La falsa transizione ecologica
La Snam, tra le principali aziende europee del trasporto di gas, viene presentata come capofila della sostenibilità ma investendo sull’«idrogeno sporco» e sul metano finisce per costituire un blocco contro un reale cambiamento energetico
Come si ottiene la patente di azienda sostenibile? Chi certifica che una compagnia stia imboccando la strada giusta per salvaguardare l’ambiente e il clima? Spesso, purtroppo, sono le aziende stesse a costruire una sorta di auto-narrazione sulla loro sostenibilità. Come nel caso di Snam, con il suo slogan «Energy to inspire the world».
Snam è una delle principali corporation europee per il trasporto di gas, la più grande per infrastrutture controllate: ben 41 mila chilometri a livello europeo, con un piano di investimenti e acquisizioni che guarda all’intero pianeta. Cresciuta all’interno del gruppo Eni, nel 2012 Snam è passata sotto il controllo di Cassa Depositi e Prestiti. È anche tra le aziende più attive nell’espansione del mercato del gas, dal momento che partecipa alla costruzione di gasdotti di lunga percorrenza, come il controverso gasdotto Tap, e controlla diversi terminal di gas naturale liquefatto in Italia e in Europa. Snam è anche tra i dichiarati sostenitori della necessaria conversione all’economia dell’idrogeno, a partire da quello blu, ovvero prodotto da gas naturale con (promessa) cattura della CO₂.
Una sostenibilità dunque, quella di Snam, fondata sulla narrazione del gas combustibile «pulito» e per la transizione sull’idrogeno e i biogas come sui successori naturali. Tutto purché la transizione sia veicolata dalle migliaia di chilometri di tubi controllati dalla compagnia. Il che solleva non pochi dubbi.
Il primo riguarda proprio come Snam vuole affrontare la transizione energetica. Se dovessimo leggere e ascoltare i messaggi pubblici della compagnia avremmo davanti agli occhi una rockstar della transizione ecologica. Ma quanto investe realmente Snam nella transizione energetica? Uno studio recente dell’Institute for Energy Economics and Financial Analysis (Ieefa) dimostra come il piano dell’azienda per il 2020-24 preveda solo il 9% degli investimenti allocati per la transizione. Eppure Snam raccoglie il 40% dei propri capitali da investitori «sostenibili», per una cifra intorno ai 6 miliardi di euro, e punta ad arrivare al 60% nel 2024, nonostante 6,5 miliardi (su 7,4 di investimenti previsti) sia ancora dedicato alle infrastrutture per il gas.
Secondo dubbio. Come fa Snam ad avere un profilo così alto fra le istituzioni, specie quelle europee? Per capire come si può riuscire a costruire un’immagine pubblica così sostenibile mantenendo entrambe le mani nelle energie fossili occorre andare a Bruxelles. Gli interessi Snam sono in Europa, dove l’impresa e il suo Amministratore delegato Marco Alverà hanno acquisito nel corso degli anni una posizione di rilievo nell’alveo dei cosiddetti «portatori d’interesse». Per esempio, la compagnia è stata tra le più attive nel contribuire a costruire a livello europeo la narrazione sulla necessità di un passaggio all’idrogeno dell’intera economia continentale. Snam sta cercando di influenzare i diversi processi legislativi per fare in modo che un passo alla volta l’idrogeno prodotto da gas fossile (con o senza la fantomatica cattura della CO₂) guadagni legittimità «in attesa» (o a discapito) dell’idrogeno verde, ovvero quello prodotto tramite elettrolisi attraverso energia da fonti rinnovabili.
