Imparare tecniche di liberazione
Da apparato ideologico di stato quale era, la scuola oggi rischia di diventare uno strumento di conformismo verso la riproduzione del potere. Per metterla in discussione bisogna riprendere le analisi dei pedagogisti critici
Nel 1946 si svolge la prima edizione del festival di Cannes. Il clima anche ecumenico dell’Europa postbellica fa sì che i film in concorso siano quasi cinquanta, e che i premi della giuria vadano a undici film. La maggior parte delle pellicole tratta della resistenza, della guerra appena finita; tra i premiati c’è Roma città aperta di Roberto Rossellini.
C’è anche un film sulla scuola, Spasimo (Hets in lingua originale): l’ha girato il regista svedese Alf Sjöberg, l’ha scritto un ventiseienne Ingmar Bergman al suo primo lavoro cinematografico, e mette in scena il rapporto tra un professore di latino e la sua classe di liceo dell’ultimo anno. Il professore è un personaggio sadico: spaventa e maltratta gli studenti che l’hanno soprannominato Caligola e ne subiscono la brutalità senza riuscire a difendersi. Ma il suo essere demoniaco non si limita al suo crudele autoritarismo; abusa di una giovane ragazza, Bertha, è un manipolatore, meschino, bugiardo, ha simpatie naziste, come si capisce dal giornale che legge, il Dagposten. Inoltre Sjöberg e Bergman l’hanno immaginato fisicamente come una controfigura del capo della Gestapo, Heinrich Himmler: occhialini e baffo azzimato. Il suo antagonista è Jan Widgren, uno studente coraggioso, che non si piega alle angherie di Caligola e che per questo viene da lui particolarmente vessato. Widgren è anche innamorato di Bertha, la quale ha paura a sottrarsi ai tormenti del professore, e cerca in Widgren (a cui non rivela il nome dell’uomo con cui ha una relazione tossica) complicità e protezione. Spasimo è un meraviglioso melodramma espressionista: Bertha muore per un infarto dopo aver bevuto fino allo stremo con Caligola, che viene accusato da Widgren di averla uccisa, ma la fa franca. Il ragazzo, furioso, in un confronto con il professore gli sferra un pugno, e viene espulso da scuola, non si diploma e lascia anche la casa dei genitori. Nell’ultima scena il preside della scuola va a trovare Widgren che si è sistemato da solo nella spoglia casa di Bertha.
P. Non ti piaceva la scuola vero? O meglio non ti riuscivi a adattare. Non è così? Questo posso capirlo. Il sistema della nostra scuola non è per tutti.
W. Che cosa vuole? Criticare la scuola non serve a nulla.
[…]P. Io vorrei aiutarti con i tuoi problemi caratteriali, ma quelli li dovrai risolvere invece tutti da solo. Ma c’è un’altra cosa che dev’essere risolta, della quale mi sento in parte responsabile.
W. Oh… E di che si tratta?
P. Tu ti sei subito isolato dalla società. Stai scappando via nella tua disperazione. Per quanto strano possa sembrare la colpa è della scuola. Vorrei fare qualcosa: non posso cancellare l’espulsione. Ma prometto di fare il possibile per aiutarti in altri modi.
Spasimo è un film sulla scuola che ha qualcosa di eccezionale: ritrae un professore cattivo senza nemmeno contrapporgli un contraltare, e soprattutto inquadra la scuola come parte integrante di una comunità che educa all’autoritarismo. Insegnanti dispotici da una parte, ragazzi automi dall’altra: è molto evidente quanto Sjöberg e Bergman vogliano mettere in luce come i sistemi di educazione autoritari abbiano favorito l’avvento dei fascismi. Per questo Spasimo è anche un film che viene notato e citato da uno dei primi sociologi che affronta la questione dell’ideologia di massa nella fase postbellica, David Riesman, in Folla solitaria.
