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Europa e Italia al bivio
Le elezioni europee hanno segnalato la crisi dello stato, nei contesti nazionali e nell’assetto europeo, che si traduce nell’incapacità di produrre stabilità. Per la destra questa crisi devono pagarla le classi subalterne
Un nodo di problemi emerge nella lettura del voto delle recenti elezioni europee. Due sono le grandi questioni da affrontare: la prima si pone nel rapporto tra politica e società e la seconda è quella tra livelli istituzionali e rapporti sociali di produzione. Da un lato i nessi che collegano i soggetti politici con la società, quindi il livello di autonomia o interdipendenza tra le forme di organizzazione della società e l’iniziativa politica; dall’altro il rapporto tra lo Stato e le classi sociali, tra la struttura istituzionale e lo sviluppo dei rapporti di forza nella società. In opera vediamo quindi il livello soggettivo che si muove nel breve periodo sulla spinta dell’iniziativa politica e il livello oggettivo delle strutture, che ha una sua durata e resistenza.
Due ordini di problemi, distinti, ma che si incontrano, anzi si scontrano, determinando gli equilibri di potere, il loro sviluppo e la loro crisi.
La politica come contingenza nella crisi della società
La dominanza del politico sul sociale mi pare un tratto evidente che si dà con forza nella manovra politica sulla crisi economica del biennio 2007/2008. Qui c’è una grande questione, spesso dimenticata. La crisi finanziaria è un evento che ha una sua durata limitata nel tempo. C’è stata la crisi, ma non l’autonomia della crisi. C’è stato invece un governo politico della crisi, una manovra delle élite nazionali e sovranazionali che ha imposto una profonda ristrutturazione dei rapporti di potere tra le classi sociali. Da un lato una riorganizzazione delle relazioni industriali, termine tecnico che maschera il rapporto tra le classi sociali e allude al campo di gioco in cui si muovono forze contrapposte. Qui il bersaglio è stato il contratto collettivo e la sua funzione anti-ciclica e solidale. Uno strumento di protezione salariale universalistica della classe lavoratrice, che è stato depotenziato rendendo inoffensivo il gioco della controparte a colpi di decentramento produttivo e di liberalizzazione dei rapporti di lavoro. Dall’altro, un’ipoteca sulla spesa sociale, congelata scientificamente per dissolvere le ultime difese collettive, sciogliendo il legame politico della classe lavoratrice in piccoli frammenti, isolati e competitivi. La flessibilità come obiettivo politico. Flessibile è qualcosa che può essere plasmato in tanti modi, a seconda delle esigenze. In questa manovra, il sociale è il terreno della crisi, il luogo reso flessibile e quindi plasmabile, in cui la politica può comandare, articolando e disgregando gli equilibri di consenso nella società.
Questa azione di continua modellazione del sociale, di piena fagocitazione della società nella politica emerge nel voto alle elezioni europee. Un voto che segna una continuità nella discontinuità. Perché se da un lato le forze di governo o vengono riconfermate come nel caso dell’Italia e della Spagna o conservano una posizione centrale nel sistema politico nazionale come nel caso tedesco e francese (la sconfitta di Macron ai danni delle forze lepeniste è di gran lunga inferiore alle attese ); dall’altro nell’assetto europeo finiscono per venire al pettine i limiti strutturali dell’assetto istituzionale e il suo rapporto con la dinamica del capitalismo. Qui si pone con forza la dialettica tra stabilità e instabilità. Un tema che richiede uno svolgimento.
Mai come in queste elezioni europee, dicevamo, chi governa tende a vincere o a essere riconfermato. Eccezioni alla regola ci sono, ma sono tali perché si muovono ai margini del territorio europeo, inteso ovviamente come spazio politico: Regno Unito e Grecia. I due esempi cattivi da disciplinare, quelli che offendono la credibilità del progetto europeo con un referendum per uscire dall’Unione europea e gli altri che vengono continuamente rimandati a settembre, tenuti sotto stretta sorveglianza, simbolo di cosa non si può fare e non si deve nemmeno pensare di fare. Quello che sembra un terremoto non è altro che una scossa di aggiustamento. Il parlamento europeo vede crescere le forze populiste, euroscettiche, anti-europeiste almeno a parole, ma la maggioranza, il potere, è ancora nelle mani dei nuovi interpreti del dogma neo-liberale. Da qui non si scappa.
