Il mito fondativo di Colombo
Trump esorta a difendere lo stile di vita statunitense e fa risalire tutto al mito fondativo della scoperta del 1492. Ma l'immagine del fondatore che sbarcò nel Nuovo mondo ormai vacilla anche presso gli italo-americani
Il 3 luglio 2020 il presidente Trump da Mount Rushmore, South Dakota, ha lanciato un grido di guerra contro un presunto nemico interno, gli «antifascisti e anarchici», e uno esterno, la Cina e il «suo» virus. In piena pandemia Covid e in nome della libertà di negarla, ha costruito una realtà parallela di un nemico interno che, con una rivoluzione culturale di sinistra, distrugge il paese abbattendo le statue dei grandi eroi della sua storia. La dichiarazione di guerra contro il movimento di Black Lives Matter, parte dalla scelta del luogo: Mount Rushmore, con le quattro teste gigantesche dei presidenti Washington, Jefferson, Lincoln e T. Roosevelt scolpiti nella roccia da Gutzon Borglum, che fu seguace del Ku Klux Klan. Un atto volutamente provocatorio in quanto Rushmore, nelle Black Hills, è luogo di un conflitto storico in questa antica terra degli Oglala Lakota Sioux, che il trattato di Fort Laramie del 1868 riconsegnava loro, ma che non fu mai applicato perché su quelle montagne i coloni bianchi trovarono l’oro e i nativi, nella grande epopea del West cara al presidente Trump, erano l’ostacolo da eliminare. Infatti, i discendenti di queste tribù che protestavano per l’invasione trumpiana del 3 luglio sono stati fermati dalla guardia nazionale con spray urticante, e i resistenti, che scandivano il loro diritto alle terre ancestrali, sancito da una sentenza della Corte Suprema del 1980, sono stati tutti arrestati.
L’inizio della politica repressiva di law and order, di riduzione violenta dei problemi sociali a questioni di ordine pubblico, da Rushmore arriva a Portland e ad altre città statunitensi con l’impiego di truppe speciali federali, con una sospensione dei diritti costituzionali per i dimostranti del movimento Black Lives Matter, sempre più articolato, interrazziale e che nella lotta al razzismo intreccia l’eredità della schiavitù e del colonialismo. Con un’accelerazione nazionale e internazionale senza precedenti, raccogliendo l’eredità della rivoluzione incompiuta del movimento dei diritti civili, questa mobilitazione rende evidente che se le razze non esistono, il razzismo ha plasmato il capitalismo e lo nutre anche oggi, con la sua macchina da guerra militare-poliziesca che mantiene il suo ordine e le sue immense disuguaglianze.
Di ritorno da Rushmore il 4 luglio Trump ha salutato la «sua» America attaccando chi vuole distruggere quell’American Way of Life che ha fatto risalire a quando, nel 1492, «Colombo scoprì l’America». Colombo per Trump, e non solo per lui, è un padre fondatore come lo sono gli eroi confederati: le proteste che fanno cadere le loro statue cancellano la «storia». La sua America confonde la storia, che non conosce, con la memoria pubblica costruita nel momento in cui quelle statue furono inaugurate. Perché è proprio questo che ci racconta la «guerra delle statue» iniziata nell’agosto del 2017 a Charlottesville, Virginia, quando militanti della nuova destra estrema accorsero in difesa della statua del generale confederato Robert Lee minacciata di rimozione a seguito delle proteste antirazziste. Le centinaia di statue in onore di eroi della Confederazione sudista furono inaugurate negli anni Novanta dell’Ottocento quando si era instaurato nel sud, con la complicità del nord, un regime di segregazione razziale smantellando tutti i diritti che i neri avevano acquisito con la fine della schiavitù e il tentativo straordinario di edificare una democrazia razziale durante il periodo della Ricostruzione: una «rivoluzione non finita», nella definizione data dallo storico Eric Foner. Quelle statue erano quindi un’intimidazione rivolta ai neri liberi nel momento in cui la supremazia bianca era stata restaurata. Quelle statue non sono «storia» poiché parlano del periodo in cui si costruì una memoria pubblica nostalgica della causa sudista che legittimava il vigente regime di segregazione razziale che sarà smantellato solo dalla rivoluzione del movimento dei diritti civili. Le statue degli eroi confederati attaccate dalle proteste di Black Lives Matter non sono pericolose perché evocano la Guerra Civile, ma perché legittimano l’odio razziale della supremazia bianca nella società contemporanea. E le statue di Colombo, cadute, vandalizzate, o rimosse, a Boston, St. Paul, Miami, Baltimore, Chicago, Buffalo? La storia di queste statue è più complessa: nel Nord America dove il navigatore genovese non mise mai piede – arrivò nel 1492 alle attuali Bahamas convinto di essere arrivato in Asia – decine di città, istituzioni accademiche, fiumi, laghi, associazioni, portano il nome di Colombo o Columbia ad evidenziare l’importanza di questo mito fondativo che risale al periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione Americana e all’approvazione della Costituzione nel 1787.
