Il volto feroce del fascismo
A Torino cento anni fa, dal 18 al 20 dicembre 1922, i fascisti uccisero impuniti numerosi oppositori. Fu la dimostrazione che il volto legalitario del regime nascente era indistinguibile dal profilo criminale
Esordisco con una provocazione: inizia a fare una certa impressione, anche se non dovrebbe, avere una piazza intitolata a delle vittime del fascismo, e non a dei fascisti.
Una considerevole parte dei «segni» commemorativi del Ventennio, monumentali e odonomastici, infatti, inquina ancora il panorama della penisola. Se la fondamentale mappatura dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri quest’estate aveva già catalogato circa seicento luoghi, tra nomi di vie e monumenti, come anticipato su Jacobin dalla coordinatrice del progetto, la storica Giulia Albanese, mentre scrivo – metà dicembre 2022 – le occorrenze rilevate dal portale I luoghi della memoria dell’Italia fascista, continuamente aggiornato, sono ormai ben 1.456. Come scrivono la stessa Albanese e Lucia Ceci, curatrici de I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione (Viella, Roma 2022), nel passaggio tra XX e XXI secolo «il lascito di costruzioni del Ventennio è molto consistente e induce a riflettere sui modi diversi con cui la società italiana convive con simboli e miti di un’Italia che non esiste più […]. Nell’Italia di oggi, a cent’anni dalla nascita del regime, le difficoltà di storicizzare e risemantizzare i luoghi del fascismo sono un segnale delle oscillazioni in cui versa il paese nei suoi riferimenti identitari».
A questo proposito, allo scoccare del centenario della «strage di Torino», conviene tornare sugli eventi e sui significati che uno dei più atroci fatti di sangue del «biennio nero», in realtà immediatamente successivo, svela ancora oggi. Partendo proprio da un luogo, piazza XVIII dicembre, per consuetudine (a mio modo di vedere inelegante, in questo caso) scritto in numeri romani, in pieno centro del capoluogo piemontese. La matrice di questa denominazione la si trova nella decisione del comune di Torino, tra il 1945 e il 1946, di avviare sessanta nuove intitolazioni o sostituzioni: l’elenco diramato a pochi mesi dal termine del secondo conflitto mondiale si apre proprio con piazza San Martino, che diventa così «piazza XVIII dicembre» nell’anno in cui viene anche posta una lapide in memoria delle vittime della strage; è ancora lì, all’angolo tra la piazza e via Cernaia, a pochi passi dall’ex ingresso della stazione ferroviaria di Torino Porta Susa, con la canonica scritta «Ai martiri dell’eterna libertà». La data, per chi ha familiarità con gli eventi di quegli anni sul piano nazionale ma non con questo specifico fatto di sangue locale, non può non saltare all’occhio: perché il 18 dicembre, con il fascismo al potere da oltre un mese e mezzo? Perché una strage, e perché a Torino?
La violenza endemica, le spedizioni punitive
La ricostruzione di quei giorni, opera di Barbara Berruti, ora direttrice dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea Giorgio Agosti, si può leggere nel volume La nascita del fascismo a Torino. Dalla fine della Grande Guerra alla strage del XVIII dicembre 1922 (Edizioni Del Capricorno, Torino 2020) firmato con Bruno Maida, che ne indaga la difficile memoria, e da Nicola Adduci, che ne ricostruisce le premesse e che è anche autore del saggio Gli altri. Fascismo repubblicano e comunità nel Torinese (1943-1945) (FrancoAngeli, Milano 2014), pietra miliare degli studi sui «venti mesi» terminali di questa storia che rivela, tra le altre cose, il viscerale rapporto con la violenza dei fascisti torinesi sul medio-lungo periodo e la progressiva estraneità, che diventa alterità e infine aperta ostilità, rispetto alla popolazione locale.
