La crisi della sinistra riformista
ll mito della Terza Via è diventato una prigione: quelli che lo hanno condiviso rifiutano di fare i conti con tutto quello che è accaduto fin dal 2008. Intervista all'ex direttore della rivista «Il Mulino» Mario Ricciardi
«È accaduto qualcosa di nuovo, anzi di antico in una delle casematte della cultura italiana: in Strada Maggiore 37 di Bologna, dove da 73 anni abita la rivista il Mulino, si è diradata una tentazione recente – il settarismo – ed è rientrata l’anima che per decenni aveva qui abitato: uno spirito critico nel segno del pluralismo». Così, sull’HuffPo, Fabio Martini racconta la fine del secondo triennio di Mario Ricciardi alla direzione della rivista. Classe 1967, ordinario di filosofia del diritto alla Statale di Milano, membro delle due direzioni di Michele Salvati (2012-2017), Ricciardi in questi anni ha rilanciato, nei numeri ma soprattutto nella capacità di orientare e animare il dibattito, una rivista che, come altre, soffriva la contemporanea crisi del mercato editoriale e delle diverse culture politiche della sinistra. Pubblicando, soprattutto sul sito, articoli sulle più diverse posizioni, ma perlopiù di grande rigore analitico, in questi anni la rivista si è caratterizzata come una rara palestra di dibattito in un contesto mediatico sempre più desertificato. Questo non ha però attirato a Ricciardi le simpatie dei «riformisti» de noantri. «La sinistra torna liberale» titola Linkiesta per descrivere il «nuovo corso» di Paolo Pombeni (1948), professore emerito a Bologna, che ha prevalso, per due voti, sul politologo Piero Ignazi (1951). Lo stesso Ignazi che della rivista era stato direttore tra 2008 e 2011 e che Martini stesso non può non citare tra gli esempi della tradizione moderata e riformista. Approfittiamo della disponibilità di Ricciardi a ospitare Jacobin Italia nella sua «casamatta» romana dei Monti Parioli, per discutere sullo stato delle culture politiche italiane.
Che bilancio fai della tua direzione?
Per me il bilancio è positivo. Quando sono stato eletto, il mandato che avevo ricevuto dall’Associazione Il Mulino, di cui la rivista è l’organo, era di renderla più adatta alle esigenze di un mondo profondamente cambiato. Fondata più di settant’anni fa, nel corso del tempo la rivista non era rimasta immobile, mutando diverse volte formato, impostazione, e periodicità. La struttura di fondo, tuttavia, era rimasta sostanzialmente la stessa, almeno da quando era passata al formato attuale. Un periodico cartaceo, scritto in gran parte da accademici, che si rivolgeva a un pubblico appartenente a quella che un tempo si chiamava «classe dirigente». Un primo passo sulla strada verso una concezione più attuale della rivista c’era stato nel corso della direzione di Piero Ignazi, con il lancio della versione on-line. Ma poi il sito era rimasto fermo nella sua impostazione, tanto che, quando sono entrato in direzione, tra noi si scherzava paragonandolo a quello della Gazzetta Ufficiale. All’inizio del mio secondo mandato, per festeggiare i settant’anni della rivista, e grazie a un investimento da parte della casa editrice Il Mulino, che la pubblica, c’è stato un cambiamento più accentuato. Ora la versione on-line della rivista ha una grafica molto più piacevole, con una maggiore continuità rispetto al cartaceo (sarebbero idealmente, almeno questa era la mia intenzione, due gambe della stessa creatura). C’è una newsletter che presenta i contenuti a una platea molto ampia di utenti registrati, abbiamo sperimentato lo strumento dei podcast, abbiamo imparato a utilizzare i social più adatti a una pubblicazione come Il Mulino (sei anni fa erano Twitter e Instagram, oggi forse si dovrebbe anche considerarne altri). In questi sei anni, la rivista cartacea è stata lo strumento per riflessioni di ampio respiro, e meno condizionate dall’attualità, mentre la versione on-line, più veloce, ospitava contributi più brevi (intorno alle diecimila battute). L’idea cui mi ero ispirato era quella del «long read» introdotto da alcuni quotidiani in Europa e negli Stati uniti. Un formato intermedio tra il vero e proprio saggio e l’articolo che si può trovare su un quotidiano. Oltre a rinnovare il contenitore, e a differenziare i formati dei contenuti, abbiamo ampliato l’ambito dei temi (non solo politica, e politiche, ma anche cultura – letteratura, arte, filosofia, storia) e ospitato contributi di autori più giovani. Oggi le università italiane producono più laureati, e PhD, di quanti riescono ad assorbire, quindi ci sono molti autori potenziali, con una formazione di alto livello, e competenze avanzate, che non intraprendono una carriera accademica. Essenziale, sotto questo profilo, è stato il contributo della redazione, che nel mio secondo mandato ha affiancato la direzione (che è composta nella gran parte da accademici al vertice della carriera). Alle ragazze e ai ragazzi della redazione si devono, a mio avviso, alcune delle cose più interessanti che abbiamo pubblicato negli anni. Dai dati raccolti direi che il pubblico ha apprezzato i cambiamenti. Gli abbonamenti al cartaceo sono aumentati, in percentuale, come non accadeva da anni, l’età media dei lettori, specie della versione on-line, si è abbassata, sono aumentate le donne.
