
Il riformismo senza rivoluzione (e senza riforme)
Oggi con il termine «riformismo» si indica il rifiuto categorico di uscire dai binari del pilota automatico. Ipotesi sulle cause dello slittamento semantico di un concetto
Uno spettro si aggira per il dibattito pubblico italiano: lo spettro del riformismo. Non passa giorno che la stampa mainstream non si dedichi ad attribuire pagelle di riformismo a questo o a quel politico. La segretaria del Partito democratico è assediata da una minoranza interna di autodefiniti riformisti e da un commentariato che le imputa ogni giorno una cronica carenza di riformismo nel sangue. E intorno al cambio di direzione di una delle più prestigiose riviste del centrosinistra italiano, Il Mulino, si è aperto un dibattito sulla diversa quota di riformismo di collaboratori e candidati direttori.
Tale è lo zelo che caratterizza questa crociata dei pochi «veri riformisti» contro tutto ciò che non è, invece, davvero riformista, che verrebbe da chiedersi cosa sono tutti gli altri, se non riformisti? Davvero, nell’Italia del 2023, il centrosinistra è in mano ai rivoluzionari o, come si ama dire, ai «massimalisti»? E se non è così, cos’è il riformismo di cui tanto si parla? L’impressione è che, in un contesto in cui l’orizzonte della rivoluzione (contro cui si è sviluppato il riformismo novecentesco) è scomparso, e in cui la direzione progressista della storia è tutt’altro che data per scontata, anche a sinistra, «riformismo» finisca per significare semplicemente rifiuto categorico di uscire dai binari del pilota automatico, resistenza a oltranza all’aggiornamento delle ricette consolidate dell’ortodossia liberista, condanna a non uscire mai dai lunghi anni Novanta. Un atteggiamento che non aiuta a risolvere la vera tensione tra riformismo e crisi della gradualità che caratterizza tutte le sinistre nell’epoca delle emergenze e che, nel provincialismo italiano, porta a non vedere, e quindi non analizzare, i pochi casi, pur diversi tra loro, di riformismo realmente esistente nel mondo, da quelli più vicini al centrosinistra tradizionale, come Pedro Sánchez o perfino Joe Biden, a quelli più innovativi come Gabriel Boric o Lula.
La linea di frattura dell’Ottobre 1917
La vicenda de Il Mulino è particolarmente rivelatrice. Non tanto perché una rivista abbia legittimamente deciso di riorganizzare il proprio lavoro e la propria linea editoriale. Ma, appunto, per la discussione, riportata su quotidiani e social media, che ha accompagnato la decisione di Mario Ricciardi di non ricandidarsi alla direzione della rivista e la votazione che ha visto imporsi, con ristretto margine, Paolo Pombeni su Piero Ignazi come suo successore. Alla notizia dell’indisponibilità di Ricciardi a restare al timone, il Corriere di Bologna ha titolato «si cerca un profilo più riformista», la vittoria di Pombeni su Ignazi per la nuova direzione è stata definita da Il Resto del Carlino come una «svolta riformista» e l’intervista del nuovo direttore al Foglio si è intitolata: «La necessità di un vero riformismo».
Di Ricciardi, docente di filosofia del diritto all’Università di Milano, non si conoscono particolari tendenze né frequentazioni comuniste o variamente rivoluzionarie, così come non risulta che Ignazi, docente in pensione di scienza politica all’Università di Bologna, e già direttore de Il Mulino nel riformistissimo biennio 2009-2011, sia un sostenitore della presa del potere per via insurrezionale. Del resto, tutti e tre i protagonisti si autodefiniscono riformisti, e il dibattito mediatico sulle cinquanta sfumature di riformismo presenti nella redazione ha raggiunto livelli di astrattezza al limite del surreale, con Pombeni citato da Il Resto del Carlino come sostenitore dell’idea di «fare sì le riforme, ma con pazienza e gradualità», come se il tema fosse la rapidità dei processi di policy e non il loro contenuto e la loro direzione. Su questo piano, risulta davvero complesso capire cosa sia il riformismo di cui si parla e cosa lo distingua dal resto dell’offerta politica e culturale.