È un’alterità, questa, che viene da lontano. I fascisti locali e le loro anime in costante conflitto non sono mai riusciti per davvero a entrare nel tessuto politico-sociale cittadino: nell’ottobre 1920 gli iscritti al fascio a Torino, definito il «secondogenito» dopo quello di Milano, sono appena 188, mentre nella medesima città, pochi mesi dopo, la federazione locale del neonato Partito comunista d’Italia conta 3.772 iscritti, in una città solidamente antifascista e con una forte anima operaia.
Tra il 1919 e il 1921, in un contesto di endemica violenza che vede ventisei vittime in un anno e mezzo, gli agguerriti fascisti torinesi paiono trarre linfa vitale dal sangue che fanno scorrere. Le «spedizioni punitive», sempre sproporzionate e assai poco attente a colpire degli effettivi «nemici» politici, si susseguono per il «biennio nero» con una regolarità impressionante, alternate da devastazioni, saccheggi e incendi dei locali della socialità e dell’attività politica della galassia socialista, comunista e sindacale, con la Camera del Lavoro regolarmente distrutta.
Come rileva Adduci una cesura, in questo senso, è rappresentata dal raid che la colpisce nella notte tra il 25 e il 26 aprile 1921 (e che vede la morte di un fascista e di un portinaio), opera di una trentina di squadristi convocati dall’ardito ed ex tenente dei bersaglieri Piero Brandimarte, che mette in luce «forse per la prima volta in forma così chiara, la connivenza dei vertici delle forze dell’ordine con i fascisti che per quasi un’ora hanno potuto condurre indisturbati un’azione di guerra in pieno centro», e che anticipa di pochi giorni la consacrazione definitiva di Cesare Maria Devecchi – dal 1925 sarà De Vecchi – come leader del fascismo torinese; tale resterà per tutto il «biennio nero» fino alla Marcia su Roma e oltre.
A partire dal 26 aprile 1921, nei diciannove mesi successivi, in nove episodi distinti, a Torino muoiono, vittima della violenza politica, undici persone mentre il venire meno del «pericolo rosso» pare «confinare sempre più il fascismo torinese – scrive ancora Adduci – in un’imprevista dimensione di normalità, fatta di riunioni politiche e di ricorrenze, un aspetto che crea disagio in quei settori del partito che hanno fatto della violenza uno stile di vita a cui non vogliono rinunciare». Infatti così non sarà.
Forse non è un caso che l’apice di questa stagione lo si tocchi, nel capoluogo piemontese, dopo la presa del potere del fascismo, anche in virtù del fatto che, nonostante la Marcia su Roma, la presa su Torino sia di fatto irrilevante. Questa volta le undici vittime, tutte assassinate dai fascisti, sono concentrate in poco più di due giorni, dalla tarda mattinata del 18 dicembre al tardo pomeriggio del 20. È una mattanza, i cui dettagli sono a dir poco raccapriccianti.
18-20 dicembre 1922: i fatti
Lunedì 18 dicembre il quadrumviro Devecchi è assente, perché ha appena partecipato alla prima seduta del Gran Consiglio del Fascismo che, due giorni prima, ha discusso la fondazione della «Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale», per poter controllare – e, in parte, imbrigliare – la violenza squadrista. Il pretesto, anche in questo caso, è la morte di un fascista in seguito a uno scontro a fuoco nella notte del 17 dicembre, in Barriera di Nizza. L’indomani, alla notizia del decesso di Giuseppe Dresda – un altro, Luigi Bazzani, morirà un giorno dopo –, sui muri della città appaiono dei manifesti firmati da Brandimarte che invitano i fascisti torinesi a non piangere i morti, ma a vendicarli. Le forze dell’ordine diventano invisibili e mute di squadristi invadono i quartieri operai. Si dice abbiano un elenco di 24 persone, scelte tra 3.000 nomi ritenuti pericolosi.
«La rappresaglia – scrive Barbara Berruti – si abbatte su luoghi e persone simbolo della non acquiescenza al nuovo potere, e al contempo è esercitata nel rifiuto di quella legalità a cui proprio il nuovo potere sembra voler ridurre lo squadrismo»; «Non esistono più luoghi sicuri, né i circoli, né le osterie, né le abitazioni private: i fascisti si comportano come un esercito occupante».
