
All’armi siam fascisti
Dalla prospettiva storica della Marcia su Roma si scorgono molte differenze con l'oggi. Ma si afferra anche la natura stabilizzatrice del fascismo e l'archivio di discorsi e politiche cui attingere alla bisogna
L’irruzione della fiamma di Fratelli d’Italia ai piani alti della politica italiana, con Giorgia Meloni forza trainante della coalizione della destra, conduce all’automatismo mentale che ha caratterizzato il ventennio di Silvio Berlusconi: trattasi di anomalia, dicono i detrattori, che ci condurrebbe al di fuori dei consessi continentali e atlantici: «Il primo premier di un grande paese europeo che non viene né dalla famiglia dei popolari né da quella dei socialisti».
Questo numero di Jacobin Italia assume una prospettiva storica sul fascismo italiano, a cento anni dalla Marcia su Roma. Da quel passaggio fondamentale, e dal farsi regime del movimento mussoliniano, si scorgono diversi elementi e molte differenze con la situazione attuale. Ma si afferra anche la natura stabilizzatrice del fascismo: lungi dall’essere una forza estemporanea che sconvolge lo scenario, appare come elemento pacificatore, che annulla i conflitti e consente di governare le situazioni di crisi. Dunque, se è vero che il fascismo non ritorna cent’anni dopo sic et simpliciter, bisogna riconoscere che esiste un archivio di pratiche discorsive e di politiche discriminanti e violente cui attingere alla bisogna. Si tratta di concetti che hanno attraversato il secolo che ci separa dalla Marcia su Roma e che ancora una volta sono del tutto compatibili con le esigenze del capitalismo in crisi: le destre italiane che si affacciano al governo sono conciliabili con la nostra collocazione internazionale e il sovranismo utilizza la nazione per meglio governare i processi di ristrutturazione, escludendo dall’orizzonte qualsiasi forma di solidarietà e giustizia sociale.
Il punto di partenza è che siamo arrivati fin qui dopo decenni di normalizzazione del discorso fascista. Come spiega Carlo Greppi, il progetto revisionista parte da lontano, ha intrecciato il linguaggio delle estreme destre e quello di molti opinionisti mainstream (si pensi ai libri-panettone di Bruno Vespa). Giulia Albanese, dialogando con Bruno Settis, sottolinea come lo snodo della Marcia su Roma sia ancora oggi un modo per riconoscere la crisi della democrazia e le alternative possibili al regime. Francesco Filippi prosegue chiedendosi appunto come mai il fascismo oggi non crei alcuna forma di allarme in ampi settori della società italiana. Il caso delle Foibe, e della Giornata del ricordo istituita su iniziativa della destra postfascista, è per Eric Gobetti paradigma di come il controllo del passato venga utilizzato per ridefinire il presente. E anche Davide Conti, indagando i paradossi e le contraddizioni del Calendario civile del nostro paese, mette in luce le rimozioni e l’addomesticamento del passato da parte della politica. A proposito di memoria, Tommaso Speccher ricostruisce il caso tedesco e il contrastato rapporto con il nazismo.
Enzo Traverso cerca di cogliere con una prospettiva storica le differenze tra fascismo e postfascismo, indagando anche la relazione che hanno con la violenza e con l’establishment. Luca Casarotti riprende il dibattito sul fascismo eterno tra Umberto Eco ed Emilio Gentile proprio per indagare l’opportunità di estendere il concetto di fascismo: rivela che il semiologo e lo storico sono meno distanti di quello che sembra. Prendendo a prestito un concetto di Furio Jesi, Enrico Manera indaga la natura della macchina mitologica del fascismo. Ma è utile anche capire, come avviene nella discussione tra Giacomo Gabbuti e Chiara Giorgi, come la forma dello Stato sociale costruita dal regime serviva a controllare e disciplinare e ha proiettato la sua ombra fino agli anni della Repubblica. Stessa cosa per la pianificazione industriale e per l’idea stessa di capitalismo che si è andata sviluppando nel Ventennio, come spiegano Alessio Gagliardi approfondendo il ruolo dell’intervento statale e Alessandro Brizzi applicandosi sul rapporto tra regime e industriali. Clara E. Mattei addirittura segnala che già Mussolini prevedeva l’elogio dei «tecnici» in grado di aggirare i conflitti tipici della dimensione politica.
È interessante poi, come fa Valeria Deplano, osservare il fascismo dalla prospettiva delle colonie, che preesistevano al regime ma che rappresentarono il tentativo del duce di sperimentare la società ideale fascista. Da questo punto di vista ci viene in soccorso la letteratura: Igiaba Scego ripercorre i romanzi italiani che si occupano di colonialismo e scopre che in ognuno di essi al fenomeno coloniale corrispondono forme di violenza maschile spesso rimosse o in cerca di giustificazione. Sempre da una prospettiva di genere, Alessandra Gissi evidenzia come l’insistere ossessivamente su una presunta famiglia naturale da parte degli eredi attuali del fascismo derivi dall’insistenza del regime nel controllo dei corpi e della moralità. Simona Colarizi infine illustra le cause scatenanti la mobilitazione antifascista: come fu che una generazione a un certo punto prese coscienza.
In un certo senso si parla di crisi e di gestione dei conflitti anche nella sezione della rivista che propone una selezione degli articoli tratta dal numero 46 dell’edizione statunitense di Jacobin, dedicato all’inflazione. Prima di tutto una suggestione allegorica al centro del nostro inserto apribile illustrato da Irene Rinaldi: i famosi personaggi e le ambientazioni de Il meraviglioso mago di Oz rappresentano la campagna che alla fine dell’Ottocento si sviluppò negli Stati uniti contro l’inflazione e a favore dell’espansione della produzione di moneta. Nel suo accurato saggio, del resto, Doug Henwood evidenzia che l’inflazione ci riguarda perché ripropone nodi del conflitto di classe che sono stati trascurati o che non hanno avuto modo di sciogliersi nel corso delle lotte. Di conflitti rimossi in qualche modo ci parla anche Ryan Zickgraf nel suo testo sulla grande bolla delle criptomonete. Jared Abbott, numeri alla mano, sostiene che l’inflazione tende a favorire politiche conservatrici e indebolire i sindacati, anche se in alcuni casi ha dato vita a sommosse che hanno aperto spazi a sinistra. Nora De La Cour riporta le storie di persone comuni che sono finite sul lastrico: segno che non si tratta solo di vicende macroeconomiche ma della carne viva della nostra società.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.