
Io sono ancora qui
Il film di Walter Salles sulla dittatura brasiliana non va elogiato solo per il suo valore artistico: rafforza il dibattito e la discussione politica sulla memoria della storia recente
In Brasile sta facendo molto discutere il film Io sono ancora qui, che ha avuto la sua première mondiale all’ultimo Festival di Venezia, dove ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura, ed è arrivato nelle sale italiane pochi giorni fa. Il film, ambientato nel Brasile del 1970, in tempi di dittatura, ha già conquistato un Golden Globe (miglior attrice), tre nomination agli Oscar (miglior film, miglior film straniero e miglior attrice) e sta collezionando premi in tutto il mondo (Vancouver, Messico, San Paolo, Rio de Janeiro, Madrid, ecc.).
Dal punto di vista estetico, il film è un’altra gemma prodotta da Walter Salles, che anni fa ha concorso agli Oscar con Central do Brasil ed è anche autore di capolavori come I diari della motocicletta e Disperato aprile. In Io sono ancora qui, la macchina da presa si muove in modo irregolare per raccontare le memorie personali, e in modo più stabile per rappresentare la barbarie dello Stato. I colori della prima mezz’ora del film, quando la famiglia viene mostrata prima dell’arrivo della violenza di Stato, sono vivi e allegri, ma diventano scuri quando la barbarie raggiunge la famiglia; alla fine del film, i colori riappariranno, ma ora un po’ grigi, senza più la luminositá dell’inizio. Anche gli spazi interni, in particolare quelli della casa, sono inizialmente caldi, ma dopo l’arrivo della forza bruta hanno linee forti, simili a quelle di una prigione. Le canzoni svolgono un ruolo chiave: la musica di Caetano Veloso e Gilberto Gil, artisti esplicitamente contrari al regime, appare ogni volta che ci si gode la vita o si sta fuggendo dal regime; quando invece ascoltiamo (forte!) Roberto Carlos, artista favorevole al regime, è perché qualcosa deve essere nascosta o messa a tacere. In quest’opera, come in altre di Salles, c’è un realismo molto marcato, che ci porta all’aspetto forse più importante del film: la sua dimensione storica e politica.
Io sono ancora qui infatti non va elogiato solo per il suo valore artistico, ma anche perché rafforza il dibattito e la discussione politica sulla memoria della storia recente del Brasile – in modo simile, forse, con quel che è recentemente accaduto in Italia con il film C’è ancora domani di Paola Cortellesi. L’enorme successo del film è strettamente legato al momento politico che noi brasiliani stiamo attraversando. La crescita delle forze politiche autoritarie che vediamo attualmente in molti paesi del mondo, ha trovato in Brasile una forma particolare nella dittatura imposta ai brasiliani nel 1964 dalle forze armate con il sostegno di alcuni settori della società civile. Il colpo di Stato fu appoggiato, naturalmente, anche dal Dipartimento di Stato americano, allora sotto un governo del Partito democratico, che aveva già organizzato il golpe durante la presidenza del sorridente John Kennedy per contenere la cosiddetta «minaccia comunista».
La dittatura è durata fino al 1985 e, dalla sua fine, l’opinione pubblica brasiliana ne ha mantenuto una visione negativa quasi unanime. Da circa dieci anni però, ha iniziato ad avere successo crescente nella popolazione il revisionismo storico. Durante i 21 anni della dittatura, lo Stato ha imprigionato migliaia di cittadini, torturato, ucciso e fatto scomparire corpi, e poche persone ne dubitano, anche tra coloro che oggi la guardano con simpatia. Tuttavia, è comune trovare persone che affermano che la nostra dittatura non sia stata sanguinosa come quelle di Argentina e Cile, e che in fondo nessun morto era innocente e che anche la sinistra ha usato armi e commesso crimini.
Io sono ancora qui si inserisce in questo dibattito sulla memoria, dimostrando quanto foto e video possano svolgere un ruolo centrale nella cura della memoria. Già nelle prime scene, ci sono immagini di Rio de Janeiro degli anni Settanta e momenti felici della famiglia registrati in 35 mm, poi foto dei prigionieri politici e i video usati nella difesa degli indigeni.
Il film racconta la storia vera di Rubens Paiva (Selton Mello), ingegnere ed ex deputato laburista, arrestato, torturato e ucciso senza che il corpo sia mai stato restituito alla famiglia. La sceneggiatura si basa sull’omonimo libro pubblicato nel 2015 dal figlio, lo scrittore Marcelo Rubens Paiva, ma il cuore della storia è la figura di Eunice Paiva (Fernanda Torres), la madre di Marcelo e moglie di Rubens.