Nel recente film svedese Torment [il titolo americano di Spasimo] vediamo che questi modelli sono ancora all’opera sulla scena contemporanea. Insegnanti e genitori si dividono il compito di instillare i valori autoritari. La parte del cattivo è impersonata da un insegnante ginnasiale severo, autoritario e nevrotico. Tutti i ragazzi lo odiano, alcuni lo temono; nessuno studente, con un minimo di rispetto per sé stesso, si sognerebbe di stringere amicizia con lui, malgrado i suoi sforzi impacciati. Il protagonista principale è un ragazzo che, pur non volendolo, viene spinto a ribellarsi dall’insegnante. Egli e i suoi compagni soffrono, ma né i genitori né gli insegnanti si intromettono nella loro esistenza; essi possono godere di una certa intimità sia fra di loro sia con le ragazze fintantoché non vengano seriamente infrante le regole del decoro. Tale ribellione, indipendentemente dall’esito, è parte del processo di sviluppo del carattere autodiretto.
Riesman ritiene che nella società statunitense degli anni postbellici stia avvenendo un cambiamento molto rapido: da una società dove i meccanismi di potere sono espliciti a una società dove invece sono nascosti e embedded nelle nuove ideologie.
Come si passa dall’autoritarismo alla democrazia? Quali sono i pericoli che le democrazie corrono rispetto alle nuove forme di potere? Su quali basi si crea un nuovo sistema scolastico che superi il disastro dei sistemi educativi autoritari?
Il rischio più evidente è quello di avvalorare sistemi che incoraggiano un adattamento acritico alle trasformazioni sociali, e che la scuola finisca per essere, da apparato ideologico di stato (come scriverà Louis Althusser), uno strumento di conformismo nei confronti della riproduzione del potere.
Scrive Lamberto Borghi:
David Riesman aveva evidenziato la responsabilità sociale della crisi dell’educazione progressiva. Una società, quale l’americana avanzante sotto l’insegna dell’eterodirezione, dava impulso alla diffusione, sul piano educativo, di un tipo eterodiretto di insegnante e di alunno. Gli insegnanti sono stati educati alla persuasione che è «loro compito di avere cura piuttosto dell’adattamento sociale e psicologico del fanciullo che dei suoi progressi accademici, e più ancora a identificare le capacità intellettuali come segni di disadattamento sociale». Ed è così che «al fanciullo eterodiretto» si richiede soprattutto di essere attento ai rapporti di gruppo, a divenire socialmente accetto.
Ci suona familiare? Ci suona familiare rispetto a tutto il dibattito recente sull’ideologia del neoliberismo? E siamo ancora negli anni Cinquanta. Paul Goodman articolerà questo discorso nel 1960 in Growing up absurd (tradotto da Einaudi nel 1971, Gioventù assurda) in cui sarà chiaro qual è il tema politico per la scuola e non solo nel Sessantotto: quello dell’autorità e della sua legittimazione. Come si mette in discussione quel sistema implicitamente autoritario, di riproduzione dell’autorità e del classismo che è spesso il sistema scolastico? Pierre Bourdieu e Jean Claude Passeron cominceranno a lavorare sullo stesso tema nel 1964, con la pubblicazione di Les héritiers, tradotto I delfini in italiano da Guaraldi, e poi La reproduction (La riproduzione) edito nel 1971. In Italia nel frattempo usciranno Lettera a una professoressa (1967) di don Lorenzo Milani ma anche Le vestali della classe media di Marzio Barbagli e Marcello Dei (1972).
Goodman, Riesman, Borghi, Passeron, Bourdieu, Barbagli, Dei… Questi sono testi che andrebbero presi nel canone minimo di discussione di politica e scuola, nella formazione politica minima tout-court, e che invece non sono letti né ristampati. Persino di don Milani abbiamo oggi spesso una vulgata mediocre se non strumentale e velenosa; abbiamo dovuto attendere il lavoro di Vanessa Roghi di storia culturale sulla ricezione del prete di Barbiana, La lettera sovversiva (Laterza, 2018), per avere un punto fermo in questo dibattito.
Non possiamo limitarci a indignarci ogni settimana per gli editoriali ributtanti di Ernesto Galli Della Loggia o di Paola Mastrocola se non costruiamo una bibliografia alternativa su cui formarci, e se non capiamo che in quella bibliografia alternativa dobbiamo cogliere soprattutto lo strumentario radicale di quelli che tra i pedagogisti hanno identificato gli aspetti politici della questione educativa, e di chi tra i politici ha capito l’importanza della questione pedagogica.