Il primo a morire è il ferroviere Carlo Berruti, quarantenne, comunista e membro del Consiglio comunale, trascinato in campagna e assassinato con cinque colpi di pistola alla schiena, mentre alla fine della giornata il cadavere dell’anarchico Pietro Ferrero viene riconosciuto solo grazie alla tessera della Croce Verde che ha in tasca, perché gli hanno sparato due volte in faccia, e si contano i morti. Sono otto, due dei quali ammazzati «per sbaglio»:
[…] l’esercente Leone Mazzola è stato ucciso a colpi di rivoltella e di pugnale per avere protestato contro l’irruzione arbitraria nel suo locale. È un informatore della polizia, probabilmente ha pensato di potersi opporre senza grossi rischi a un uso della forza così indiscriminato. Giovanni Massaro, un ex manovale ferroviario, muore più o meno alla stessa ora, ma in altro luogo, presso la cascina Maletto, una località isolata al numero 142 di via San Paolo, assassinato con tre colpi alla nuca. Non è un militante politico: viene raggiunto nel corso di un inseguimento e ucciso perché scambiato per un’altra persona. I fascisti sono alla ricerca di obiettivi specifici, uomini di cui conoscono nome, cognome e spesso l’indirizzo. Ma se i dati anagrafici sono noti, quasi mai lo sono i volti; le strade sono buie, le case dei sospetti spesso vuote. Le camicie nere restano nei pressi delle abitazioni segnalate, perquisiscono i passanti, tutti possibili sospetti, bastonano, somministrano olio di ricino. Molti sono i contusi e i feriti di quei giorni, colpiti da armi da taglio o da pallottole, spesso per errore.
Solo verso sera la ricerca casa per casa comincia a dare qualche risultato. Le vittime designate vengono sorprese nelle loro abitazioni, anche alla presenza di familiari, a loro volta costretti ad assistere e a subire violenze. In qualche circostanza sono assassinate nel luogo della cattura, più spesso vengono trasferite in località fuori mano. Non ci sono regole condivise sulle esecuzioni, ma in quasi tutti i casi c’è un eccesso di violenza, un surplus di accanimento, che conduce a delitti efferati, favoriti con ogni probabilità anche dalla sensazione d’impunità che, con il passare delle ore, si fa sempre più forte.
Quel giorno vengono uccisi anche il tranviere Matteo Chiolero, freddato in casa davanti alla figlia di due anni e mezzo, e Andrea Chiomo, disertore della Prima guerra mondiale, assassinato mentre gioca a carte con un amico che scampa la morte per un pelo grazie al fortuito passaggio di una pattuglia della polizia, a dimostrazione che l’intervento delle forze dell’ordine avrebbe potuto – ça va sans dire – impedire la strage. Nella notte i fascisti uccidono anche l’operaio Emilio Andreoni e l’ex operaio Matteo Tarizzo. Il giorno dopo tocca ad Angelo Quintaglié, ex carabiniere e usciere, e a Cesare Pochettino, del tutto estraneo alla politica: la situazione è palesemente sfuggita di mano. L’ultima vittima è Evasio Becchio, meccanico comunista, «arrestato» in un’osteria e fucilato su un ponte in costruzione. La comunità torinese è terrorizzata.
Presenti, assenti
I funerali fascisti di Dresda e Bazzani – scanditi dall’eterno «Presente!» – sono un rito magniloquente, un martirologio in grande stile cui seguiranno, negli anni seguenti, la posa di una lapide – nel 1926 – e di un monumento – nel 1933 – oltre all’intitolazione di due vie. Nessun corteo, invece, né per il consigliere comunale Berruti né per le altre dieci vittime della strage: a parte i funerali di Tarizzo, gli unici partecipati, tutti gli altri morti sono sepolti in silenzio e in alcuni casi, di fatto, in clandestinità. Torino è diventata, in un lago di sangue, una città fascista. O almeno così deve apparire.