Rubens Paiva partecipava alla resistenza pacifica contro il regime (mentre altri scelsero la lotta armata), ricevendo lettere da esuli politici e consegnandole ai loro destinatari – generalmente familiari. Quando venne scoperto fu prelevato da casa e scomparve per sempre. Lo Stato negò di averlo arrestato, mentre parte della stampa pubblicò la notizia che fosse fuggito lasciando la famiglia. Quest’atto barbaro sarebbe stato completamente dimenticato se non fosse stato per la determinazione e la fermezza di Eunice. Non a caso, nel film, la sua figura cresce man mano che la violenza dello Stato colpisce la famiglia – e l’interpretazione di Torres, in questa evoluzione, è eccezionale. Eunice viene risucchiata nei più oscuri meandri della dittatura, non solo per la scomparsa del marito, ma anche perché poco dopo viene lei stessa condotta in centri di detenzione clandestini dove subisce torture fisiche ma soprattutto psicologiche. Quando ne esce, è determinata a proteggere la sua famiglia e a preservare la memoria del marito, di ciò che ha portato alla lotta per la giustizia e alla denuncia della dittatura.
Negli anni della dittatura furono torturati migliaia di brasiliani, e vale qui la pena ricordare la vicenda di Dilma Rousseff, presidente del Brasile tra il 2010 e il 2016. A ventidue anni, Rousseff subì torture fisiche e psicologiche che le compromisero per sempre la mandibola, lasciando segni indelebili sul suo volto e la sua voce. Dopo tre anni di carcere e barbarie, Rousseff riprese il suo impegno politico con discrezione e determinazione, fino a diventare ministra sotto il governo Lula, per poi essere eletta presidente. All’epoca, Rousseff istituì finalmente una Commissione nazionale per la Verità, con l’obiettivo di raccogliere documenti nascosti e portare alla luce ciò che le forze armate si sforzano ancora oggi (con successo) di occultare. Nel 2016, all’inizio del suo secondo mandato, Rousseff fu destituita con un impeachment orchestrato dai parlamentari, e un certo deputato, nel pronunciare il proprio voto contro di lei, dichiarò di farlo per la memoria del torturatore di Rousseff, declamandone il nome in Parlamento. Ci furono applausi per quel deputato, il cui nome era Jair Bolsonaro, e che due anni dopo sarebbe stato eletto presidente del Brasile.
Come presidente, Bolsonaro ha rafforzato le forze armate senza mai pensare di usarle per una guerra contro qualche paese. Quasi tutti i suoi critici si sono resi conto che il rafforzamento delle forze armate era funzionale a realizzare quello che aveva affermato in un’intervista nel 1999: «Attraverso il voto, nulla cambierà in questo paese […] Dobbiamo fare il lavoro che Il regime militare non ha fatto. Uccidere 30.000 persone, a partire da Cardoso (allora presidente). Non lasciarli andare all’estero! Uccidere! Se ci saranno alcuni morti innocenti, pazienza». Per tanto tempo abbiamo creduto che dichiarazioni come questa avrebbero prodotto repulsione in molti settori della popolazione, ma negli ultimi anni abbiamo imparato che una parte consistente della popolazione sostiene Bolsonaro proprio per questa sua impostazione.
Oggi Bolsonaro sta affrontando la giustizia perché tante delle sue azioni come presidente sembravano preparare un colpo di stato. Nonostante questo, mantiene un consenso popolare molto significativo. Non è difficile trovare – principalmente sui social network, ma non solo – discussioni «serie» o opinioni «informate» che relativizzano i crimini della dittatura, giustificandoli in nome della libertà e contro il comunismo, lodando il «coraggio» delle Forze armate e denunciando la «dittatura comunista» imposta da Lula.
Io sono ancora qui si inserisce in questo contesto di lotta politica per la memoria. Il suo realismo, la sua indubbia qualità estetica e la straordinaria interpretazione di Torres rafforzano notevolmente la posizione democratica in questa lotta. Il suo successo (cosa rara per il cinema brasiliano) l’ha fatta diventare un’opera fondamentale nella lotta contro la barbarie che ha colpito il Brasile alcuni decenni fa, di cui sono stati vittime Rubens Paiva, Rousseff, Eunice e molti e molte altre, e che continua ancora oggi a minacciare il paese. Il film è un contributo decisivo per la memoria collettiva e, proprio per questo, rappresenta un ostacolo cruciale alla ripetizione dell’orrore dittatoriale. E vista la crescita delle posizioni autoritarie in tutto il mondo, il contributo di Io sono ancora qui non riguarda solo noi brasiliani.
*Thiago Dias è un filosofo brasiliano. Sta facendo un postdoc finanziato da Fapesp presso Unicamp (Campinas, Brasile), è ricercatore del Nev-Usp e recentemente ha fatto un lungo soggiorno di ricerca presso al Centro di Studi Politici Hannah Arendt a Verona.
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