Un Colombo nordamericano
Il nuovo paese nato dalle tredici colonie britanniche nel 1790 si dotò di un Naturalization Act che limitava l’acquisizione della cittadinanza a «qualsiasi persona libera e bianca» residente negli Stati uniti da almeno due anni. Quindi i discendenti degli africani anche se non in condizione di schiavitù non potevano diventare cittadini, come pure i nativi americani erano esclusi da quel «Noi il popolo…», incipit della Costituzione. Questo nuovo paese, aperto solo agli immigrati europei, the white man’s country, in cerca di miti fondativi nazionali che rompessero i legami con l’impero britannico, inventò una sua immagine di Colombo, navigatore di origini genovesi e al servizio della cattolicissima Spagna, come spirito indipendente che aveva rotto i legami con il Vecchio Mondo retrivo e aristocratico. L’invenzione avvenne a New York nel 1792 grazie agli esponenti della Tammany Society: gruppo che univa «in un unico legame patriottico i ricchi e gli industriosi, gli eruditi e gli incolti, i plebei rispettabili».
Nell’ottobre 1792 la Tammany Society, che prese anche il nome di Columbian Order, si fece promotrice della celebrazione di Colombo e di Columbia, figura allegorica femminile simile a Britannia, che già circolava nel periodo rivoluzionario. Come figura storica Colombo era quasi sconosciuto nel Nord America ed era quindi una perfetta parete bianca su cui i rivoluzionari americani potevano scrivere le virtù della nuova nazione differenziandosi dalla Gran Bretagna. Nell’invenzione mitica l’accuratezza storica non era e non è rilevante e molte città presero il nome di Columbus. Nell’ottobre del 1792 il vecchio King’s College di New York era già stato rinominato Columbia University, statue e monumenti in onore di Colombo cominciarono a comparire nello spazio pubblico e parate guidate da attori travestiti da Colombo e Columbia si svolsero a New York, Boston e Philadelphia. La glorificazione mitica dell’immagine di Colombo proseguì nel 1828 con la pubblicazione di A History of the Life and Voyages of Christopher Columbus del celebre scrittore Washington Irving, una vita romanzata di un Colombo avventuroso, valoroso, intrepido e generoso con gli indiani, ma soprattutto che si mise in viaggio per provare la rotondità della terra contro le superstizioni della Chiesa e delle élite europee. Ovviamente, ciò non era storicamente vero, già si sapeva da molto tempo della rotondità del globo terrestre, ma non aveva importanza, il libro divenne un bestseller nel nuovo paese che alla ricerca di miti fondativi rispecchiava sé stesso in quest’immagine di rottura con l’arretratezza del passato europeo nel nome della modernità.
