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Il mestiere dell’auto. Un’inchiesta sul lavoro in Fca

Marco Marrone Stefano Valerio 28 Febbraio 2019

Un'indagine con ottomila questionari ai lavoratori degli stabilimenti ex Fiat, mostra i meccanismi con cui il sistema di produzione introdotto da Marchionne ha intensificato i ritmi di lavoro e marginalizzato il ruolo del sindacato

La scomparsa di Sergio Marchionne nel luglio dello scorso anno ha provocato una girandola di commenti e analisi sull’operato dell’amministratore delegato italo-canadese. Si è molto discusso di raggiungimento del pareggio di bilancio, salvataggio della vecchia Fiat, risanamento finanziario del gruppo industriale. In molti casi si è fatto riferimento all’adozione del sistema di organizzazione della produzione chiamato World Class Manufacturing (Wcm) come scelta strategica decisiva nel garantire la ripresa di mercato per Fca. Così, mentre lo scontro tra la Fiom e l’applicazione del contratto collettivo specifico di primo livello (Ccsl) raggiungeva il suo apice, si manifestavano anche importanti trasformazioni organizzative all’interno degli stabilimenti del gruppo. Proprio per questo motivo la Fiom ha lanciato nel 2017 una ricerca-inchiesta volta a indagare le condizioni di lavoro nelle fabbriche italiane Fca e Cnh. Vi hanno preso parte le Fondazioni Di Vittorio e Sabattini, prendendo in considerazione il punto di vista dei lavoratori e delle lavoratrici nei confronti del sistema organizzativo adottato dall’azienda con l’avvento dell’era Marchionne e noto come Wcm.

Cos’è il Wcm?

Il World Class Manufacturing è un sistema di organizzazione della produzione che, muovendo i passi dalla lean production (produzione snella) con cui la Toyota ha rivoluzionato i sistemi produttivi globali, è oggi adottato dai maggiori gruppi industriali. Affermatosi con l’esplosione della produzione globale e raffinato nelle sue logiche di funzionamento dalle più recenti teorie manageriali, la promessa del Wcm non è soltanto quella di efficientare la produzione riducendo i costi e gli sprechi, ma anche di garantire la sicurezza dei lavoratori nonché il loro coinvolgimento nella gestione del processo produttivo. Per questo motivo, il Wcm si basa su 10 principi o pilastri di natura manageriale e 10 di natura tecnica, tra cui il controllo qualità, il miglioramento continuo, la sicurezza del posto di lavoro e persino il rispetto dell’ambiente, misurati attraverso indicatori numerici che vengono valutati da enti esterni il cui compito è quello di certificare il raggiungimento degli standard previsti. È così che gli stabilimenti finiscono per essere classificati in un medagliere che vede corrispondere al pregio del metallo il diverso livello di implementazione degli standard.

Eppure, numerose ricerche mostrano come nella sua articolazione pratica la standardizzazione del Wcm manca della capacità concreta di fotografare le reali condizioni di sicurezza e di efficienza degli stabilimenti. Una distanza, quella nei confronti della sua realizzazione, che non va però limitata a semplici errori di implementazione. Piuttosto, è un prodotto delle asimmetrie di potere che caratterizzano la produzione industriale e che, sebbene negate dalla dimensione retorica del Wcm, riemergono tra gli interstizi della quotidianità della produzione. In questa prospettiva, il Wcm presenta linee di continuità non solo rispetto ai principi della lean production, ma anche nei confronti delle logiche manageriali, volte a spersonalizzare l’autorità della produzione e a neutralizzare le tensioni organizzative all’interno della natura “tecnica” ed “oggettiva” della sua retorica. Lontano dall’essere una standardizzazione in grado di coniugare l’interesse dell’impresa a una produzione sempre maggiore e quello dei lavoratori a svolgere attività in sicurezza, i dati che emergono dalla ricerca ci impongono di pensare il Wcm come un vero e proprio sistema di governo della forza lavoro.

