione di Salvini ha permesso, perlomeno temporaneamente, di ricomporre il blocco sociale della destra che non aveva resistito agli effetti della crisi finanziaria ed economica scoppiata nel 2007; un cedimento reso palese qualche anno più tardi dalle dimissioni di Berlusconi dalla presidenza del consiglio. Tuttavia, il profilo dell’alleanza sociale è in parte diverso da quello del passato. Se la media borghesia e il mondo delle piccole e medie imprese restano centrali, l’appoggio proveniente dalla grande industria, per la verità mai allineata alla destra berlusconiana, è oggi davvero debole e distante, mentre il consenso s’è allargato tra le classi popolari.
Il blocco borghese, risposta difensiva alla crisi sociale
Per analizzare la strategia di Salvini, e valutarne la sostenibilità, bisogna tornare brevemente proprio alle conseguenze politiche della crisi che ha portato, in poco più di un decennio, a un crollo della produzione industriale, e al diffondersi di precarietà e povertà: dinamiche che hanno destabilizzato le vecchie alleanze sociali, quella di destra e quella di centrosinistra.
In contrasto allo scontento crescente dei ceti popolari, una parte importante delle classi dirigenti ha puntato alla formazione di un blocco borghese per riunire le classi medio-alte, tradizionalmente divise tra gli schieramenti di destra e sinistra. Sotto l’impulso del Partito democratico, divenuto perno di un’alleanza che ha sostenuto i governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni con il sostanziale appoggio di Forza italia, grande e media impresa, professioni liberali, quadri dirigenti del settore pubblico e privato, ceti intellettuali, hanno sostenuto una linea politica presentata come necessaria ad assicurare la partecipazione dell’Italia al processo di costruzione europea, e che si è tradotta in austerità di bilancio, riduzione del perimetro della protezione sociale e abbassamento del costo del lavoro, sia attraverso la riduzione del cuneo fiscale che direttamente per compressione dei salari (cui puntava, ad esempio, il Jobs Act).
Questo progetto politico – del tutto analogo a quello che guida oggi l’azione di Macron in Francia – ha mostrato i suoi limiti in maniera sempre più evidente, fino a condurre alla disfatta del Pd nel 2018 e all’esclusione di Renzi dal gruppo dirigente del partito. Anche se inevitabilmente minoritario per via del profilo di classe che lo caratterizza, in una situazione di forte frammentazione politica il blocco borghese avrebbe potuto imporsi per un periodo più lungo se fosse riuscito ad allargarsi verso i ceti medi. Le politiche che ne hanno permesso la formazione erano però destinate a produrre l’effetto contrario: spingendo una frazione crescente delle classi medie verso la precarietà e le difficoltà finanziarie, il blocco borghese ha condannato sé stesso.
Questa debolezza ha aperto lo spazio per iniziative politiche innovative. Nella stessa direzione ha agito la crisi profonda della sinistra, declinabile in più aspetti che riflettono tutti una pesantissima sconfitta in termini di capacità egemonica. In questo senso vanno lette ad esempio le accuse di tradimento, e le collegate speranze di redenzione, rivolte al Pd, segno dell’incapacità di cogliere la dimensione strategica della sua svolta verso il blocco borghese, come anche l’adesione incondizionata all’ideale europeista, che ha ritardato un’analisi critica del funzionamento concreto dell’Unione europea e della moneta unica.
I Cinque stelle, o l’illusoria unità politica delle classi popolari
Il panorama prodotto dalla crisi del 2007, e dalle risposte della politica negli anni seguenti, configurava dunque una situazione di crisi acuta della rappresentanza. La convergenza di Pd e Forza Italia verso il blocco borghese ha lasciato senza protezione l’insieme delle classi popolari, quelle storicamente legate alla sinistra, collegate al mondo del lavoro dipendente, e quelle, come commercianti o artigiani, che avevano fino a quel punto cercato a destra una risposta alle loro attese. Ma come detto, la crisi di rappresentanza si è allargata alle classi medie, progressivamente minacciate dalla prospettiva di una regressione sociale. Nel passaggio che va da Monti a Gentiloni, il blocco di sostegno ai partiti di governo si è connotato come un fortino assediato in cui erano rinchiuse solo le classi benestanti dei centri cittadini; mentre il resto della società italiana chiedeva con urgenza una risposta alle proprie attese.