Questa difficoltà ad afferrare il concetto di riformismo pare essere strettamente legata alla scomparsa dall’orizzonte del possibile di ciò a cui il riformismo si era contrapposto per buona parte del Novecento: la rivoluzione. Nel secolo scorso la principale linea di frattura interna alla sinistra è stata la Rivoluzione d’Ottobre, non solo e non tanto in termini di giudizio su di essa, ma anche e soprattutto di sua scelta come modello di presa del potere statale. Dobbiamo «fare come in Russia» o meno? E l’Unione Sovietica nata da quella rottura è di conseguenza o meno il modello per le sinistre di tutto il mondo? Difficile trovare una linea di demarcazione più profonda e duratura di questa, tra comunismo rivoluzionario (seppur con le sue varianti originali, come la «via italiana al socialismo», per non parlare delle varie eresie antisovietiche) e socialdemocrazia riformista (anche qui, con diversi livelli di radicalità). Cosa resta di questa dicotomia, dopo il 1989, quando i partiti nominalmente comunisti presenti nei parlamenti europei si contano sulle dita di una mano e le loro strategie sono sostanzialmente basate sulla partecipazione alle istituzioni liberaldemocratiche? Cosa significa essere riformista quando non esiste, in Occidente, alcuna proposta politica chiaramente rivoluzionaria? Non a caso, il termine è usato esclusivamente nel dibattito pubblico italiano, e sempre in contrapposizione a «radicale» o a «massimalista». Ma il contrario di «radicale» è «moderato», e infatti la distinzione tra radicalità e moderazione è quella che normalmente descrive i conflitti interni alla sinistra in buona parte del mondo.
La disputa tra Hillary Clinton e Bernie Sanders alle primarie democratiche del 2016, negli Usa, fu descritta come la competizione tra una candidata centrista e uno di sinistra, tra una candidata liberale e uno socialista, tra una candidata moderata e uno radicale. Non risulta, nella stampa internazionale, qualcuno che usasse il concetto di «riformismo» per distinguere i due candidati, entrambi impegnati a perseguire un cambiamento in senso progressista attraverso il gradualismo dell’azione parlamentare, più o meno combinato al conflitto sociale.
Allo stesso modo, il concetto di «massimalismo» è sostanzialmente assente dal dibattito politico al di là delle Alpi, associato com’è a una disputa storicamente situata, quella tra Eduard Bernstein e Karl Kautsky prima e soprattutto dopo la redazione del programma di Erfurt della socialdemocrazia tedesca nel 1891, in realtà conosciuta più come una contrapposizione tra «revisionismo» e «marxismo ortodosso» che tra «riformismo» e «massimalismo». Quest’ultima dicotomia ha come principale precedente la contrapposizione tra le correnti interne del Partito socialista italiano tra l’età giolittiana e il fascismo. Ma riflette davvero le questioni politiche dell’oggi? Se si lascia da parte la storia, ben poco gloriosa, del gruppo riformista di Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi, espulso dal Psi nel 1912 dopo l’appoggio alla guerra coloniale in Libia (eredità che per fortuna i «riformisti» di ora non rivendicano), anche la contrapposizione tra riformisti e massimalisti del Psi è in sostanza uno scontro tra integrazione nelle istituzioni liberali (in via di democratizzazione) e strategia rivoluzionaria (più a parole che nella pratica, come faranno notare i comunisti). Non a caso, sarà la Rivoluzione d’Ottobre a far precipitare lo scontro. E non a caso, della corrente massimalista maggioritaria al Congresso di Livorno del ’21, all’epoca in posizione intermedia tra riformisti e comunisti, non resterà praticamente nulla nella memoria della sinistra italiana.
