Il Ministero della Produzione Futura
La finanza verde sta progettando il nostro futuro: ecco come funziona questa forma nascosta di pianificazione
I governi e le banche centrali presentano la finanza verde o sostenibile come la soluzione alla crisi climatica, pretendendo cioè di risolvere la questione ambientale con le stesse logiche di mercato che l’hanno provocata. Così, l’ansia diffusa riguardo il cambiamento climatico viene cooptata per aprire ulteriori frontiere all’accumulazione del capitale finanziario, e la realizzazione di obiettivi ambientali sempre più demandata a nuovi strumenti finanziari verdi.
Ma c’è un aspetto della finanza verde che non ha ricevuto l’attenzione che merita e che potrebbe fare da sponda alla rivendicazione politica di sinistra. Oggigiorno, l’orientamento di protocolli e procedure della finanza (verde) scaturisce da scenari che inclinano sempre più verso una forma velata e inconfessabile di pianificazione economica, e costituiscono l’ammissione di come in teoria si continuano a esaltare le virtù del mercato mentre in pratica se ne ammettono i limiti. L’origine degli scenari risale addirittura al dibattito sul calcolo economico socialista dei primi del Novecento, quando, esplorando nuove pratiche e tecnologie, si tentò di porre le basi intellettuali per l’alternativa al capitalismo.
Com’è noto, l’esito più importante del dibattito liberale contro la pianificazione fu la dismissione del piano come strumento di calcolo dei costi e prezzi e di allocazione efficiente delle risorse, obiettivi che solo il mercato avrebbe potuto garantire. Ma oggi la tecnologia ha ormai raggiunto una capacità di raccolta dati e di elaborazione computerizzata che potenzialmente potrebbe liberarci dal credo del mercato come unico strumento privilegiato ed efficiente di calcolo e distribuzione. Invece la pianificazione informatica viene sussunta a sostegno dell’ordine finanziario e sociale esistente e sono negate le sue potenzialità di costruzione di un ordine nuovo. Dobbiamo rovesciare la dicotomia e ripensare la pianificazione come strumento economico e politico adeguato a definire nuove politiche contro il cambiamento climatico e a fondare un nuovo ordine socio economico futuro ripensato da sinistra.
Il mito del mercato
Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia (Iea), per raggiungere le emissioni zero è necessaria una trasformazione radicale del sistema energetico globale. Questo richiede un dirottamento degli investimenti verso le infrastrutture e le energie rinnovabili. Ma finora, in linea con l’ideologia egemonica neoliberale, a guidare tale transizione sono stati i mercati finanziari, ritenuti capaci di calcolare costi e benefici futuri in modo neutrale e sistemico.
Anticipare future tendenze e opportunità è sempre stato un requisito fondamentale per l’accumulazione di capitale finanziario. Fin dai suoi albori, infatti, il sistema finanziario si è andato dotando di tecnologie di calcolo sempre più sofisticate che attualizzano rischi e aspettative future, trasformandoli in capitale. Negoziando costi, prezzi e tassi di interesse, gli attori di mercato porterebbero alla luce le informazioni necessarie per valutare i progetti futuri. Sintetizzando così tendenze e percezioni delle varie opportunità di investimento, i mercati finanziari permetterebbero un’allocazione efficiente delle risorse e offrirebbero il miglior compromesso possibile tra livelli di rischio e rendimento.
Come l’ago della bussola indica la direzione solo dopo aver oscillato, così i prezzi di mercato e le loro oscillazioni ci fornirebbero le conoscenze adatte a navigare nelle acque inesplorate del cambiamento climatico. L’economista austriaco Friedrich von Hayek fu il sostenitore più influente di questa visione del mercato come elaboratore di informazioni, una specie di sistema cibernetico idoneo a ogni compito informazionale. Tale visione resta alla base dell’idea di «finanza sostenibile» caldeggiata da figure di spicco come per esempio Mark Carney, ex governatore della Banca d’Inghilterra.
Cambiamenti climatici e stabilità finanziaria
Secondo Carney, il cambiamento climatico genererà vincitori e vinti, innescando la riconversione di tutto il sistema finanziario. In particolare, ammonisce Carney, l’accumulo caotico dei cosiddetti «beni bloccati» (o stranded assets , letteralmente «attivi non recuperabili», per esempio le scorte ad alta intensità di carbonio nella produzione di combustibili fossili) presso le istituzioni finanziarie finirà per creare un effetto domino che porterà al collasso del sistema finanziario globale. In un importante discorso pronunciato nel 2015 alla Lloyd, Carney ha suggerito che il rischio climatico potrebbe portare a uno sconvolgimento apocalittico del sistema nel suo insieme: «Quando il cambiamento climatico sarà diventato una minaccia alla stabilità finanziaria, sarà già troppo tardi».
