
La Brexit e i malintesi della sovranità
L’accordo che sancisce l’uscita dall’Unione europea del Regno unito, più che una rottura rappresenta uno dei fenomeni dell'eterogenea e contradditoria natura della globalizzazione neoliberale
Nella Brexit sono confluite istanze diverse: alcuni volevano creare un paradiso finanziario, una Shangai alle porte dell’Europa, altri, al di là dei ragionamenti economici, desideravano «semplicemente» restaurare l’ordine razziale. A sinistra invece qualcuno pensava che fuori dall’Ue finalmente sarebbe stato possibile creare il socialismo in un solo paese.
Tra le ragioni che hanno portato il leave a vincere e a mantenere consenso c’è stata «l’esigenza» di tenere fuori dalla Gran Bretagna i migranti dell’Est europeo – nonché tutti i migranti dequalificati – che, secondo una consolidata retorica, tolgono welfare e lavoro ai cittadini inglesi. A seguito della mistificazione reazionaria secondo cui l’Ue è al contempo sia mostro statalista sia alfiere di un neoliberismo rapace, le élite europee sono diventate dei nemici da combattere. Un ruolo importante lo ha giocato la nostalgia per il passato imperiale, a cui si è accompagnata la speranza di ritrovare la grandezza e la ricchezza goduta ai tempi dell’ordine coloniale. A quel passato i brexiteers contrappongono una globalizzazione tanto stereotipata quanto inesorabile, un fenomeno che ha la forza di un evento naturale e la spietatezza di un’operazione di pochi potenti che manipolano le sorti del mondo. La diffusa attribuzione delle responsabilità del declino industriale ad agenti esterni e astratti ha funzionato anche qui. E si è promesso che con le risorse risparmiate dalla contribuzione agli organi dell’Unione europea si sarebbe investito nella Nhs, la sanità inglese.
I malintesi sul protezionismo, e sulle più generali esigenze di protezione, spesso si accompagnano a un’erronea valutazione della sovranità e della globalizzazione. I vari nazionalisti europei, inglesi o statunitensi parlano di sovranità come realtà sempre uguale a sé stessa, invariata nello spazio e nel tempo. Le asimmetrie di potere tra stati vengono ignorate, così come le trasformazioni che li investono e determinano aggregati di potere sovrani non più necessariamente statali. Allo stesso modo viene occultata la differenza di interessi all’interno – e oltre – ogni stato-nazione. L’unità dell’interesse nazionale e l’omogeneità etnica e culturale del popolo all’interno dei suoi confini sono i banali correlati di tutti i sovranismi contemporanei.
Ma lo stato non rispecchia semplicemente gli interessi economici di alcuni capitalisti – che a loro volta sono divisi. Lo stato rappresenta la cristallizzazione di rapporti di forza sociali, è un campo di tensione dove diversi attori confliggono. Per governare bisogna fare compromessi tra diversi attori e, a seconda del contesto, sacrificare alcune frazioni del capitale e privilegiare alcuni settori della società per garantire una stabilità di lungo periodo. Egualmente, la forma democratica deve permettere ad alcune istanze sociali, in particolari congiunture, di trovare un riscontro più o meno parziale. La regolazione dell’economia è infatti cambiata in occidente rispetto al periodo fordista ma ciò non significa che sia scomparsa.
La globalizzazione neoliberale non ha espropriato il potere degli stati ma è stata piuttosto l’esito di specifiche scelte politiche maturate dentro i singoli territori nazionali e determinate da concrete forze politiche. Non c’è nessun ritorno del protezionismo perché esso non se n’è mai andato. Semmai è stato precluso alle parti deboli dell’economia mondiale, dove – seppur in una posizione di potere inferiore rispetto e con istituzioni non sempre solide – lo stato è spesso tutt’altro che assente. Il libero commercio o riguarda tutti i paesi o non è altro che protezionismo mascherato, scriveva Immanuel Wallerstein nel 2014. I trattati e gli accordi «di libero scambio» infatti difendono sempre interessi di singole economie, escludendo strutturalmente altre nazioni e cercando di mantenere – e creare – specifici assetti di potere. Nella gerarchia mondiale, il potere si sposta molto lentamente e i contenuti degli accordi servono esattamente a limitare il potere dei concorrenti e a mantenere al margine le periferie del sistema-mondo. Questo potere non è quello tradizionalmente attribuito a singoli stati, ma è un assemblaggio di poteri pubblici e privati.