Il ruolo dei team leader

Il ridisegno della gerarchia produttiva è al centro dell’implementazione del Wcm in Fca. Perno di questa riorganizzazione è la figura del team leader che, nonostante sia inquadrato contrattualmente come operatore, rappresenta lo snodo del rapporto tra il management e la produzione. Tuttavia, è una posizione ben poco ambita dai lavoratori, perché è proprio sul team leader che grava larga parte della pressione per il raggiungimento degli obiettivi del Wcm. Essi, infatti, non solo svolgono la funzione di direzione dell’unità produttiva, ma anche una molteplicità di funzioni, dalla rilevazione degli indicatori numerici alla gestione delle richieste dei lavoratori. Elencarle tutte sarebbe impossibile, anche perchè dalle interviste emerge come questa sia una figura dal profilo ambiguo che varia non solo a seconda dello stabilimento e del tipo di prodotto, ma persino a seconda delle esigenze che la produzione presenta al momento. La postura del team leader è dunque di natura elastica, capace di interpretare allo stesso momento tanto il profilo dell’operatore, quanto quello del middle management.

La centralità del team leader nel contesto del Wcm non è però legata soltanto alle esigenze produttive. Più che una semplice cinghia di trasmissione esso appare come il “filtro” di una relazione, quella tra i lavoratori e l’azienda, concepita unicamente su base individuale. Compito del team leader è infatti anche quello di gestire le richieste dei lavoratori, di organizzare meeting periodici, di affrontare i problemi legati alla produzione e alla sicurezza. L’obiettivo vero è espellere i sindacati dalla gestione del processo produttivo, relegandoli a meri spettatori delle relazioni industriali e facendo venire meno la possibilità per i lavoratori di rivendicare collettivamente miglioramenti sul luogo di lavoro. In questa prospettiva, il team leader completa la svolta anti-sindacale impressa da Marchionne in Fca, che viene minata da un sistema organizzativo orientato alla neutralizzazione delle tensioni attivate dal processo produttivo.

L’intensificazione del lavoro e le sue conseguenze

L’analisi statistica dei questionari somministrati nei vari stabilimenti ha messo in luce un giudizio estremamente severo da parte dei lavoratori partecipanti all’indagine rispetto al tema delle condizioni di lavoro determinate dal Wcm. Il 60% degli intervistati, infatti, ha risposto che le condizioni di lavoro sono peggiorate, dato che sale al 65% se si considerano i soli addetti linea e che arriva all’80% in alcuni stabilimenti. Quando poi è stato chiesto di individuare i fattori peggiorativi della condizione di lavoro, è emersa una forte correlazione con l’aumento dei carichi e dei ritmi di lavoro.

Con l’entrata in vigore del Ccsl, non solo si è verificata la famosa riduzione delle pause da 40 a 30 minuti per turno, ma è divenuto operativo anche il cosiddetto sistema Ergo-Uas. Si tratta di uno strumento di misurazione e calcolo dei tempi previsti per l’esecuzione delle singole mansioni, secondo un approccio che denota una certa somiglianza con i modelli di ispirazione taylorista volti a standardizzare metodi e velocità di esecuzione della prestazione lavorativa. Fin qui nulla di nuovo: nelle maggiori fabbriche del mondo sono presenti sistemi più o meno simili di metrica del lavoro.

Dov’è allora la peculiarità di Ergo-Uas? Secondo i suoi proponenti, il principale beneficio sta nella possibilità di riconciliare finalmente ergonomia e produttività. In altri termini, l’idea di base è che progettando postazioni e metodi di lavoro “ergonomicamente compatibili” si possa in cambio chiedere al lavoratore di sostenere un carico maggiore di operazioni nello svolgimento della propria mansione. Non è un caso, dunque, che con l’avvento di Ergo-Uas nelle fabbriche Fca siano stati disdettati i sistemi di regolazione dei tempi di lavoro precedentemente adottati in Fiat, frutto dello storico accordo dell’agosto del 1971 ma soprattutto delle lotte operaie dell’autunno caldo, incentrate proprio su cottimo, ritmi di lavoro e, più in generale, controllo e organizzazione della produzione.