Ma, insiste Carney, l’unica soluzione rimane il mercato. Affinché il sistema possa riconvertirsi in modo efficiente, il mercato dovrà semplicemente includere i rischi del cambiamento climatico e individuare tecnologie e politiche per affrontarli. In tale processo, essenziale diventa la raccolta e la trasparenza delle informazioni. Se ci fosse «una divulgazione coerente, verificabile, affidabile e chiara sull’emissione di anidride carbonica nelle varie attività», ritiene Carney, il mercato potrebbe aggregare queste informazioni e potenzialmente «regolarsi in prospettiva».
L’idea di Carney secondo cui bisogna tradurre l’impatto del cambiamento climatico nel linguaggio del rischio finanziario con le sue varie forme di misurazione e calcolo, prontamente accolta a livello globale, ha generato nuove politiche e normative. Stati, banche centrali e attori economici privati ora lavorano di concerto per formulare requisiti per la divulgazione finanziaria relativa al clima. Per le aziende sta diventando inderogabile rivelare dati che i mercati finanziari in precedenza ignoravano, come l’impronta carbonica. Che questi dati siano veritieri resta ovviamente da dimostrare, ma intanto il mercato ammette di includerli nei suoi calcoli e proiezioni.
In questa prospettiva, l’originale incapacità del mercato di affrontare i problemi ambientali, ammessa da finanzieri come Carney solo di recente, viene ridotta alla pura e semplice inadeguatezza delle informazioni: se il mercato conoscesse l’impatto individuale di ciascuna impresa sul pianeta – ad esempio le sue emissioni di anidride carbonica – sarebbe in grado di aggregare i dati e raggiungere un punto ottimale di equilibrio collettivo. Formalizzando tali dati come «indicatori chiave di performance», si stabilirebbe il «profilo di rischio» dei vari investimenti e si potrebbero selezionare e disciplinare le imprese sostenibili.
Una forma nascosta di pianificazione
Ma è davvero il mercato a orientare la finanza verde? Quando si inizia a scavare, colpisce quanto poco i principali attori dell’economia verde facciano affidamento su questa presunta efficienza del mercato. Le decisioni finanziarie si fondano, in realtà, su dati, modelli e scenari prodotti al di fuori del mercato. Senza che lo si ammetta, ci troviamo dunque di fronte a una forma di pianificazione economica.
Per esempio, i dati di mercato utilizzati dai fondi fiduciari d’investimento come Blackrock sono tratti dai calcoli degli scenari a emissione zero, in particolare quelli della Iea. Sono calcoli condotti su modelli di valutazione integrata (Integrated Assessment Models, Iam) che quantificano le conseguenze socio economiche dei cambiamenti climatici attraverso calcoli algoritmici. In particolare, sono questi i modelli utilizzati dalle banche centrali raggruppate nell’influente Network for Greening the Financial System (Ngfs), tra cui la Banca centrale europea e la Banca centrale di Cina, per eseguire le cosiddette prove di resistenza climatiche (stress test).
Ciò significa che si aggregano i dati relativi a milioni di singole imprese per studiare l’impatto futuro del cambiamento climatico attraverso un’ampia gamma di variabili macroeconomiche. Gli Iam forniscono anche le linee guida per la valutazione delle prestazioni ambientali degli strumenti finanziari, come il settore in crescita delle obbligazioni verdi (green bond). Insomma, l’elaborazione degli scenari si è dimostrata una guida efficace per gli investitori nel corso della creazione dei «portafogli sostenibili».
Gli scenari d’investimento traducono mondi ipotetici in una serie di metriche e calcolano che si deve fare per trasporre quei mondi nella realtà. Il tanto discusso scenario a emissione zero (et zero scenario), ad esempio, proietta un mondo a emissioni zero nell’anno 2050 e poi calcola il percorso ottimale per raggiungerlo. Quantifica priorità e costi, fornendo un’immagine coerente e coordinata dell’economia futura. A questo scopo, si focalizza su aree geografiche e settori economici (trasporti, agricoltura, edilizia ecc.) rilevandone interconnessioni e dipendenze.