Livello ideologico e livello politico hanno una loro autonomia nel breve periodo, sono strutture che hanno regole proprie. La crisi di consenso dell’ideologia neo-liberale non produce automaticamente una crisi politica, come qualcuno frettolosamente è portato a credere, se non è accompagnata da un’iniziativa di segno opposto che metta in discussione l’egemonia di un blocco sociale. La cosa che non si vede, ma c’è, è una capacità del politico di manovrare questa crisi, che è crisi della società e nella società (nelle strutture che la regolano), ma non è crisi della politica, non è crisi dell’iniziativa politica nella sua capacità di controllo della contingenza.
Da Bruxelles a Parigi, da Roma a Berlino, le forze di governo riescono nel breve periodo a organizzare quel blocco sociale contraddittorio che ne ha permesso l’ascesa. Frazioni di grande e piccolo capitale, grande finanza che cerca e ha bisogno di spazio, e piccole e resistenti strutture pre-capitalistiche, quel vasto e frastagliato mondo di ceti medi che chiedono confini, protezione, stabilità della domanda e dei profitti. Un blocco sociale contraddittorio, ma privo di un’organizzazione autonoma, incapace di pesare autonomamente nell’arena politica. Su questo occorre insistere e smetterla con quella analisi della sinistra storica che vede società e politica come due vasi comunicanti, sempre e comunque, come due campi che si incontrano, due rette perpendicolari. Per cui ogni ceto sociale ha una sua ideologia e una sua organizzazione politica. C’è un’autonomia dei livelli, oggi più che mai, che si muovono su binari paralleli e c’è uno sviluppo ineguale tra rapporti sociali di produzione e forze politiche, specie quando entrano in crisi le forme di integrazione sociale, come oggi.
Crisi della rappresentanza, si dice spesso, ma crisi della rappresentanza significa crisi della mediazione sociale, ovvero difficoltà dei corpi sociali a farsi corpo politico, a prendere parte alle decisioni. Qui c’è la crisi delle organizzazioni sociali e la crisi dei partiti come strumenti di organizzazione della società, come canali di trasmissione della società nelle istituzioni. Solo se si esce da questa ideologia del livello unico, dei vasi comunicanti si può cogliere la fase odierna. Perché solo al di fuori di questa ideologia si può cogliere la grande manovra di stabilizzazione del consenso e i limiti collegati ad essa.
Salvini e Macron promettono taglio di tasse, investimenti, libertà di licenziamento e agevolazioni fiscali. Al momento ci sono riusciti, perché in fondo questa linea non è invisa a Bruxelles. Perché a Bruxelles interessa che quel blocco sociale continui a gestire la transizione, perché la loro politica si coglie solo e soltanto nella transizione. L’Europa ha dato l’esempio. Cosa è stato altrimenti il quantitative easing della Bce – che oggi ritorna in auge – se non appunto capacità di governare la contingenza, allungando l’agonia di economie nazionali stremate dalla caduta della domanda interna come un paziente collegato al respiratore.
La politica come progetto: quale stabilizzazione e per chi
Noi sappiamo, però, che politica non è soltanto controllo della contingenza, la politica è anche progetto e capacità di guidare un processo di riforma sociale. La politica è coordinamento tra i livelli istituzionali e le trasformazioni molecolari che alterano gli equilibri precedenti. Insomma, c’è un breve periodo, ma c’è anche un medio e lungo periodo. Nel breve c’è la capacità del ceto politico di agire sulla contingenza, di manovrare le leve ideologiche per occultare i rapporti sociali (cosa fa la Lega se non identificare un livello unico di interessi tra impresa e lavoro con un surplus di ideologia?), ma nel medio periodo la politica è capacità di incidere sullo Stato, sul rapporto tra i livelli istituzionali e le classi sociali.
Qui c’è un punto dirimente che andrebbe approfondito. Perché le elezioni europee segnalano semmai una crisi dello stato, dello stato liberaldemocratico, che riguarda sia i contesti nazionali, sia ovviamente l’assetto europeo. Crisi dello stato significa incapacità dei suoi apparati ideologici e dei suoi strumenti economici (la leva fiscale, la politica industriale) di collegare la società alle istituzioni, di produrre consenso, stabilità. Le crepe che si sono aperte nel blocco sociale dei partiti tradizionali, popolari e socialisti, riflettono uno scollamento tra le aspettative di reddito e stabilità e la materialità delle condizioni economiche.
È una crisi che attraversa il sistema-mondo, che ha a che fare con gli equilibri geo-politici, con la crisi dell’egemonia statunitense, da cui non si vede una nuova stabilizzazione. Si è manifestata nel 2008 e non si è ancora chiusa. Non si è chiusa perché si è trattato di una crisi organica di una certa forma di capitalismo, a cui è mancata una risposta altrettanto organica. La risposta di breve periodo a questo blocco di questioni evidentemente non paga, lasciando inalterate le strutture di funzionamento della società.