Cos’è, oggi, un massimalista? Da cosa si riconosce, nel 2023, un epigono di Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati? Stiamo parlando degli ultimi eredi del socialismo «meccanico» ottocentesco, convinti della rivoluzione come di un fatto naturale che sarebbe derivato più o meno spontaneamente dallo sviluppo delle forze sociali, e quindi impreparati alla questione della presa del potere come si pone nel Novecento, per via insurrezionale o parlamentare. Davvero la sinistra italiana e mondiale del 2023 è in un contesto simile? Davvero c’è qualcuno che attende, più o meno messianicamente e con maggiore o minore preparazione strategica, la rivoluzione, nel campo di forze a cui il dibattito sul «riformismo» si riferisce?

Le riforme e la direzione della storia
L’impressione è che una volta che la rivoluzione è stata messa fuori discussione la parola «riformismo» sia stata svuotata, ridotta a sinonimo di moderazione, di compromesso, di volontà di non cambiare nulla, o, peggio, di adattarsi alla direzione di cambiamento dettata dall’ordine dominante. Riformista, da Walter Veltroni a Stefano Bonaccini passando per Matteo Renzi (non a caso ora direttore del quotidiano Il Riformista), non è più in opposizione a «conservatore» o a «rivoluzionario», bensì un segnale in codice di rinuncia a qualsiasi velleità di cambiamento radicale. Non a caso, ciò è avvenuto quando «riformista», a sinistra, ha smesso di qualificare strategicamente l’aggettivo che identificava l’obiettivo politico, cioè «socialista». «Riformista», di per sé non vuol dire nulla: è un accidente senza sostanza, un aggettivo privo di significato se non lo si avvicina a un concetto più definito. Si può essere socialisti riformisti, liberali riformisti, cattolici riformisti, ma essere «riformisti» e basta è piuttosto bizzarro, perché identifica una tendenza al cambiamento graduale in quanto tale, senza badare al contenuto e alla direzione di quel cambiamento.
Ai tempi di Bernstein e Kautsky, il dibattito girava soprattutto intorno ai modi e ai tempi della fine del capitalismo: i riformisti immaginavano una lunga e lenta transizione al socialismo fatta di conquiste intermedie. La storia della sinistra di quei decenni, del resto, è una storia di oscillazioni tra il «programma minimo» riformista e quello «massimo» rivoluzionario che ogni partito socialista aveva, tra il millenarismo messianico della rivoluzione imminente e la palude parlamentare in cui si affondava quotidianamente. Ma nessuno avrebbe messo in discussione il fine ultimo di quelle strategie, riformiste o rivoluzionarie: il sol dell’avvenire, un mondo senza classi, la liberazione dell’umanità dallo sfruttamento. Un socialista sui generis come il francese Jean Jaurès, nel 1903, descriveva così il ruolo delle riforme: «Ci renderemo conto di essere entrati nella zona dello stato socialista come i navigatori si rendono conto di aver attraversato il meridiano che divide due emisferi – non per averlo potuto vedere come fosse un cordone teso sulla superficie dell’acqua ad annunziare l’istante del passaggio, ma per esser stati introdotti poco a poco nel nuovo emisfero dal procedere ininterrotto della nave».
Fu dopo la Seconda guerra mondiale, sotto il pesante condizionamento della Guerra fredda e della conseguente divisione del mondo in due blocchi, che le socialdemocrazie europee iniziarono a pensare il loro riformismo non come una strategia di superamento del capitalismo ma come una serie di miglioramenti possibili all’interno della cornice economica dominante. Il celebre «programma di Bad Godesberg» della Spd tedesca, nel 1959, segnò il passaggio: la socialdemocrazia come movimento per correggere il libero mercato e non per superarlo.