La forte crescita di M5S prima, quella della Lega poi, sono radicate in quel malcontento, e risultano da due tentativi, diversi e contraddittori, di definire un’alleanza sociale alternativa al blocco borghese. In estrema sintesi, il progetto del M5S ha risposto, almeno negli anni precedenti la sua alleanza con Salvini, all’ambizione di unire l’insieme delle classi popolari: strategia esattamente speculare a quella del blocco borghese, poiché anch’essa fondata sul superamento dell’asse destra/sinistra. I limiti della strategia Cinque stelle sono apparsi presto evidenti, e hanno causato una rapida erosione del consenso elettorale. Il rifiuto di una larga fascia delle classi più deboli di riconoscersi nelle etichette destra e sinistra è reale, ma si spiega semplicemente con la crisi dei due vecchi blocchi politici. Valori e attese dei ceti popolari restano invece assai diversi e contraddittori, in particolare (ma non solo) su temi decisivi come quelli legati al rapporto salariale. Autonomi, commercianti, artigiani, piccolissimi imprenditori, hanno su protezione dai licenziamenti abusivi, livelli della contrattazione e struttura dei contratti, interessi difficilmente conciliabili con quelli dei lavoratori dipendenti. Un’altra evidente contraddizione oppone, sulla scelta tra trasferimenti sociali o riduzione delle imposte, le classi più povere, spesso disoccupate o precarizzate, presenti per gran parte nel meridione del paese, a quelle che hanno un’attività stabile ma redditi bassi. Al momento di tradurre in azione concreta la loro proposta politica, i Cinque stelle si sono dovuti così rifugiare in compromessi al ribasso: il jobs act non è abolito, ma qualche timida misura contro la precarietà è stata presa; il reddito di cittadinanza, che inizialmente si voleva incondizionato e universale, è stato sottoposto a condizioni draconiane, e il M5S si felicita del fatto che costi meno del previsto (che non abbia cioè suscitato entusiastiche adesioni); la politica di chiusura all’immigrazione di Salvini viene appoggiata, ma con una faccia meno feroce. L’elenco potrebbe allungarsi all’insieme delle politiche di governo, segno della difficoltà di dare una risposta forte e coerente alle domande che provengono da una base sociale che riunisce, o riuniva, l’insieme delle categorie popolari.
La Lega e la rifondazione del blocco di destra
Per come si era configurata nel decennio che va dalla formazione del movimento, nel 2009, alle elezioni del 2018, la strategia Cinque stelle appare dunque minata da troppe contraddizioni interne, e si è mostrata in grande difficoltà nel passaggio da discorso d’opposizione a pratica di governo. Diversa e più solida è invece la strategia della Lega di Salvini, anche se l’obiettivo di rifondare il blocco di destra incontra a sua volta ostacoli importanti. Gli elementi di continuità con l’epoca berlusconiana sono evidenti, e la Lega è sempre stata parte integrante di quello schieramento. Al di là dei dettagli folcloristici come la firma televisiva di pseudo-contratti con gli italiani, o di slogan elettorali del tipo meno tasse per tutti, il tratto comune alla storia della destra italiana degli ultimi 25 anni è la fede incondizionata negli effetti benefici che dovrebbero scaturire dall’abbassamento della pressione fiscale, dalla riduzione del perimetro dei servizi pubblici, e dalla massima flessibilità dei rapporti di lavoro.