In Totò e i re di Roma del 1951, Ercole Pappalardo – il personaggio interpretato da Totò – è un archivista capo ministeriale. Sta aspettando la promozione (o la nomina a cavaliere) per un avanzamento di carriera e di stipendio, ma per una serie di guai si ritrova invece a rischiare il posto. In questa parabola tragicomica, si scopre che non ha nemmeno la licenza elementare per cui deve sostenere l’esame a cinquanta e passa anni. Totò si presenta davanti la commissione platealmente impreparato, s’impappina con ogni domanda («Sa che cos’è una pila?», «Chi è stato l’inventore della pila elettrica?», «Conosce Il bove di Carducci?», «Conosce qualche parola italiana che comincia con l’acca?»), compresa quella sui nomi dei re di Roma che danno il titolo al film. La commissione è intransigente, non c’è verso di promuoverlo («Le abbiamo fatto domande da bambini»).
All’improvviso il film cambia tono e Totò si produce in un accorato monologo:
Mi dovete bocciare. Mi avete fatto domande da bambini, è vero, ma questo è il guaio, cari signori, io non sono più un bambino, uno come me che ha una casa da mantenere, una famiglia e una moglie, e pochi soldi al mese, uno come me che quando apre il giornale legge con raccapriccio che il gas e la cicoria sono aumentati, si sente disperato. Cosa volete che sappia di parole con l’acca, di Bove… Domandatemi piuttosto quanto costa un chilo di patate o quando prende la cassa malattia. Per studiare o imparare tutto quello che dite voi ci vuole gente spensierata… bambini, pazzi, ricchi… ma non certo un impiegato statale.
In pochi minuti di film c’è il cuore del dibattito sulla scuola che prende il via dall’inizio della repubblica italiana e si svolgerà per i decenni successivi fino a oggi. Sono le due questioni principali: c’è una scuola non democratica che boccia e esclude i poveri, c’è un insegnamento che si concentra sul nozionismo e prescinde dalla persona.
Sempre nel 1951 iniziano le pagine di diario di Maestro di Mario Lodi che confluiranno in C’è speranza se questo accade al Vho, pubblicato nel 1963 da Einaudi. Leggiamole:
Questa terza maschile, per diversi motivi, è particolarmente difficile: gli alunni sono sovente distratti, non si interessano alle lezioni che preparo scrupolosamente, «dimenticano» di far firmare ai genitori le osservazioni sul comportamento, «dimenticano» persino di acquistare i quaderni… – Che vuole, maestro, – mi dice qualche madre, – sono i frutti degli spaventi di guerra! – In compenso tengono in classe una disciplina passiva che mi sgomenta: fermi come statue, coi cervelli inerti, spesso non restituiscono nemmeno il sorriso. Forse hanno paura di me, perché quando voglio conversare con loro nei momenti di ricreazione, esaurite le notiziole superficiali, si chiudono in un gelido silenzio che non riesco a rompere. A volte, dalla finestra, li osservo quando escono sulla strada: oltrepassata la soglia è un libero volo, le bocche mute parlano e gridano: sono felici. Indubbiamente per questi ragazzi la scuola è sacrificio; il loro comportamento passivo lo dimostra. Ma quale è la causa? È facile attribuirla alla scarsa volontà e al carattere dei ragazzi; e se fosse altrove, ad esempio nell’organizzazione della scuola stessa? Tanto nella società come nella scuola (che è una piccola società di scolari, obbligati a vivere insieme per diversi anni) credo non ci possano essere che due modi di vivere: o la sottomissione a un capo non eletto, oppure un sistema in cui la libertà di ognuno sia rispettata, condizionata solo dalle necessità di tutti. Il paternalismo, nella società degli adulti come nella scuola, non è che una forma insidiosa dell’autoritarismo che concede una finta libertà. Se la scuola non deve soltanto istruire, ma anche e soprattutto educare, formando cioè il cittadino capace di inserirsi nella società col diritto di esporre le proprie idee e col dovere di ascoltare le opinioni degli altri, questa scuola fondata sull’autorità del maestro e la sottomissione dello scolaro non assolve al suo compito perché è staccata dalla vita. Ma come cambiare le cose? Con quali mezzi?