Qui la discussione è aperta. Si è trattato di una crisi di sotto-consumo o una crisi da caduta tendenziale del saggio di profitto? Certamente si è trattato di una crisi sistemica, la finanza ha giocato una partita autonoma, è entrata in maniera decisa sui meccanismi di controllo della domanda, creandola in maniera fittizia, mentre erodeva la domanda reale, i salari, il welfare, la stabilità del risparmio. Questa crisi ha eroso potere d’acquisto e stabilità a una parte del ceto medio, prevalentemente lavoro dipendente e strati di lavoro autonomo. Segmenti di classe operaia che avevano raggiunto livelli di benessere e stabilità nel decennio precedente e che oggi pagano il blocco dei salari e la stretta al welfare, e una fascia di lavoro pubblico alle prese con un lungo processo di precarizzazione. Insegnanti, precari della ricerca, educatori sociali, vittime del blocco alla spesa pubblica. Alla proletarizzazione di questi strati di ceto medio, si aggiunge l’allargamento del lavoro povero nelle periferie del capitalismo dei servizi. Logistica, grande distribuzione, ristorazione, alloggi, settori in cui si è concentrato un proletariato ai margini del contratto sociale, escluso dalle forme tradizionali della rappresentanza. Settori gonfiati da decenni per liberare lo sviluppo dei profitti dalla zavorra del conflitto sociale. Non è un caso che la crescita occupazionale si concentri proprio in questi comparti, caratterizzati da basso valore aggiunto, in cui la compressione salariale prende il posto dell’investimento produttivo. E non è un caso che proprio in questi settori le cose non tornano e le mobilitazioni della classe lavoratrice sono frequenti e la conflittualità resta alta. Ad andare in crisi è un certo disegno politico che mentre investiva sui consumi privati disinvestiva nei consumi collettivi – casa, sanità, istruzione – consentendo la stabilizzazione di una vasta area di piccoli e medi rentiers garantiti dalla macchina pubblica. Un’area in cui risparmio e rendita sono due facce della stessa medaglia, due polmoni che si autoalimentano.
Si tratta, come è normale, di un campo contraddittorio di interessi sociali, che non possono uscire allo stesso modo dalla crisi. O si protegge la piccola impresa con manovre ad hoc per allungare l’agonia e così si ferma lo sviluppo industriale del paese, o si protegge il lavoro intervenendo sui salari, sull’universalità del welfare, innescando un processo di riforma. O l’uno o l’altro, non c’è scampo. Chi dice di fare entrambe le cose, mente. Non è più possibile. O si investe sulla crescita dei salari e per questa via si stimola l’innovazione delle imprese, favorendo un processo di ricomposizione industriale su basi solide; o si sceglie di garantire quelle realtà imprenditoriali che sono incapaci di reggere l’urto dei grandi attori dell’economia globalizzata, se non in una posizione subalterna. O si sceglie di mettere in moto un meccanismo virtuoso capace di ridisegnare in forma moderna il ruolo dell’Italia nel mondo; o si sceglie la via della stabilizzazione e del blocco dello sviluppo. Considerazioni analoghe riguardano la riforma dello stato sociale: o si superano le strozzature di un sistema che regala incentivi, detassazioni, bonus come forma di protezione a una fetta di ceto medio autonomo; o si avvia una riforma in senso universalistico, liberando risorse per la scuola, l’università, la ricerca pubblica, la parità tra uomo e donna nel lavoro e nella società.
Delle due l’una. Siamo a un bivio storico, in cui si giocano le sorti dell’Italia e dell’Europa, i nodi sono ormai al pettine. La destra conservatrice e liberista, due termini niente affatto in contraddizione come qualcuno vuol far credere, sembra più pronta della sinistra, ha deciso in Italia e in Europa che la stabilizzazione politica passa per un prezzo economico che dovranno pagare le classi subalterne, un’altra volta. Dall’altra parte l’iniziativa politica langue, ci si limita a una critica lasca del potere, ma si evita di metterlo in crisi. Anziché stringere con una proposta che ridia forma politica a una società polverizzata, si evoca un astratto allargamento di campo, un ulivismo 2.0, un fronte repubblicano. Vecchie retoriche prive di sbocchi, incapaci di disegnare linee organizzative e di intervento, di indicare neppure genericamente il che fare per l’Italia e per l’Europa. Siamo a questo punto, meglio saperlo.
*Simone Fana, si occupa di servizi per il lavoro e per la formazione professionale. Autore di Tempo Rubato (Imprimatur). Scrive di mercato del lavoro e relazioni industriali.
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