Se le cose sono andate così bene, cosa ti ha spinto a non ricandidarti?
In parte considerazioni personali. Sono entrato in direzione (è un organo collegiale), nel corso del primo mandato di Michele Salvati. Poi ho fatto il direttore per due mandati, sei anni. Tanto tempo, e di recente, per via del rilancio, che ha comportato un impegno notevole, occuparsi della rivista era diventato quasi un lavoro a tempo pieno. Divertente, interessante, ma a un certo punto si avverte la stanchezza. Poi c’era una considerazione formale, e per me le forme hanno un peso. Gran parte dei miei predecessori hanno lasciato la direzione alla fine del secondo mandato, e mi è sembrato opportuno rispettare la prassi, anche se c’erano diverse persone che mi esortavano a candidarmi nuovamente per consolidare il cambiamento avviato. Inoltre, pur essendo stato eletto per due volte con un consenso molto ampio, nel corso del secondo mandato mi sono reso conto che l’impostazione che ho dato alla rivista – essenzialmente la scelta dei contenuti – non era vista con favore da alcuni soci, e questo dissenso rendeva difficile immaginare che si potesse andare avanti con la stessa serenità con cui ho lavorato negli anni precedenti.
Come ti spieghi le polemiche che ci sono state intorno al tuo nome?
Sulle polemiche non ho molto da dire. Chi le ha lette e ha seguito la rivista immagino si sia formato un giudizio. Mi pare di capire che per alcuni fosse un problema il fatto che io abbia dato spazio a voci considerate troppo di sinistra, e che ci fosse anche un certo fastidio per le mie posizioni personali, che nel tempo sono diventate molto critiche nei confronti dei cosiddetti «riformisti». Ma erano appunto le mie opinioni, sempre espresse a titolo personale, nei miei interventi pubblicati dai quotidiani e dai settimanali con cui collaboro. Non ho mai detto, o lasciato intendere, di parlare a nome della rivista o dell’associazione. Forse un peso maggiore ha avuto il fatto di aver dato ampio spazio a temi economici e sociali (reddito di cittadinanza, politiche del lavoro, tutela dell’ambiente) che questi «riformisti» non apprezzano molto. Ma erano, appunto, alcune delle voci pubblicate dalla rivista, fianco a fianco con quelle di conservatori, e anche di molti dei miei critici, quindi direi che le polemiche siano state pretestuose.
La vicenda si presta a una riflessione sullo stato delle culture politiche italiane. Discutendo della vicenda su Jacobin Italia, Lorenzo Zamponi commentava l’uso paradossale, e «molto italiano», della parola «riformismo»: non più «in opposizione a ‘conservatore’ o a ‘rivoluzionario’, bensì un segnale in codice di rinuncia a qualsiasi velleità di cambiamento radicale». Condividi questa analisi? E quale ti sembra lo stato di salute di quest’area culturale?