Non a caso in Italia, per distinguersi da questa prospettiva, comunisti e sinistra socialista parlavano di «riforme di struttura» e non a caso André Gorz parlerà di «riforme non riformiste»: misure di cambiamento radicale il cui obiettivo non fosse migliorare, gestire o pianificare il capitalismo, bensì trasformarlo talmente in profondità da prepararne il superamento, modificando non solo l’economia nazionale ma anche le strutture di potere e i rapporti politici tra le classi. Era il difficile terreno intermedio tra velleitarismo e capitolazione in cui si muoveva la sinistra occidentale nella Guerra fredda, consapevole sia dell’impossibilità della rivoluzione sia della necessità di un cambiamento strutturale. Ma anche in settori più moderati, il lessico della politica italiana dell’epoca va dalla «riforma agraria» alla «riforma sanitaria»: si discute della radicalità del cambiamento, non della sua direzione, sempre progressista. La Democrazia cristiana e i settori più lucidi della classe dominante lo danno per scontato: il cambiamento, nella prospettiva di maggiori libertà e uguaglianza, è inesorabile; si può solo lavorare per rallentarlo, accompagnarlo e incanalarlo verso modalità compatibili con il sistema, ma fermarlo è impensabile.
Se la direzione delle riforme è talmente scontata che non serve citarla, significa che quella direzione è egemonica, che è la direzione del progresso della storia. Ed è questa probabilmente la chiave del cambio di senso della parola «riforma»: è una parola di proprietà di chi è titolare del senso della storia, della promessa di progresso, dell’orizzonte futuro. Una celebre foto scattata durante un corteo del ’68 inquadrò uno striscione: «Il movimento studentesco con i lavoratori, per la democrazia, per le riforme, contro il fascismo». Quale corteo di movimento, oggi, rivendicherebbe «le riforme» come obiettivo? Se negli anni Sessanta chiunque sentisse l’espressione «riforma della scuola» pensava a un potenziamento del ruolo del pubblico, a maggiori opportunità per le classi popolari e in generale a misure più o meno decisamente di sinistra, oggi la stessa espressione farebbe rabbrividire al pensiero di nuove privatizzazioni, nuova precarizzazione e un ulteriore smantellamento del sistema pubblico di istruzione, evidentemente qualcosa è successo: la freccia della direzione implicita della storia ha cambiato orientamento.
Se la scomparsa della rivoluzione ha tolto al riformismo il contrappunto strategico nel confronto con il quale definirsi, il cambio di egemonia imposto tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta dalla svolta conservatrice di Ronald Reagan e Margaret Thatcher ha fatto piazza pulita dell’idea che la direzione del cambiamento fosse inesorabilmente progressista, e quindi che il ritmo con cui realizzare quel cambiamento fosse l’elemento centrale del dibattito a sinistra.
Riformismo e crisi della gradualità
Ed è così che negli anni 2000 la parola «riforma» è finita per essere uno degli elementi più ricorrenti del lessico berlusconiano. Già nella campagna elettorale 2006, Berlusconi amava snocciolare le «quaranta riforme» approvate dal suo governo, da quelle più note e controverse (scuola, lavoro, pensioni, immigrazione), a quelle più oscure (la mille volte citata «riforma del codice nautico»). Nella logica aziendalista e spoliticizzata della Seconda Repubblica, un governo che «fa le riforme» è un governo efficiente, produttivo, di successo. Quali siano le riforme, e in che direzione vadano, non è in discussione: la direzione è quella naturale, quella del pilota automatico, l’unica strada possibile. Sono le riforme «che ci chiede d’Europa», quelle dettate nei memorandum dell’austerità: tagliare, privatizzare, liberalizzare. Ed è così che persone come Mario Ricciardi alla guida de Il Mulino ed Elly Schlein al vertice del Pd finiscono a essere etichettate come non sufficientemente riformiste, e l’ex direttore di Tg1 e Sole 24 Ore Gianni Riotta può commentare che il cambio di direzione della rivista bolognese «vede il riformismo del professor Pombeni prevalere, di soli due voti, 32-30, sul movimentismo del professor Ignazi» e che «la scelta fra sinistra raziocinante e massimalismo anticipa il bivio della sinistra in Italia».