La strage è condannata da Mussolini in persona, irritato per non avere sotto controllo la situazione, e viene ordinata un’inchiesta che, come prevedibile, si concluderà con un nulla di fatto. Quattro giorni dopo, anzi, re Vittorio Emanuele III concede un’amnistia generale, rendendo la flebile richiesta di giustizia poco più che una barzelletta. Cesare Maria Devecchi, tornato nel frattempo a Torino, il 31 dicembre rivendica al contrario l’uso della violenza per «punire e purificare»: dato il suo potere assoluto sul fascismo torinese e alla luce di questi «eccessi», si decide di sciogliere il Fascio torinese ma si affida la sua ricostituzione… allo stesso Devecchi. Tutto cambia perché nulla cambi, per dirla gattopardianamente; à propos: quanto a Brandimarte, regista della strage, un mese dopo viene posto a capo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale di Torino.
Il fascismo «legalitario» e quello squadrista dimostrano, se ce ne fosse bisogno, di poter vivere in armonia, al di là dei conflitti che vanno e vengono; d’altra parte nella sola capitale e nei soli giorni successivi alla Marcia le vittime della violenza politica sono 19, e nei primi cinque mesi di governo Mussolini i morti per mano fascista, come avrebbe denunciato Gaetano Salvemini, non meno di 118.
Cancellare, dimenticare, riscrivere
A Torino nulla di significativo accade negli anni, anzi nei decenni, successivi. La strage viene cancellata a forza dalla memoria pubblica – cancel culture, questa sì – e ogni tentativo anche privato di coltivare il proprio lutto stroncato con la forza, mentre monta la repressione del dissenso negli stessi quartieri, nelle stesse reti amicali, nelle famiglie, nella città che diventerà il capoluogo della «Vandea partigiana», così Mussolini definirà il Piemonte vent’anni più tardi.
A parte alcune eccezioni – come interventi apparsi su L’Unità e L’Avanti! e il volume dell’avvocato Francesco Repaci La strage di Torino, pubblicato nel 1924 e ristampato nel 1943, dopo la caduta del regime (poi intitolato Terrorismo fascista) – bisognerà aspettare ventitré anni perché la città possa tornare a ricordare quel massacro. Ma ci si fermerà lì, perché la continuità dello Stato, nell’immediato dopoguerra, è particolarmente capillare nella magistratura. E le vicende giudiziarie correlate al 18 dicembre non fanno eccezione.
Come ricorda Bruno Maida su Doppiozero, infatti, Piero Brandimarte «viene prima condannato nel 1950 e due anni dopo in Corte d’assise d’appello assolto per insufficienza di prove», tornando così libero. «Per vent’anni, il maggiore responsabile diretto di quella strage (ma certo non l’unico) può vivere tranquillamente a casa sua». E nessuno sarà chiamato a rispondere della «strage di Torino», di quell’evento di cent’anni fa in cui il fascismo mostrò di che pasta era fatto, e che fine faceva chi anche solo osava immaginare di provare a ostacolargli il cammino. O chi, sia ricordato, in quel momento ebbe la sfortuna di trovarsi in un luogo in cui le orde di squadristi stavano passando, cercando qualcuno.
*Carlo Greppi, storico e scrittore, è curatore della serie Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti di Editori Laterza, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente (2020). Tra le sue più recenti pubblicazioni, 25 aprile 1945 (Laterza 2018), La storia ci salverà. Una dichiarazione d’amore (Utet 2020) e Il buon tedesco (Laterza 2021, Premio FiuggiStoria 2021). È inoltre autore di un manuale per il triennio della scuola secondaria superiore di secondo grado (Trame del tempo, di C. Ciccopiedi, V. Colombi, C. Greppi, M. Meotto [Laterza 2022]), del quale firma il terzo volume: Guerra e pace. Dal Novecento a oggi.
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