I promotori di questa ideologia sono oggi schierati con Salvini: gli annunci elettoralistici di una rottura con le politiche economiche degli anni precedenti erano e sono destinati a restare tali. Un esempio si è già avuto con la legge Fornero: l’impegno ad abrogarla al più presto, s’è tradotto nella sola possibilità di un’uscita anticipata dal mercato del lavoro con un taglio dell’assegno. L’ipotesi di una svolta keynesiana, che dovrebbe venire dalla riduzione delle imposte su imprese e classi medie, con un bilancio che resta in avanzo primario e gli investimenti pubblici del tutto fermi, fa semplicemente sorridere. In realtà, tutta la strategia leghista è imperniata sul tentativo di prolungare le politiche del passato; ma su questa rotta, la crisi del 2007 rappresenta uno scoglio non indifferente, contro il quale si è del resto schiantata la traiettoria politica di Berlusconi. Quella crisi, e le sue conseguenze nefaste sulle classi medie e popolari, sono il prodotto diretto delle riforme neoliberiste. Continuare sullo stesso cammino aggregando le classi privilegiate in una nuova alleanza sociale, il blocco borghese, come hanno cercato di fare Partito democratico e Forza Italia, corrisponde in questo contesto a una logica evidente. Molto più complessa è invece l’operazione politica di Salvini: ricompattare l’alleanza di destra nel sostegno a politiche liberiste presuppone la possibilità di suscitare l’adesione di classi che da quelle politiche sono state fortemente penalizzate negli ultimi dieci anni. Un elemento decisivo gioca però a vantaggio del leader della Lega: il dominio dell’egemonia liberista è stato talmente forte negli ultimi decenni, da potersi rinnovare anche in presenza di una crisi delle politiche liberiste. Il passaggio da Berlusconi, miliardario che si dava in esempio di un arricchimento a portata di mano di chiunque, a Salvini, che si presenta con i tratti dell’uomo qualunque in felpa alla sagra della polpetta, corrisponde a uno sviluppo, o piuttosto all’involuzione, della promessa liberista. L’ideologia del libero mercato sopravvive a sé stessa trasformando il ci credo e funzionerà dell’elettorato berlusconiano, nel non funziona ma ci credo ancora della nuova base leghista. In questo passaggio, l’identificazione di un nemico esterno ha un ruolo decisivo. Il nemico può assumere le forme più diverse e cangianti, come si è visto nella rapida mutazione da una campagna elettorale, nel 2017, condotta sul tema dell’uscita dall’euro, a una comunicazione di governo interamente centrata sulla lotta contro le Ong. La moneta unica, l’Unione europea, la finanza cosmopolita, la minaccia islamica, l’invasione migratoria: soffermarsi sui fondamenti razionali, a volte del resto inesistenti, delle guerre dichiarate (e combattute sul serio solo contro i soggetti più deboli) da Salvini, porterebbe fuori strada. Perché quel che conta, dal punto di vista della Lega, è poter additare in un nemico esterno – poco importa quale – la causa della mancata realizzazione delle promesse liberiste. Si pensi ad esempio a come per spiegare la compressione dei salari, il capo leghista parli spesso e volentieri della concorrenza sleale della manodopera immigrata, e in nessuna occasione delle riforme del mercato del lavoro che hanno caratterizzato la storia italiana degli ultimi 35 anni.
Nazionalismo autoritario e blocco borghese europeista, due varianti del neoliberismo
La figura imprescindibile, nella strategia leghista, del nemico estero, ha a sua volta delle conseguenze importanti sul profilo della nuova destra, che la differenziano in parte da quella berlusconiana. Perché la presenza di un nemico potente e minaccioso, richiede in risposta uno stato (che si presenti come) forte e pronto a combatterlo. La destra di Salvini non si puó contentare del semplice meno stato più mercato, e propone un modello di liberismo identitario e autoritario, che peraltro si va affermando in diversi paesi europei proprio in reazione allo scontento sociale prodotto dalle politiche liberiste.