Un dibattito che ha del surreale, liquidando come «movimentismo» e «massimalismo» ogni minimo tentativo del centrosinistra di innovare rispetto alle ricette dell’ultimo trentennio, e che impedisce di affrontare e analizzare seriamente le sfide e le criticità che ogni sinistra ha di fronte oggi. A 15 anni dalla grande crisi del 2008, che spazzò via la prospettiva del neoliberismo progressista e della Terza via blairiana come versione di sinistra della trickle-down economics, come promessa di redistribuzione equa e creatrice di opportunità dei dividendi creati dalla liberazione degli animal spirits del capitalismo, il centrosinistra italiano è rimasto forse l’unico al mondo a non volersi porre in alcun modo il tema di come ricostruire una proposta riformista che prenda atto di quel fallimento e delinei un nuovo patto sociale.
Il paradosso è che l’Occidente del 2023 è caratterizzato dall’emersione di nuove proposte di sinistra riformista, nate proprio in risposta alla crisi del 2008 e in contrapposizione all’ondata della destra reazionaria. Sulle macerie del neoliberismo progressista e della Terza Via emergono nuovi tentativi di costruire una prospettiva di miglioramento graduale delle condizioni di vita della maggioranza delle persone e per una gestione democratica e redistributiva del capitalismo: in alcuni casi li guida il vecchio centrosinistra, fortemente compromesso con il neoliberismo ma costretto a sperimentare nuove forme di redistribuzione e patto sociale dalla presenza di una nuova sinistra, come nei casi del governo Sánchez in Spagna o dell’amministrazione Biden negli Usa; in altri, è direttamente la nuova sinistra a prendere le redini del governo, seppur negoziando con il vecchio centrosinistra come nel caso della presidenza Boric in Cile; in altri ancora si sperimentano, ormai da decenni, forme ibride tra socialdemocrazia, movimenti di base e populismo, come nella vicenda di Lula in Brasile. Prospettive estremamente diverse tra loro, ma caratterizzate dal tentativo di esplorare, in maniera più o meno radicale e più o meno innovativa, lo spazio del riformismo, a sinistra. Ha del paradossale che segua e provi ad analizzare queste esperienze con attenzione Jacobin, ovviamente con lo sguardo critico che caratterizza una sinistra marxista, ecosocialista e di trasformazione, mentre il centrosinistra riformista decide di chiudersi nel rimpianto di un’epoca che non c’è più, liquidando come massimalismo movimentista qualsiasi cosa esca dell’ortodossia anni Novanta.
È un peccato, perché di un dibattito vero sul riformismo e sui suoi limiti ci sarebbe davvero bisogno, a partire appunto dall’analisi critica delle esperienze realmente esistenti. C’è spazio per un nuovo compromesso socialdemocratico nel mondo globalizzato in cui i margini di intervento dello stato nazionale si sono sostanzialmente ridotti? Davvero una diversa gestione e regolamentazione del capitalismo è in grado di affrontare disuguaglianze che in buona parte dell’Occidente hanno raggiunto livelli imparagonabili con quelli dei «trenta gloriosi»? E un’emergenza epocale come quella climatica può attendere i tempi del gradualismo? Queste sono le sfide del nostro tempo, quelle su cui la sinistra ovunque si interroga e su cui si misurano potenzialità e limiti del riformismo. Il riformismo è una risposta all’altezza di un tempo caratterizzato dalle emergenze e da un inasprimento delle condizioni materiali tale da generare un diffuso desiderio di radicalità e scelte nette? Un problema politico, concreto e reale di tutte le sinistre del mondo, nel 2023. Affrontarlo è difficile, non ci sono soluzioni semplici. Ignorarlo, continuando a immaginare che il riformismo sia in eterno quello degli anni Novanta, è una scorciatoia umanamente comprensibile, per chi considera quella fase l’apice della civiltà umana e non ha gli strumenti per elaborarne la fine, ma che difficilmente porterà da qualche parte.
*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino).
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