Nonostante si parli spesso di declino dello stato-nazione, il potere statuale – per quanto trasformato – continua a svolgere un ruolo centrale nei processi di accumulazione globale. In questo senso, la Brexit o Donald Trump non rappresentano delle rotture rispetto alla fase neoliberale della globalizzazione, ma dei fenomeni interni alla sua eterogenea e contradditoria natura. Negli ultimi decenni infatti le frontiere non sono state abbattute allo stesso modo per tutti, realizzando l’utopia del mondo «liscio e piatto». Piuttosto, come ormai è sempre più noto, i confini – fisici e giuridici – si sono moltiplicati così da selezionare, gerarchizzare e incanalare merci, capitali e persone
Tuttavia, se l’accordo che sancisce l’uscita dall’Unione europea del Regno unito non realizza nessuna piena sovranità ed è pienamente integrata dentro i meccanismi dell’accumulazione globale, non tutti i settori dell’economia britannica beneficiano allo stesso modo del deal con l’Ue. Ma tutti, o quasi, hanno desiderato che venisse siglato un accordo. Prima del 24 dicembre, molti attori economici hanno mostrato preoccupazione per l’eventualità di un no deal. E questo proprio perché il mercato mondiale funziona attraverso una fitta rete di regole, fatta di accordi – che proteggono in modo differenziale alcuni settori e stati a scapito di altri – senza i quali nessuna merce, capitale o manager si muoverebbe.
La sovranità contemporanea si esercita in modo inedito all’interno di questo spazio. Il mercato reale non rappresenta quindi l’assenza di sovranità statuale, non è il nemico del potere politico senza il quale difenderebbe la società, ma ne è anzi l’esito stesso, che opera in una complessa intelaiatura di poteri economici e post-statuali. Gli alti profitti non si realizzano nel libero mercato ma si ottengono grazie alle rendite garantite dallo stato e da altre istituzioni. Le aziende della Silicon Valley, così come i giganti della distribuzione, o le banche più potenti dimostrano che la retorica sulla libera concorrenza non trova riscontri. Si assiste piuttosto a una notevole centralizzazione del comando e delle risorse nelle mani di pochi soggetti economici che rendono le diseguaglianze globali estremamente accentuate.
Le sfere economiche, politiche e culturali si articolano in modo complesso, lasciando gli esiti dei conflitti aperti. Senza un’interpretazione di questo tipo del rapporto tra economia e politica, sarebbe difficile spiegare come sia possibile che mentre il marginale settore ittico sembra uscire avvantaggiato dall’accordo, al contrario finanza, servizi creativi e professionali risultano perdenti. Almeno per ora. L’accordo non chiude la contrattazione ma segna soltanto una prima fase che ritarda o evita il peggio. Con la pandemia, un no deal – nonostante le pressioni dei più estremisti tra i brexiteers – sarebbe stato insostenibile politicamente. Al contempo, sul lungo periodo, è improbabile che si possano ignorare interessi così rilevanti che a oggi risultano parzialmente sacrificati. Così si è arrivati a un accordo in cui si esce da mercato unico e unione doganale ma si evita il ritorno di dazi e tariffe, con la perdita di posti di lavoro, la chiusura di attività e gli strozzamenti nella catena delle forniture che ne sarebbe conseguita. Tuttavia, senza Trump, il sogno della Global Britain si fa difficile.
Ad ogni modo, Boris Johnson ottiene lo sganciamento dalla Corte di Giustizia europea, così che torni possibile esercitare la propria sovranità nel precarizzare e disciplinare la società senza vincoli esterni. E può affermare che, fuori da Schengen, è di nuovo possibile difendere i cittadini britannici da welfare scroungers e criminali stranieri. Diviene inoltre più agevole selezionare la forza lavoro, secondo un sistema a punti che realizza a pieno una gestione delle migrazioni efficiente e neoliberale.
Se qualche frazione della classe operaia potrebbe ottenere temporanei e marginali vantaggi – in primo luogo psicologici, per dirla con W.E.B. Du Bois, dal momento che quelli economici sono tutti da dimostrare – a pagare di più la ristrutturazione reazionaria, lì come altrove, sono e saranno i dominati e non i dominanti. Ma la forza di un messaggio simile – che ha bloccato il paese per quattro anni – riposa su una dinamica comune a molte nazioni occidentali. Come spiegato da Robert Castel, all’esigenza di protezione di ogni società, progressivamente si è risposto sempre più con uno stato forte contro le libertà civili e debole nel contrastare il potere economico. Un Leviatano che punisce i poveri, le donne, i migranti e le minoranze, che restringe il welfare e lo piega a logiche selettive e meritocratiche. Una nazione che ritrova l’orgoglio di sé e della propria cultura da difendere contro il meticciato e il decadimento multietnico. Uno stato che favorisce i monopoli e l’accumulazione della ricchezza e precarizza le condizioni di lavoro per i molti. L’unica protezione che Boris Johnson e Nigel Farage – come Trump o Salvini – possono offrire è questa.
In assenza di una volontà di colpire gli assetti di potere, si mantiene il ruolo pubblico per garantire l’ordine e sostenere alcuni settori dell’economia. Che questo sia il meccanismo più efficiente di regolazione sociale è tutto da dimostrare, come si intuisce dalle divisioni del mondo imprenditoriale rispetto alla Brexit e alla presidenza Trump. Sta alle forze sociali mostrare come lo spazio della lotta e della politica sia quello transnazionale. Solo l’articolazione globale di un doppio potere, sociale e istituzionale – che necessariamente deve avere nell’Europa un primo momento – può determinare una distribuzione di risorse e diritti differente.
*Bruno Montesano è studente di Master della School of Oriental and African Studies (Soas) di Londra. Collabora con la rivista gli Asini e con l’organizzazione Sbilanciamoci!.
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