Colombo a Chicago, 1893
All’arrivo del quarto centenario della «scoperta» colombiana – si inizierà a chiamarla «invasione» europea solo un secolo dopo – nord e sud si stavano riconciliando, il regime di apartheid razziale si stava consolidando nella ex Confederazione, linciaggi e violenze terroristiche contro i neri crescevano man mano che si innalzavano statue alla memoria della causa sudista, come quella equestre del generale Robert Lee a Richmond inaugurata con una grande folla festante nel 1890 e che il giugno scorso è stata «riscritta» dai graffiti di Black Lives Matter. La Chicago World’s Columbian Exposition del 1893 è un grande palcoscenico internazionale su cui si mette in scena ciò che si annuncia come il «secolo americano» dell’«impero irresistibile». Una forte identità nazionale-imperiale emerge proprio da quell’evento a Chicago «regina dell’ovest», scelta in quanto simbolo dell’accelerazione dell’idea di progresso americano, snodo strategico di un sistema ferroviario nazionale quasi compiuto, passata da piccolo villaggio di frontiera a grande metropoli in pochi decenni. Statue di Colombo appaiono dappertutto, la White City, il centro dell’esposizione così chiamato per la luce bianca emanata dai suoi edifici in stile neo-classico, diventa la forza del «Progresso» all’insegna della «Modernità»; questo stile univoco proiettava l’immagine di grande unità nazionale, attorno alla bianca Columbus Fountain, con l’ammiraglio Colombo in alto attorniato da statue allegoriche rappresentanti le virtù americane che avrebbero presto trionfato sulla decadenza europea rappresentata dalla Spagna, potenza coloniale che verrà sconfitta nel 1898 dagli Stati uniti, «impero della libertà», ai quali lascerà Cuba, Puerto Rico e le Filippine.
La Spagna nel 1893, nonostante le enormi difficoltà economiche, partecipò all’esposizione di Chicago con un suo padiglione dopo aver celebrato gloriosamente e dispendiosamente a Madrid il quarto centenario del viaggio di Colombo come l’evento più importante della sua storia, esaltando il suo passato glorioso di potenza che aveva liberato l’Europa dall’invasione musulmana. L’esposizione colombiana di Chicago viene vista come un’occasione da non perdere per l’orgoglio spagnolo, per dimostrare che Colombo era una sua creatura: il genovese era giunto in Spagna «povero e disprezzato», ma sotto la protezione della corona spagnola aveva compiuto quel grande viaggio di «scoperta». Ma per la Spagna non andò bene: non solo le fu data scarsa rilevanza dalla stampa statunitense, ma Cuba, la sua perla coloniale, ormai da decenni sotto l’influenza economica statunitense e con un movimento indipendentista in forte ascesa, non si fece scappare l’occasione del grande palcoscenico di Chicago per attaccare la madre patria. Infatti, il pittore cubano Armando Menocal presentò per l’esposizione un grande dipinto raffigurante Colombo che nel 1500 rientra in Europa in catene con accuse pesanti di crudeltà verso gli indigeni, ma soprattutto nei confronti dei coloni spagnoli da lui amministrati. Ciò fece infuriare il ministro spagnolo che obbligò l’astuto pittore cubano a cancellare le catene dal dipinto: la Spagna non poteva dare questa immagine del suo passato coloniale mentre tentava di riappropriarsi dell’icona di Colombo come figlio adottivo prediletto.
Il Colombo italo-americano
Dietro le quinte del palcoscenico della grande esposizione colombiana c’è un altro attore che attende di entrare in scena per appropriarsi dell’immagine di Colombo: la comunità degli immigrati italo-americani, ferita dal linciaggio di undici siciliani a New Orleans nel 1891, accusati dell’omicidio del capo della polizia locale, ma prosciolti dalle accuse in tribunale e prelevati e uccisi dalla folla, un evento terribile che scosse l’opinione pubblica in Italia e che rischiò di far rompere i rapporti diplomatici con gli Stati uniti.
Alla fine dell’Ottocento gli italiani meridionali immigrati negli Stati uniti erano collocati assai vicini ai neri, con i quali condividevano i lavori più umili: si diceva che erano codardi, discendenti di banditi e assassini, che avevano portato nel paese le peggiori passioni. Più o meno le stesse considerazioni degli scienziati italiani positivisti post-unitari che si rifacevano alla scuola di Cesare Lombroso, quando trattavano dei calabresi e dei siciliani come una razza inferiore e degenerata per la sua vicinanza all’Africa. L’orrore dei linciaggi di New Orleans segna un punto di svolta e l’inizio di un processo di rivendicazione identitaria «bianca» nella comunità italiana di New York. L’intervento del governo italiano ottenne le scuse di quello nordamericano che su richiesta dell’allora presidente Benjamin Harrison promosse una legge contro le violenze agli immigrati stranieri – ma non agli afroamericani, i cui linciaggi in crescita costante restarono ignorati.