L’accordo del 1971 stabiliva un tetto massimo alla quantità di lavoro assegnabile a ogni singolo addetto in funzione, fra le altre cose, del volume di produzione stabilito dall’azienda. In particolare, all’aumentare degli obiettivi produttivi prefissati corrispondeva una diminuzione della percentuale del carico di lavoro massimo assegnabile individualmente sul totale della giornata lavorativa. Con l’entrata in scena di Ergo-Uas questa logica scompare. Soprattutto, ora è sufficiente considerare una postazione come poco o per nulla a rischio sul piano ergonomico affinché quella che nel linguaggio delle metriche del lavoro è chiamata “saturazione” aumenti, con differenze rilevanti rispetto a quanto accadeva in passato. Tutto ciò produce di fatto un allungamento della giornata lavorativa, metodo classico – e peraltro nemmeno fra i più raffinati – per estrarre maggiore valore. Senza dimenticare che nella logica del Wcm sono da considerare sprechi tutte quelle attività a non valore aggiunto, come ad esempio camminare per prelevare attrezzi e materiali di montaggio. L’eliminazione di queste micro-azioni dalle operazioni che compongono la prestazione di lavoro, ottenuta per esempio tramite l’avvicinamento dei kit di montaggio alle postazioni, contribuisce dunque a saturare ulteriormente la giornata lavorativa, rendendola sempre più densa e meno porosa, in una spirale di intensificazione apparentemente senza fine.

Dalle interviste, poi, è emersa tutta una serie di pratiche discrezionali e arbitrarie da parte delle varie figure della gerarchia di fabbrica che, nella quotidianità del lavoro, non fanno altro che acuire il processo di intensificazione. I cosiddetti cartellini operazionali, ad esempio, che dovrebbero riportare l’elenco delle varie operazioni da svolgere per completare la mansione, spesso non risultano accessibili. Là dove sono disponibili, manca però una chiara indicazione dei tempi previsti per l’esecuzione delle varie operazioni. Si arriva a casi in cui il cartellino stesso è modificato sul momento dal team leader con l’aggiunta di operazioni inizialmente non di competenza dell’addetto.

L’intreccio fra nuovi sistemi tecnici di calcolo dei tempi e pratiche “informali” determina una serie di conseguenze di non poco conto. Anzitutto, è forte la percezione di essere sotto organico in rapporto ai volumi produttivi fissati dall’azienda. Emerge inoltre una forte componente di stress, non solo di tipo fisico ma anche di natura mentale e psicologica. Secondo alcune visioni ottimistiche della lean production, e del Wcm in particolare, è lecito aspettarsi che in questi contesti organizzativi i lavoratori siano sottoposti a un grado superiore di stress mentale, dal momento che viene loro richiesto un maggiore coinvolgimento – anche di tipo cognitivo – finalizzato al miglioramento continuo della produzione. Dalle interviste, tuttavia, viene fuori un altro quadro, quello cioè dello stress come conseguenza della frenesia dei ritmi e, soprattutto, della paura di azioni disciplinari in caso di errori, anche minimi, nell’esecuzione del proprio lavoro. Viene così smontato un ulteriore pezzo della narrazione “inclusiva” e partecipativa del Wcm, secondo cui il nuovo assetto organizzativo contribuirebbe ad appiattire e ridurre i livelli gerarchici, fino addirittura ad abbattere le tradizionali linee di distinzione fra chi progetta il lavoro e chi lo esegue, fra chi comanda la produzione e chi ne è governato.

Compressione dei tempi, stress, angustia di postazioni e spazi di lavoro divenuti sempre più stretti così da garantire il flusso continuo della produzione, paura delle ripercussioni disciplinari sono tutti fattori che agiscono anche nella dinamica degli infortuni. Se è vero che sembrano essersi ridotti quelli che i lavoratori stessi identificano come “grandi infortuni”, permangono però criticità legate a eventi infortunistici di entità minore. Di questo però pare sempre più difficile che resti ufficialmente traccia: l’azienda, infatti, mirando al raggiungimento formale dell’obiettivo “zero infortuni”, prescritto dal Wcm con il suo pilastro tecnico sulla sicurezza del lavoro, tende a scoraggiare la denuncia da parte dei lavoratori, spesso ricorrendo alla conversione degli infortuni in malattia. Anche in questo caso l’analisi dei questionari parla chiaro: se prima degli ultimi 3 anni l’85% degli infortuni veniva regolarmente denunciato, adesso questo sembra sceso a poco meno del 60%. Un risultato significativo, che la dice lunga sui rapporti di forza oggi vigenti in fabbrica.