Pessimo direi. Come del resto accade anche in altri paesi, la sinistra riformista è rimasta prigioniera del mito della Terza Via, rifiutandosi di fare i conti con tutto quello che è accaduto a partire dall’inizio della crisi economica nel 2008. La questione della distribuzione della ricchezza, e dell’equità delle principali istituzioni politiche ed economiche, che ci eravamo illusi fosse sostanzialmente risolta dopo il 1989, è tornata prepotentemente alla ribalta. Alcuni parlano addirittura di un ritorno della «lotta di classe», una tesi che non condivido, perché mi pare che le classi nel senso di Marx non esistano più. Ma certamente è riemerso un conflitto sociale, che si diffonde in diverse direzioni. Riguarda le opportunità reali, non quelle formali, che tanto piacciono ai liberali classici, ottocenteschi, e la possibilità di un futuro decente per un numero crescente di persone. La classe media, che è stata essenziale per la stabilità delle democrazie occidentali, si è indebolita, è smarrita, ha paura del futuro, e ha la sensazione che i termini del nuovo contratto sociale emerso nei decenni dell’egemonia neoliberale non siano più equi come erano durante i «trenta gloriosi». A questa sfida straordinaria, la sinistra riformista non è stata in grado di rispondere. Prima ha cercato di ignorarla, subito dopo la crisi, illudendosi che fossimo alle prese con un malessere passeggero, e poi, soprattutto dopo il Covid, quando era diventato impossibile fare finta di niente, ha assunto un atteggiamento reazionario. La colpa è degli elettori che non capiscono, dei giovani che non vogliono lavorare, dei regimi autoritari che tramano nell’ombra. In molti casi, lo vediamo in modo sempre più evidente negli ultimi tempi, si è preferito inseguire la destra piuttosto che rivedere convinzioni che, per quanto sensate in un altro momento storico, ora sono diventate nient’altro che dogmi. La consapevolezza di non avere soluzioni convincenti ha spinto molti esponenti di questa cultura «riformista» a evitare il confronto sulle idee, utilizzando le proprie posizioni di influenza sul dibattito pubblico per fare gate-keeping. La situazione è peggiorata dopo l’invasione dell’Ucraina, e ancora di più dopo l’attacco di Hamas il 7 ottobre. Oggi buona parte dei cosiddetti riformisti ha abbandonato i principi di giustizia sociale che pure erano parte dell’orizzonte normativo della sinistra post-comunista, e tenta di riportare in vita una versione grossolana del Cold War Liberalism. Le contrapposizioni diventano sempre più nette, e la difesa dell’Occidente è diventata la parola d’ordine che giustifica tutto. Anche ciò che non si dovrebbe giustificare mai, come l’uso sproporzionato della forza, oltretutto privo di una chiara strategia di medio termine per porre fine al conflitto, cui assistiamo a Gaza. Di tutto questo, i nemici della democrazia liberale si rallegrano. Più diventiamo simili a loro, e più facilmente porteranno avanti i propri disegni.
Intervenendo sul Manifesto sulle strategie delle opposizioni al governo Meloni, denunciavi l’insostenibilità di un gioco politico tutto «di rimessa»: quali sono secondo te le proposte e i «luoghi» da cui si dovrebbe ripartire?
Le sfide per i liberali (quale mi considero) e per i socialisti democratici (che per me sono compagni di strada) sono immense. Siamo entrati in una fase di instabilità gravissima, accelerata da fattori contingenti (la policrisi di cui parla Adam Tooze), ma che affondano le proprie radici in un modello di sviluppo insostenibile, e nello sgretolamento, molto più rapido del previsto, dell’egemonia degli Stati uniti. La prospettiva di un ritorno di Trump alla Casa Bianca non è così improbabile, e comunque, anche se alla fine Biden riuscisse a prevalere, sarebbe solo un rimedio momentaneo. Le tradizionali forze politiche conservatrici, negli Stati uniti e nel Regno unito, hanno modificato profondamente la propria natura, muovendosi nella direzione della destra radicale, xenofoba e neppure celatamente razzista. L’idea per cui la «competenza» fosse l’unica cosa che conta per un elettore-consumatore si è rivelata un’illusione. La chiusura delle formazioni tradizionali della sinistra riformista alle proposte più innovative che vengono dal pensiero progressista sta abbandonando una parte consistente del ceto medio, e anche tanti giovani, che, a giudicare da certe rilevazioni che vengono dagli Stati uniti, cedono alle sirene della destra. Del resto, se tra destra e sinistra non c’è tanta differenza, e la sinistra si propone di fare quello che fa la destra ma in modo più educato, perché non scegliere direttamente l’originale? Comincio a pensare che abbiamo superato il punto di non ritorno. Quindi non sono molto ottimista per il futuro prossimo. Guardando invece a una prospettiva più lunga credo ci sia un lavoro enorme da fare, che si deve farlo, ma che è bene essere consapevoli che non sarà né facile né indolore. Bisogna riscoprire il valore della militanza, ciascuno secondo le proprie capacità, e trovare le parole giuste per recuperare il consenso di chi oggi è spaventato e cerca protezione. Abbandonare l’idea che la libertà sia soltanto l’assenza di ostacoli ai propri progetti individuali, riabilitando quella che si può essere veramente liberi solo insieme. In una società che rispetti la dignità di ciascuno, e che impedisca il dominio dei forti sui deboli.