Tornando al paragone con la Francia, è significativo come il partito di Marine Le Pen sia ormai su posizioni del tutto analoghe a quelle della Lega: dopo aver rinunciato a ogni ambizione sociale, e accantonata la prospettiva dell’uscita dall’euro, il Rassemblement national punta ad affermare la propria capacità direttiva su un blocco di destra rifondato nel nome dell’autorità, dell’identità nazionale e della continuità con le politiche liberiste. In Francia, destra (ex) repubblicana e destra estrema convergono rapidamente verso un’alleanza, in Italia il blocco di destra si ricompone, ma il comando è ormai di Salvini: in entrambi i paesi, lo spazio politico si struttura nella polarità tra nazionalismo autoritario e blocco borghese, cioè tra due varianti del neoliberismo. In questa prospettiva, il problema della sofferenza generata dal sacrificio degli interessi più deboli è destinato a porsi in maniera sempre più acuta: e già si deve notare come la repressione violenta della contestazione sociale caratterizzi sia il governo di Macron che, sul fronte opposto, quello di Salvini. Il neoliberismo cammina su due gambe, ma provoca comunque una crescita delle diseguaglianze e condanna all’impoverimento una parte importante della popolazione, lasciata senza protezione alcuna. Tuttavia, in un panorama ridotto a queste sole opzioni, il rischio di vedere le classi popolari aggregarsi al blocco di destra è concreto: perché, mentre il blocco borghese resta impantanato nella retorica della responsabilità individuale, e quindi nella sostanziale colpevolizzazione di poveri, disoccupati e precari, la guerra dichiarata ai fantomatici nemici esterni da Salvini (e Le Pen) corrisponde se non altro al riconoscimento della natura sociale dei problemi vissuti dai ceti deboli. Il blocco della nuova destra italiana, costruito attorno alla borghesia settentrionale e al mondo delle piccole e medie imprese, s’è dunque allargato a una frazione importante delle classi popolari, lasciate senza rappresentanza dalla crisi profondissima della sinistra, e più di recente dall’impasse strategico del M5S. Nell’articolazione interna del blocco, le classi popolari sono però destinate a restare confinate in posizione marginale: le politiche pubbliche che definiscono la nuova alleanza sociale, come flat tax, autonomia regionale, pace fiscale, non sono per nulla orientate alla difesa dei loro interessi.
Queste considerazioni permettono di caratterizzare anche la strategia europea di Salvini. La borghesia produttiva delle Pmi è concentrata in regioni perfettamente integrate, dal punto di vista economico, con l’area della Mitteleuropa. Spaventata dal rischio di ritorsioni commerciali che pagherebbe a caro prezzo, essa è totalmente ostile a ogni ipotesi di rottura con l’Ue. Alla Lega è capitato di sbraitare contro la commissione europea, la Bce o la moneta unica, ma non ci si deve attendere che alle parole seguano fatti di un qualche peso. Appena arrivato al governo, Salvini ha cambiato idea sull’euro; nel mese di dicembre 2018 s’è rapidamente adeguato alla revisione di bilancio richiesta dalla commissione, e la stessa cosa è successa nello scorso mese di giugno. Non si tratta di mancanza di coraggio, ma di una scelta strategica coerente con il profilo del nuovo blocco sociale. Nell’interesse dei gruppi di riferimento fondamentali della Lega, l’Ue deve restare un grande mercato unico, come pure deve continuare ad agire in direzione dello smantellamento della protezione sociale, della riduzione dei costi di produzione e della flessibilità dei rapporti di lavoro. La differenza fondamentale con la visione europea del blocco borghese, è sulla dimensione politica dell’integrazione: la nuova destra si costruisce sull’idea di un’identità minacciata, e sulla conseguente necessità di uno stato forte, ed ha dunque un bisogno assoluto di frontiere nazionali da difendere.
La prospettiva della Lega è dunque quella di una ulteriore riduzione della fiscalità per imprese e classi medie, principalmente la flat-tax, finanziata in deficit solo nella misura, senza dubbio debole, che la Commissione europea vorrà concedere, e per il resto con tagli alla spesa sociale. Una politica del tutto contrastante con le attese della base sociale dei Cinque stelle, ma a questo punto chiedersi se il movimento di Di Maio sarà disposto a suicidarsi nel sostegno alla strategia leghista è quasi superfluo. Nell’ipotesi di una crisi di governo e di elezioni anticipate, la rinnovata coalizione delle destre otterrebbe senza dubbio la maggioranza; e la Lega continuerebbe comunque per la propria strada. Lungo la quale, però, le sarà sempre più difficile rinnovare l’appoggio delle classi popolari che guardano oggi a Salvini con simpatia.
La questione che resta aperta, è legata alla possibilità di un progetto politico a vocazione maggioritaria, del quale purtroppo oggi è difficile identificare qualche traccia significativa, che si proponga come alternativo sia al blocco borghese che all’autoritarismo identitario, e in assenza del quale le classi popolari rischiano di rifugiarsi nell’astensione, permettendo il consolidamento delle riforme neoliberiste nel quadro di una crisi politica e sociale ancora irrisolta.
*Stefano Palombarini è economista all’università Paris 8. È coautore co-autore con Bruno Amable di L’illusion du bloc bourgeois (Raison d’agir).
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