Già, come cambiare le cose? Con quali mezzi? Nella scuola «dopo il fascismo», scrive Lodi nell’introduzione, «è diventato naturale rifiutare il ruolo di tecnico che trasmette i valori e l’ideologia della classe dominante ai ragazzi del popolo che sono nella maggioranza figli dei poveri, degli sfruttati e degli oppressi». Ma come fare? si domanda Lodi, ammettendo di non aver imparato «nessuna tecnica di liberazione».
È chiaro che il primo punto per ragionare politicamente sulla scuola è questo: imparare tecniche di liberazione. Leggere, studiare, sperimentare, inventarsi queste tecniche. Altrimenti qualunque altro discorso precipiterà in un’astratta polarità: competenze vs conoscenze, scuola a distanza vs scuola in presenza, innovazione e vecchi metodi, eccetera…
Colui che è stato di fatto il primo ministro dell’istruzione dopo il fascismo è un personaggio oggi sconosciuto. Si chiama Carleton Washburne. Nel 1943, al loro sbarco in Italia gli Alleati trovano un paese distrutto fisicamente e moralmente. L’esigenza della ricostruzione economica, sociale e culturale viene dagli spiriti più volitivi immaginata come una vera e propria opera di rieducazione. Come la immaginiamo una società che superi il fascismo? E come la immaginiamo una scuola che educhi all’antifascismo, a una società nuova? Fra il 1943 e il 1946, le autorità alleate svolgono un intenso lavoro di consulenza educativa e pedagogica, e ne affidano il coordinamento a Carleton Washburne, pedagogista allievo di John Dewey, in Italia come membro del governo militare alleato, mentre in tutto il paese, a mano a mano che viene liberato dalle truppe nazifasciste, ritorna la libertà, riprende corpo lo spirito di rinascita. La produzione di testi di riflessione pedagogica anche di non pedagogisti in questa fase è impressionante. La domanda che ci potremmo fare è: esiste una pedagogia partigiana? Un’idea antifascista di scuola da cui possiamo attingere?
Non c’è soltanto il famoso piccolo saggio di Piero Calamandrei, Per la scuola, che è una sorta di appendice alla Costituzione (oggi lo ripubblica meritoriamente Sellerio), ma anche un pensiero sulla scuola di intellettuali come Guido Calogero o Aldo Capitini, Angela Zucconi e Dina Bertoni Jovine.
La figura di Carleton Washburne è cardinale nella storia della scuola repubblicana, ma non ce n’è una memoria adeguata, la bibliografia su di lui è scarna. Washburne negli anni successivi alla guerra è instancabile: presiede la commissione degli Alleati, intesse relazioni con i pedagogisti più importanti che hanno lavorato con e contro il sistema fascista, si confronta con gli intellettuali, fa conoscere in Italia nomi ed esperienze internazionali, si scontra indefessamente con le resistenze al cambiamento politiche e sociali, prima tra tutte quella della Chiesa.
Washburne è una mosca bianca, sbarca in Italia dopo aver cercato di imparare l’italiano nel più breve tempo possibile a Tunisi; si porta dietro più di vent’anni di riflessione pedagogica alle spalle, testi che in Italia sono praticamente sconosciuti. Di fronte si trova un ministero della pubblica istruzione completamente impreparato anche a ricevere questo portato. La nuova situazione è testimoniata nei verbali del colloquio del 25 novembre 1943 tra il sottosegretario italiano all’Educazione Nazionale Giovanni Cuomo e i consulenti per l’istruzione dell’amministrazione alleata. Quando al ministro dell’Educazione Nazionale Leonardo Severi gli Alleati chiedono i programmi del suo ministero, Severi risponde di non averne «nessuno» e aggiunge che è «sua intenzione ristabilire il carattere onesto dell’istruzione, liberarsi dell’influenza fascista, e ritornare al punto in cui sarebbe stata l’istruzione se non fosse intervenuto il fascismo». I deweyani sbarcati con gli alleati hanno un’ambizione riformatrice che si scontra con un sistema culturale, intellettuale, stantio, retrogrado, che sopravvive al fascismo stesso.
C’è una continuità tra l’ideologia postunitaria, l’età giolittiana e il fascismo nella concezione della scuola? Sì, scrive Lamberto Borghi in uno dei testi più importanti sulla scuola italiana, Educazione e autorità nell’Italia moderna, pubblicato nel 1951 da Nuova Italia. C’è una continuità tra il regime fascista, il dopoguerra, gli anni della rivoluzione culturale, l’età del riflusso e la fine del Novecento? Sì, scrive Borghi a più riprese; alcuni suoi brevi e fulminanti saggi sono stati ripubblicati da Eleuthera nel 2019, nel volume La città e la scuola.
