Il terrorismo dell’uomo bianco
D. è una ragazza afroitaliana. L’assurda normalità del razzismo quotidiano non le faceva considerare la possibilità di essere aggredita. Fino a quando Luca Traini si è messo a sparare per strada e qualcosa è cambiato
È da quasi un anno che la mia migliore amica fa la spola tra l’Italia e l’Inghilterra e ogni volta che torna, mi fa sempre la stessa domanda: «Come fai?».
«A fare cosa», le chiedo io, mentre stravolta da un mezzo sorriso d’intesa giro in un minuscolo lago nero un cucchiaino d’acciaio sottile. È caffè. Arrivato già freddo per mia sfortuna. Ma intanto penso a quanto non debba essere troppo grave berlo a quell’ora del giorno.
Sono le undici del mattino e siamo le uniche ragazze nere sedute al tavolo. La piazza brulica di gente straniera. Napoli, città sempre nuova per me, diventa ogni giorno più turistica e caotica, digerendo sé stessa come uno stomaco che ha smesso di funzionare.
In quel bar del centro che ci siamo scelte per dirci ancora una volta arrivederci, io e Grace ci teniamo la mano, ridendo di intime sciocchezze e cose preziose come fossimo ancora bambine. Ma si vede già da subito che la gente non è abituata a veder sorridere ben due ragazze nere. Tutti in quel piccolo buco arredato di intenti pretenziosi e bottiglie di alcolici ancora sigillate, ci guardano rapiti. Non si pongono nemmeno il dubbio di sembrare maleducati. Guardano i nostri capelli, fissano le nostre mani, il modo in cui siamo vestite, l’atteggiamento, le linee del corpo e del colore.
Due belle ragazze nere da fissare senza ritegno: «Una storia già vista», esclama Grace, dando un sorso lento alla sua limonata. Siamo così abituate a essere squadrate che non sopporto quel senso di rassegnazione interiore. Erutta da dentro e lo avverto, con odio.
«L’ultima volta che ci siamo viste è successo il finimondo, ricordi?» mi domanda lei, tenendo le mani incrociate. Capisco dove vuole andare a parare, senza troppi giri di parole. Vuole parlare di Macerata, della sparatoria, anche se sono passati ormai due anni.
«È successo quella mattina che dovevo prendere l’aereo per Londra, sola andata. Te lo ricordi?».
«Si, lo ricordo», le rispondo con la miglior naturalezza di cui sono a disposizione in casi come questi.
«E non ci pensi mai? Non ci pensi mai a quella cosa?».
«Qualche volta» dico io, fissando distrattamente lo schermo del cellulare.
«Sai, da quando mi sono trasferita, ho ripensato a quella cosa. Ho pensato che fosse una specie di segno, come un messaggio che mi diceva che stavo facendo bene ad andare via».
«Tornatene nel tuo Paese!» le dico, cercando di imitare un accento veneto qualsiasi sentito alla tv. «Sei andata via alla fine e, li hai accontentati. Ma per essere una brava immigrata extracomunitaria dovevi tornartene in Africa e non scappare a Londra».
«Dico sul serio D. Dopo quella volta io ho pensato molto a quello che è successo. All’attentato».
Lo chiama attentato, questa parola mi dà i brividi perché alla tv, nei primi giorni dopo il fatto, lo chiamavano semplicemente «sparatoria». Quando si usa la parola sparatoria, per definire l’aggressione di un uomo fascista ai danni di un gruppo di cittadini africani inermi e incensurati, sembra tutto meno grave. Sembra il gesto di un folle, non il sintomo di una malattia. Attentato invece… attentato è una parola grossa, una roba da 11 settembre, da odio tra due Mondi.
«Ti confesso che quando ho cominciato a vivere davvero quella città, tutto quello che abbiamo vissuto fino a oggi, mi sembrava pazzesco, una specie di incubo».
«In che senso?».
«Nel senso che sembra che tu faccia finta che vada tutto bene, ma non va tutto bene. Ci sparano addosso D., ci ritengono responsabili del tracollo di questo paese. E la storia dei 35 euro? Degli alberghi a 5 stelle? Sai che in Inghilterra i politici, anche se razzisti, non arrivano a dire quello che i nostri deputati dichiarano un giorno sì e uno no?».