Wcm tra fabbrica e società

Spesso dipinto come il “segreto” della nuova Fca, o come la più significativa delle innovazioni di Marchione, il racconto dell’implementazione del Wcm da parte dei lavoratori assume un segno opposto a quello della narrazione mainstream. Più che fotografare la realtà, infatti, l’articolazione empirica degli indicatori numerici del Wcm si traduce in una sollecitazione di comportamenti volti al solo raggiungimento formale degli indicatori che si articola all’ombra delle rilevazioni numeriche. L’imparzialità del Wcm si traduce così nell’occultamento dell’estrazione di plusvalore, intensificando i ritmi della produzione, riducendo le pause – relegate a mero tempo morto invece che considerarle come una necessità riproduttiva della forza lavoro – e finendo per esporre i lavoratori a rischi di infortunio e malattie professionali.

Non è un caso, dunque, che in numerose interviste emerga l’impiego di un linguaggio di natura teatrale per descrivere il momento degli audit, descritti come una semplice “messa in scena” che li costringe a preparare pochi giorni prima un “teatro” per i tecnici della certificazione del tutto distante dalla quotidianità della produzione.

È in questa sovrapposizione tra l’impiego di una componente simbolica e quello di indicatori numerici che emerge il profilo di una vera e propria ristrutturazione del sistema di governo della produzione in Fca. Così, l’introduzione del Wcm per mano di Marchionne non solo ha archiviato gli effetti di accordi decisivi come quelli del ‘71, che per oltre trent’anni avevano rappresentato un ostacolo all’intensificazione del lavoro, ma ha anche ridisegnato un nuovo assetto organizzativo che punta a marginalizzare il ruolo del sindacato tanto nelle relazioni industriali, quanto nella gestione quotidiana dei processi produttivi.

Tutto ciò, però, non sarebbe possibile senza una relazione di continuità tra le vicende del Wcm in Fca e una generale riorganizzazione della società imposta dal neoliberismo. È a seguito di questo momento che abbiamo visto esacerbarsi una tendenza generale che, attraverso i diversi settori, si orienta verso una generale intensificazione della prestazione lavorativa, facilitata dalla combinazione di indicatori numerici e di dispositivi simbolici. Grazie alla nuova morfologia assunta dalla società in oltre trent’anni di neoliberismo, il confine tra produzione e riproduzione sociale viene così sempre più giocato a favore della prima, tanto nella prospettiva della quotidianità lavorativa, quanto nell’intero arco vitale dei lavoratori. Così, quella relazione tra la fabbrica e la società secondo cui l’intera sfera sociale veniva piegata a favore delle esigenze della produzione, assume nel contesto del Wcm una sfumatura diversa che vede poggiare la ristrutturazione del governo della forza lavoro sugli stessi dispositivi che caratterizzano l’organizzazione della società neoliberista.

È così che la vicenda del Wcm in Fca finisce con il parlare di una trasformazione dai contorni più generali e che ci impone di tornare a prestare attenzione al lavoro operaio. Solo adottando il suo punto di vista, infatti, è possibile svelare le tendenze che il capitalismo esprime non solo all’interno della produzione, ma nella società del suo insieme.

*Marco Marrone, ricercatore in sociologia presso il Center for Humanities  and Social Change dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Stefano Valerio fa parte della Fondazione Claudio Sabattini.

Questo articolo nè frutto di 7.833 questionari analizzati, 167 interviste condotte con altrettanti lavoratori e lavoratrici, selezionati tra iscritti e non iscritti al sindacato. La ricerca-inchiesta è stata promossa dalla Fiom e sviluppata, a partire dal 2017, dalla Fondazione Di Vittorio e dalla Fondazione Sabattini.

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