Sul manifesto hai anche ripreso una riflessione di Ignazio Silone sulla «scelta dei compagni», che non sono quelli che «identificano la Storia con i vittoriosi». Il silenzio assordante con cui i media «liberali» e «riformisti» coprono, da ultimo, le storiche udienze della Corte internazionale di giustizia, dove il Sud Africa ha chiamato Israele a difendersi dall’accusa di genocidio, rafforza il tuo pessimismo? Che compagni rimangono nella sinistra «riformista»?
Pochi mi pare. Peraltro le voci che, dalle colonne di diversi quotidiani, giustificano ciò che sta accadendo a Gaza, che non è legittima difesa, a me non sembrano più espressione della sinistra riformista (pensiamo a cosa direbbe Bettino Craxi di quello che sta accadendo) e neppure di una cultura liberale. Almeno se per liberalismo intendiamo quello di Kant e di Rawls, e non quello dei fratelli Koch e delle tante fondazioni che alimentano, credo anche da noi, un lavoro capillare di intervento in difesa degli interessi del peggior capitalismo, e di chi se ne mette a servizio. Questo non vuol dire che siamo destinati alla solitudine. La crisi della sinistra riformista è anche generazionale. Gli interlocutori ci sono, ma è più facile trovarli tra i ventenni e i trentenni che tra gli ottantenni.
Nella lettera di «commiato», il tuo Comitato di redazione condivideva le sue riflessioni «sul senso e sulle potenzialità di una rivista di cultura e di politica» in Italia oggi, con questioni pratiche che affrontiamo anche noi di Jacobin («Quale deve essere il rapporto tra la rivista cartacea e il sito internet? Quali nuovi strumenti adottare per rendere la rivista sempre capace di stimolare dibattito e confronto tra diverse generazioni?»). Nel caso del Mulino, proprio il sito si è rivelato croce e delizia, attirando tanto i plausi che la totalità delle critiche. Nell’intervista all’HuffPo, il nuovo direttore dice che con le «nuove tecnologie» (sic!) bisogna «lavorarci con attenzione». Quali sono le tue riflessioni su questo, e quali consigli daresti a chi, come noi, continua a voler fare riviste di cultura politica?
La mia idea di una rivista oggi, alla luce dell’esperienza che ho fatto in questi anni, è di un luogo dove si discute, si fanno emergere le diverse visioni del futuro, si critica, ma si cerca anche di far venire fuori i punti di contatto, e i compromessi virtuosi. Le nuove tecnologie, come le chiama Pombeni, sono ovunque, e in prospettiva la distinzione tra una rivista cartacea e una virtuale è destinata a sparire. Questo non vuol dire che non si stamperanno più riviste. Ci sono tante ragioni, su cui si riflette da tempo nel mondo dell’editoria, per cui la carta probabilmente rimarrà ancora a lungo uno dei supporti delle idee. Ma non è detto che tutto quello che si legge si debba anche stampare. L’attenzione è necessaria sempre, in ogni campo, e non solo se si utilizza un supporto diverso dalla carta. Sotto questo profilo a me pare che state lavorando molto bene. Fate una rivista cartacea molto bella, e la parte on-line è vivace, e potrebbe diventare sempre più presente nel dibattito pubblico. Oggi forse pubblicate troppo poco. C’è una dimensione critica per imporsi all’attenzione, e stare sotto la soglia corre il rischio di vanificare gli sforzi che si fanno.
*Giacomo Gabbuti fa parte del consiglio redazionale di Jacobin Italia, ed è assegnista di ricerca di storia economica alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Mario Ricciardi insegna Filosofia del diritto alla facoltà di giurisprudenza dell’Università Statale di Milano e Legal Theory alla Luiss Guido Carli, Roma.
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