La storica comunità italiana di New York risaliva ai tempi degli esuli garibaldini e aveva la sua voce più forte nel Progresso Italo-Americano, un giornale il cui nome stesso era un programma di integrazione nel nuovo paese. I fatti di New Orleans vengono discussi e si decide che occorre alzare il profilo, usare le imminenti celebrazioni colombiane per appropriarsi dell’icona di Colombo, associando sé stessi al più americano degli italiani, anche se l’ammiraglio era nato a Genova, l’Italia alla sua epoca non esisteva come nazione e gli immigrati italiani provenivano, a fine Ottocento, dal sud. Nella costruzione italo-americana Colombo diventa «il primo immigrato italiano» ad approdare in America, l’icona più importante già da un secolo della white man’s country, salutato dal presidente Harrison come «illuminato pioniere del progresso». Questa nuova identità positiva venne celebrata dalla comunità di New York con una statua in onore di Colombo, realizzata in marmo di Carrara dallo scultore italiano Gaetano Russo grazie alla raccolta di fondi del Progresso Italo-Americano e inaugurata nel 1892: è la statua in cima alla colonna che domina ancora Columbus Circle a New York, che viene contestata in anni recenti in occasione del Columbus Day. Sul piedistallo si legge: «A Cristoforo Colombo, gli italiani residenti in America, deriso prima e poi minacciato durante il viaggio, poi incatenato, generoso quanto oppresso, dette al mondo un altro mondo». Parole di orgoglio comunitario dopo anni di discriminazioni, che aprono la strada verso l’America bianca distanziandosi dagli afroamericani. Occorre tuttavia distinguere tra le statue di Colombo inaugurate nel 1892 e quelle degli anni Venti e Trenta del Novecento. Mentre le prime rappresentano una rivendicazione di un gruppo discriminato e oppresso che si appropria di un simbolo americano già esistente da un secolo, le seconde rivelano una mitica «italianità» come superiorità culturale della «stirpe italica», frutto della massiccia propaganda che il regime fascista operò negli Stati uniti. Gli italiani, popolo discendente dall’Impero Romano, non sarebbero stati più considerati degli immigrati meridionali ignoranti, bensì colonie di italiani residenti all’estero che portavano l’antica civiltà in un paese giovane come gli Stati uniti. Ma gli stereotipi razziali anti-italiani negli Stati uniti degli anni Venti si intrecciavano alla repressione degli Industrial Workers of the World, movimenti radicali socialisti e anarchici, etichettati come un-American, in cui era presente una forte componente italo-americana: il caso Sacco e Vanzetti – i due anarchici italiani condannati a morte nel 1927, dopo sette anni di processo, con una falsa accusa di omicidio – e il grande movimento internazionale a loro difesa, divennero emblematici di un forte conflitto esistente sul significato di essere americani. Oggi nella comunità italo-americana si è aperto un dibattito salutare sull’atteggiamento da tenere sulle sue statue di Colombo abbattute nel corso delle recenti proteste. E fra i giovani italo-americani stanno nascendo gruppi di solidarietà con Black Lives Matter che valorizzano proprio gli inizi dell’immigrazione dei meridionali, poveri, sfruttati e disprezzati, trattati da «negri». Tra questi i ragazzi di «Bella Ciao Buffalo», con un chiaro riferimento alla nostra Resistenza come mito fondativo e all’abbandono conseguente di quello di Colombo.
*Alessandra Lorini, Ph.D in storia alla Columbia University, ha insegnato storia dell’America del Nord all’Università di Firenze. Ha scritto, tra le altre cose, Rituals of Race (University Press of Virginia) e L’impero della Libertà e l’isola strategica. Gli Stati Uniti e Cuba tra Otto e Novecento (Liguori).
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