Da un lato sono sempre più numerose le voci che chiedono un cambio di modello, mentre dall’altro abbiamo al nostro cospetto un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) che dirotta 3,64 miliardi di euro sulla filiera dell’idrogeno senza precisare come verrà prodotto questo gas (da fossili, da energia elettrica da fonti rinnovabili o da nucleare?), come sia inquadrato nel mix energetico nazionale, senza un’analisi costi-benefici e senza la possibilità di partecipare democraticamente a queste scelte. Sappiamo, per esempio, che spunteranno treni a idrogeno e che Snam è già presente nel settore delle stazioni di rifornimento H2. E mentre nascono le prime critiche spunta fuori un fondo complementare da 30,6 miliardi di euro che a detta del Presidente del consiglio Mario Draghi servirà a finanziare gli investimenti non «aderenti» alle linee guida europee: ovvero gli investimenti anche a favore del settore fossile. La produzione di questo idrogeno e il suo trasporto restano in realtà avvolti nel mistero: in alcuni paragrafi del Pnrr appare l’idrogeno verde, ma nella maggior parte dei passaggi chiave si parla di un generico H2 e, soprattutto, nei settori che difficilmente possono essere supportati con energie rinnovabili, per esempio acciaierie, cementifici ceramiche, non si sceglie di sperimentare soluzioni sostenibili, finanziando invece ancora il metano come gas per la transizione, in barba agli obiettivi climatici. Ancora, nel settore trasporti non si sostiene la piena elettrificazione della rete ferroviaria italiana, ma si introducono i treni a idrogeno (che guarda caso sono anche di interesse di Snam), e infine si supporta il «rinnovo flotta autobus con mezzi a basso impatto ambientale», che speriamo non siano autobus a metano…
Tornando al capitolo investimenti e nuove infrastrutture marchiate Snam, sono due le regioni dove l’impresa sta attualmente investendo maggiormente: Puglia e Sardegna. In Puglia, il contestato Tap e l’interconnessione che collegherà il gasdotto alla rete nazionale sono oramai conclusi, anche se ancora non sono risolti tutti i contenziosi – attualmente sono attivi cinque ricorsi, di cui due promossi da Snam. Eppure già si pensa a un piano di ampliamento della capacità di trasporto del controverso gasdotto, che si vorrebbe portare da 10 miliardi di metri cubi a 20. Oltre a essere la società distributrice del metano proveniente dall’Azerbaigian, Snam è anche azionista di controllo della società Tap AG (proprietaria dell’infrastruttura, con una quota del 20%) ed è proprietaria dell’Interconnessione Tap: insomma investimenti freschi sul gas fossile proprio quando si potrebbe e dovrebbe cambiare business. Inoltre ci sarebbero altri due progetti di infrastrutture per il gas che attendono l’eventuale raddoppio dei volumi di gas provenienti dal Tap: il gasdotto Matagiola-Massafra e la dorsale adriatica, entrambi di proprietà di Snam.
In questo contesto di crescente «metanizzazione» non mancano gli incidenti di percorso. Tap AG è accusata di disastro ambientale nel processo iniziato nel settembre 2020 e che vede alla sbarra oltre alla compagnia svizzera anche 18 manager dell’impresa e delle sue contrattate. Il procedimento, per cui sono state ammesse numerose parti civili, a causa della pandemia sta subendo significativi ritardi, tanto che è stato aggiornato al settembre prossimo. Al contrario, il Covid-19 non è bastato a bloccare il processo contro le attiviste e gli attivisti del Movimento No Tap che negli anni si sono opposti alla costruzione di quest’opera fossile oltre che inutile. Il 19 marzo 2021, circa 90 persone sono state condannate in primo grado con pene fino a tre anni di reclusione, oltre all’interdizione dai pubblici uffici fino a 5 anni. Il giudice ha raddoppiato o addirittura triplicato le richieste di condanna avanzate dal pubblico ministero e in gran parte ignorato le sue richieste di assoluzione.
La «colonizzazione a metano» della Sardegna è invece un malcelato obiettivo da decenni, più per Snam che per il governo italiano che lo racconta come «necessario» per la decarbonizzazione dell’isola. Negli ultimi tre anni sembrava essersi sbloccata la cosiddetta dorsale sarda, un gasdotto che avrebbe attraversato l’isola. Sono stati presentati due progetti, la dorsale nord e la dorsale sud, entrambi messi da parte dopo l’analisi costi benefici. Ma da dove sarebbe arrivato questo gas? Snam ha previsto di collocare due terminal Lng (Gas naturale liquefatto) in mare, che in gergo si chiamano Floating Storage Regasification Unit (Fsru), a largo della costa di Porto Torres e di Portovesme, il gas arriverà sull’isola attraverso quella che è stata definita virtual pipeline, ovvero delle staffette di navi gasiere. Il terzo punto d’ingresso saranno i terminal Lng già costruito e i tre depositi Lng di Oristano.