«La storia dei 35 euro al giorno ormai è una storia vecchia, passata di moda» le dico cercando di dissipare quell’ansia incalzante che improvvisamente siede proprio qui, al nostro tavolo, e intanto si è messa comoda, in attesa.
«Ora ce l’hanno con le Ong. Finché ci saranno loro, si parlerà solo di questo».
«Ma lo capisci che il punto resta sempre uno: la nostra presenza? Due anni fa ho lasciato questo paese e il giorno stesso un bianco è uscito di casa e ha cominciato a sparare ai neri. Potrebbe succedere di nuovo, basta un pretesto piccolo così. Ti ripeto, come fai a vivere in questo modo? Sapendo che il solo fatto di avere origini straniere potrebbe spingere qualcuno a picchiarti o spararti? È assurdo! Me ne sono andata anche per questo!».
È evidente che io e Grace, viaggiamo su due binari differenti. Lei ha assaggiato un po’ di civiltà, un mondo dove il razzismo c’è ma esiste anche una risposta che non matura per forza nel calderone del pietismo o del paternalismo. Lì, le notizie sono annunciate anche da giornalisti neri, mentre qui in Italia fanno ancora scalpore le storielle su immigrati africani che restituiscono portafogli perduti a ricchi imprenditori italiani. Vedo dai suoi occhi pieni di livore che la rabbia che prova verso ciò che si è lasciata alle spalle colpisce anche me e la mia abitudine a quel tipo di barbarie. Ma quando è successo? Quando ho cominciato a sperare che si parlasse di Ong e dei peli di Carola Rakete pur di non continuare a sentire la solita retorica su migranti e barconi? Quand’è che ho smesso di provare sorpresa per tutte le volte che in notiziari e talk show politici si parlava di immigrazione con una retorica da caccia alle streghe?
Vivo in un paese che non lascerei mai, ci sono nata dopotutto e non conosco altro. Eppure non mi sconvolge la sua continua voglia di mettermi alla porta o eliminarmi dal panorama della linea del colore.
Non so che dirle. Non so come difendermi dalle accuse di Grace. Restiamo in silenzio per un tempo che mi sembra impossibile ed eterno insieme. Ripercorro la mia infanzia, le infinite croci celtiche, svastiche e slogan lasciati sulle pareti degli autobus e delle strade. «Via da qui», «Tornate a casa vostra», «Italia agli italiani». «Viva la pulizia etnica».
Non c’è più differenza tra quelle parole estranee e il tuo corpo. Non la sento più.
Il corpo di un africano è un corpo politico. Il mio corpo di donna africana lo è altrettanto. Di che devo meravigliarmi ancora? Dove è nascosta la meraviglia che qui mi viene richiesta?
E poi, poi viaggio ancora indietro nella memoria, ai tempi in cui mi importava ancora di qualcosa. Cerco l’istante preciso in cui ho avuto davvero paura di vivere in questo paese ed è un attimo inconfessabile che vedo, nei corpi di sei africani uccisi dalla Camorra, nel giorno che si festeggia il santo patrono del proprio sangue: San Gennaro. Sembra sempre che sia appena successo. Mi fa stare male. Sono davvero sorpresa di quanto faccia male.
Ma poi come succede sempre, imparo a mettere da parte, a dimenticare. Dopotutto devo vivere, devo andare avanti.
Perchè in fondo siamo sole, io e Grace. Da un lato lei, col suo orgoglio ritrovato fuori dalle patrie galere. Dall’altro lato io che resto sgomenta per quell’assenza di paura che l’abitudine alla paura stessa crea nella forma di una frattura interiore. Quando si è neri e si vive nell’Italia della Lega, delle sparatorie e dei barconi che si vorrebbero far saltare in aria, con la gente ancora sopra.
Il treno che porterà Grace verso l’aeroporto partirà tra non molto. Tutto quello che desidero è vederla andare via e tornare alla mia normalità. La normalità del razzismo non percepito, dimenticato, ignorato. La normalità che mi permette di vivere in mezzo alla gente razzista, senza pensare alla costante possibilità di essere ammazzata o aggredita.