Come deve evolvere la nostra economia? Come sarà distribuita la nostra produzione di energia tra le diverse fonti rinnovabili? Quale sarà il ruolo delle nuove tecnologie? Come sarà il nostro sistema dei trasporti? Affrontando questioni fondamentali come queste, gli scenari incarnano un tipo di pianificazione socio economica.
Allo stato attuale, tuttavia, la portata e l’impiego di tale pianificazione rimane ancora più che altro potenziale. Se in molti hanno elogiato la capacità degli scenari dell’Iea e della Ngfs di prevedere eventi futuri e conseguenze che risulterebbe difficile cogliere in altri modi, la loro utilizzazione da parte degli attori finanziari è ancora molto limitata.
La vendetta di Allende
È interessante notare come gli Iam utilizzino modelli ed equazioni risalenti agli inizi del XX secolo, quando pensatori come l’economista italiano Enrico Barone discussero di come dirigere l’economia senza fare affidamento sui mercati. Barone pubblicò un articolo fondamentale nel 1908 intitolato «Il ministero della produzione in uno stato collettivista», dove propose un insieme di algoritmi che potremmo considerare gli antenati di quelli attualmente in uso.
L’articolo di Barone aprì una diatriba nota come «dibattito sul calcolo socialista». Contribuirono alla discussione, tra gli altri, Friedrich von Hayek e il marxista polacco Oskar Lange. Nei suoi primi anni essa si sviluppò principalmente a livello teorico, poiché i modelli e le equazioni proposti dai sostenitori della pianificazione socialista erano in pratica irrisolvibili senza l’ausilio dei computer. Mancava anche la vasta infrastruttura necessaria a raccogliere ed elaborare tutti i dati occorrenti.
Successivamente, anche se per un breve periodo prima del golpe militare del 1973, il governo socialista di Salvador Allende in Cile mise in pratica alcune di queste idee. Pur utilizzando tecnologie molto diverse da quelle su cui si basano gli attuali Iams, i «rivoluzionari cibernetici» cileni, anche con l’aiuto dell’intellettuale britannico Stafford Beer, mostrarono con successo come utilizzare dati e algoritmi per gestire l’economia.
Quasi mezzo secolo dopo l’affossamento di questo breve esperimento futuristico in seguito al colpo di stato di Augusto Pinochet e nonostante le ripetute crisi e fallimenti, il neoliberismo e il mito del mercato restano l’ideologia dominante del nostro tempo. Tuttavia, luminari neoliberisti come Mark Carney, un tempo fieri avversari della pianificazione, ricorrono ora proprio a essa di fronte al cambiamento climatico e alla chiara minaccia che rappresenta anche per la loro stessa sopravvivenza.
In pratica, ammettono che il mercato, lasciato a sé stesso, non è in grado di prevenire la catastrofe climatica. Eppure, in teoria, continuano a promuovere l’idea del mercato come meccanismo di autogoverno neutrale. Per evitare che un’élite finanziaria con poteri algoritmici sfrutti le esigenze della transizione energetica a proprio vantaggio, dobbiamo renderci conto della realtà delle cose.
Sia chiaro, il nostro non è né un appello nostalgico al ritorno alla pianificazione né un’esaltazione della pianificazione statale centralizzata. Ogni tentativo in questo senso porterebbe inevitabilmente a un irrigidimento tecnocratico e antidemocratico del processo decisionale. Vogliamo piuttosto mettere in luce le contraddizioni di una transizione energetica che si dice essere guidata dal mercato quando invece si presenta come una pianificazione al servizio del capitalismo finanziario e della sua riproduzione. Ma la pianificazione, nelle sue diverse articolazioni, potrebbe invece servire come strumento a supporto di una mobilitazione di lotta globale e per la definizione di programmi contro il cambiamento climatico e per una ridistribuzione più equa delle risorse.
*Alessandro Maresca è un ingegnere meccanico e sta completando un dottorato in Antropologia all’Università di Bologna. Giulia Dal Maso è una ricercatrice Marie Skłodowska-Curie presso l’Università di Ca’ Foscari (Unive) e la National University di Singapore (Nus). Ha pubblicato in Journal of Cultural Economy; Historical Materialism, Social and Cultural Geography; South Atlantic Quarterly, ed è l’autrice di Risky Expertise in Chinese Financialisation: Financial Labor within the Chinese state-finance nexus. Questo articolo è stato possibile grazie ai fondi del progetto Erc ImpactHau grant n. 772544 e del progetto Eu Msca Chingreen grant n.101024555.
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