La continuità è quella delle questioni che vediamo ancora oggi: una valutazione che nella maggior parte dei casi è uno strumento arbitrario in mano ai professori, la riduzione degli studenti alla passività invece che la fiducia nell’autogoverno, la mancata elaborazione di spazi adatti alla didattica, eccetera… Quando ci mettiamo a discutere di ragazzini che non ne possono più di stare davanti a uno schermo, di infrastrutture che andrebbero completamente modificate, di genitori che minacciano i professori, dobbiamo riconoscere che queste problematiche sono di lunga durata e i registri elettronici, i banchi con le rotelle, le lavagne interattive ne danno solo una nuova versione.
La scuola che non si fece, quella immaginata dalla commissione Washburne, era ispirata tanto dall’esperimento pedagogico di Washburne a Winnetka che dalle idee di John Dewey. Winnetka è un sobborgo di Chicago dove un gruppo di genitori e insegnanti, coordinati fra gli altri da Carleton Washbrune, s’inventò a partire dal 1919 un modello di scuola che mutuava un piccolo esperimento privato nell’esempio di un intero sistema scolastico: qualcosa passato alla storia come il piano Winnetka, anche se questa definizione di piano non piaceva agli stessi protagonisti.
Winnetka è un mito per quella tradizione pedagogica che si sarebbe chiamata attivismo. «Esiste una piccola città, sobborgo di Chicago, chiamata Winnetka, in cui tutti gli abitanti, ricchi e poveri, inviano i loro ragazzi alle scuole pubbliche», così inizia Le scuole di Winnetka (uscito per Nuova Italia nel 1952) quasi un apologo. Il libro è un reportage, ed è straordinario quello che racconta. La personalizzazione dello studio, l’incoraggiamento dell’autonomia, la sistematicità della sperimentazione sono tali che per un lettore del 1952 il racconto di Winnetka doveva sembrare quello di un pianeta alieno.
In ogni aula di classe esiste un abbozzo di documentari in cui l’insegnante trova i suggerimenti degli esperti concernenti le specie di attività e le fonti di lettura per l’insegnante e per gli alunni, come pure le indicazioni sulle maniere di utilizzare le attività del campo di giochi, delle classi di musica, di arte, e delle sezioni sociali per l’insieme del lavoro. Questo abbozzo esiste a titolo puramente consultivo; ogni insegnante e ogni gruppo di ragazzi organizzano a loro modo le loro attività collettive e creatrici. La scuola termina troppo presto e i ragazzi abbandonano la scuola tutti presi ancora dal loro piano.
Nelle scuole di Winnetka si fa educazione sessuale («Il sesso non è considerato unicamente per la sua funzione biologica, ma anche per la sua funzione profonda dal punto di vista della sua ripercussione personale e sociale. I problemi della condotta sono discussi liberamente e il corso si trasforma talvolta in corso d’etica. Tutti gli lunni frequentano obbligatoriamente questo corso»); ci sono alcuni alunni, chiamati «indipendenti», che possono organizzare il loro tempo di studio a piacimento («Per essere accolto fra gli indipendenti, un alunno comincia col riempire un formulario in cui dichiara che farà buon uso della sua libertà, se gliela si accorda»), l’autoregolazione è il cardine dell’organizzazione («gli alunni che hanno intenzione di assentarsi avvertono l’insegnante, di modo che non si verifichino disordini di tal fatta»); sulle materie centrali ogni studente «è maestro di sé stesso». Il laboratorio di Winnetka mette in discussione la scuola della lezione, del voto, dell’interrogazione, della sanzione, con una concezione del rapporto tra individuo e collettività che sembra ritagliata apposta per lo spirito costituzionale.
La scuola che questo paese poteva avere e che nemmeno rimpiange.
*Christian Raimo, insegnante di storia e filosofia, è assessore alla cultura nel III municipio di Roma. Scrive per Internazionale, minimaetmoralia e altre testate. Il suo ultimo libro è Riparare il mondo (Laterza).
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