Forse per lei, quella tragica coincidenza che la vedeva in fuga dall’Italia lo stesso giorno in cui Luca Traini decise di sparare a dei neri a caso, è stato il suo personale anno zero. Il punto di non ritorno che rese anormale quella cosa brutta e violenta chiamata normalità. Ma io non voglio che sia così anche per me. Non voglio un altro anno zero da dimenticare.
E poi, come un fulmine a primavera, sento il cigolìo di una porta che si apre. Una ragazza di etnia rom, giovanissima, entra in quel piccolo ecosistema apparentemente pacifico. Trascina tra le braccia magre un bambinone di appena un anno. Dorme. Grace ha il cellulare tra le mani, controlla l’orario dei treni, forse è in ritardo, teme di non arrivare per tempo. Non si accorge di nulla. Nè della ragazza né della gente intorno.
Come prima cosa la giovane chiede un caffè e il pacco di biscotti in vetrina. È palese che il barista l’abbia sentita e invece finge di non averla nemmeno vista, le mani impegnate in un lento strofinare di bicchieri in vetro e cucchiaini. Alle mie spalle due ragazzini di sedici anni appena cominciano a fischiare, a dirle a mezza bocca di andarsene fuori, e di portarsi via la puzza di immondizia che ha portato dentro. Non ci avevano neppure notate, né me né Grace, ma la ragazza rom sì che aveva risvegliato quel calore, quel tremore primitivo che avevo visto così tante volte nella mia vita da essere di casa nella mia memoria.
Sono sconvolta, scioccata, non mi sembra vero che le abbiano detto sul serio di andare via. E che puzzava. Ma la ragazza non demorde, vuole il suo caffè, i biscotti per il bambino e ha i soldi per pagare. In un portafoglio di stoffa consumata piena di spiccioli.
«Un caffè e dei biscotti, per piacere» ripete senza battere ciglio.
«A chi li hai rubati questi? Eh? Oggi i vecchietti vanno a prendere la pensione. Vi fate dei bei soldi, voi zingari, oggi, è vero?». Le parole sono scandite con lentezza, ogni lettera è un colpo su una campana, ogni parola carica di calore la gente seduta ai tavoli.
Il bambino si sveglia, piange, la gente si agita ancora di più. Come se quella presa di posizione del barista, fatta alla luce del sole e senza ripercussioni, li abbia resi tutti partecipi di quel tribunale popolare. La zingara, la rom, la rumena, la ladra, deve andare via ed essere condannata a vita.
A sedici anni nemmeno mio cugino era così alto e forte. Questi ragazzi hanno corpi da uomini, corpi che ti possono fare male, che possono tutto, contro di te. Ed eccola, tornata nel mio petto come una vecchia ferita di guerra, la paura.
Ho paura. Di nuovo. Vedo già le botte, le urla, un bar intero di italiani bianchi pronti al linciaggio.
Scopro in quel preciso istante che c’è qualcosa che gli italiani odiano più dei migranti africani: gli zingari.
Lo posso sentire, avvertire in maniera sensibile, nella forma di un respiro collettivo, assetato di sangue, di voglia di rivalsa e vendetta per tutte quelle volte che ognuno di loro ha sentito di furti in casa o anziani picchiati dai ladri.
Sta per succedere. Grace non si è accorta di nulla. Dovrebbe vedermi adesso e chiedermelo ancora: come fai a vivere qui? Sono terrorizzata perché nonostante si cerchi di fuggire, la paura di essere umiliata e discriminata è sempre intorno a te. Qui, ora e per sempre. Mi tremano le gambe. Forse sta arrivando, proprio adesso, il mio anno zero. Il mio punto di un non ritorno. E credo che questa volta non potrò dimenticare.
*Elaija Emanuela Osei, nata nella provincia di Caserta, è una scrittrice e cantante italo-ghanese. È coautrice dell’antologia Future. Il domani narrato dalle voci di oggi (Effequ, 2019) con lo pseudonimo di Djarah kan.
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