Dopo la bocciatura della dorsale, molti hanno tirato un sospiro di sollievo credendo che la proposta alternativa ovvero le tre «mini»-dorsali – Porto Torres-Alghero-Sassari, Oristano-Arborea-Palmas e Portovesme-Iglesias-Assemini-Sarroch-Cagliari – fossero il male minore, quasi inevitabile per ravvivare l’ormai morente industria pesante sarda. Come ha invece confermato la stessa Snam a ReCommon «Snam prevede di realizzare in una prima fase tratti della rete sarda [le tre mini-dorsali, ndr]. È ragionevole ipotizzare che ulteriori tratti possano essere realizzati in una seconda fase qualora pervengano ulteriori richieste di allacciamento ma non è allo stato prevedibile quale sarà l’estensione finale dei tratti di rete sarda». Quindi scopriamo dalle parole dell’impresa stessa che le tre minidorsali non sono altro che la prima fase del progetto di metanizzazione dell’isola. Nonostante la bocciatura dell’analisi costi-benefici, Snam e Sgi stanno procedendo sperando in futuri cambi di rotta dei governi che seguiranno. Una vera e propria minaccia climatica, che si materializza quando è ormai conclamata la pericolosità e il peso del metano rispetto al surriscaldamento globale. Ma anche una mossa che crea un ostacolo alla piena elettrificazione dell’isola e a una transizione non solo ecologica ma anche giusta, capace di realizzare il cambio di modello a cui molti aspirano.
Un terzo dubbio riguarda proprio le pericolose emissioni di metano e il loro peso sul clima, in continuo aumento negli ultimi anni. Una ricerca del 2019 a firma del professor Robert W. Howarth della Cornell University è andata proprio a guardare quale fosse l’origine dell’incremento delle emissioni globali di metano registrato fra il 2005 e il 2015: oltre il 60% è stato generato dall’industria del gas fossile. Una stima forse conservativa, tanto che secondo lo stesso professor Howarth il dato probabilmente ha continuato ad aumentare dal 2015 a oggi. Prendiamo per esempio i dati satellitari delle missioni Sentinel2 e 5P di Copernicus su un «campione» molto significativo: il gasdotto Yamal-Europa (4.200 chilometri di lunghezza). Nel periodo 2019-2020 ci sarebbero state 13 perdite di gas con fuoriuscite fino a 164 tonnellate l’ora. Badate bene, non per incidenti ma per semplici operazioni di manutenzione. Gli scienziati hanno rilevato fuoriuscite di metano anche in altri gasdotti russi, kazaki e statunitensi.
Sebbene il metano rimanga in atmosfera solo 12 anni rispetto ai 500 della CO₂, soprattutto gli effetti a breve termine di questa sostanza sui cambiamenti climatici sono notevoli, specialmente se si inizia a registrarli in modo accurato. Parliamo di un effetto climalterante che è 86 volte quello della CO₂ in un arco di vent’anni e di oltre 100 volte più climalterante in un arco di dieci anni. Eppure in Europa le misurazioni satellitari del metano sono iniziate solo nel 2015 ed è fin troppo sottovalutato il problema delle emissioni fuggitive, ossia quelle ad esempio collegate a perdite costanti nei gasdotti, ma anche ai rilasci in atmosfera, conosciuti come venting, degli impianti industriali o collegate ai processi di liquefazione e rigassificazione.
Nel conteggio delle emissioni collegate alla propria attività, Snam non è diversa dalle altre società di trasporto del gas. Nel recente studio When Net Zero means not zero dell’Institute for Energy Economics and Financial Analysis (Ieefa), il calcolo delle emissioni di Snam risulterebbe sottostimato in quanto non sarebbero state incluse nel calcolo le Scope 3, ovvero le emissioni indirette riferibili all’intera catena del valore, che nel caso di Snam comprendono per esempio quelle derivate dall’utilizzo finale del gas che la società trasporta. Secondo Ieefa, fra il 2017 e il 2019 le emissioni derivate dall’utilizzo finale del gas trasportato da Snam, che l’azienda non include nel suo computo delle emissioni, ammonterebbero a 70 volte quelle ufficialmente dichiarate dall’azienda.
La società di San Donato milanese conferma che «le emissioni dirette di metano sono stimate fin dal 1995 in accordo al protocollo Gri-Us Epa (Gas Research Institute-Us Environmental Protection Agency), integrato negli anni con la metodica Marcogaz e, per le emissioni fuggitive, con misurazioni in accordo alla norma EN 15446. Inoltre, Snam dichiara le proprie emissioni in accordo al protocollo Ogmp 2.0 relativo al reporting delle emissioni di metano». Regole queste che lasciano un margine di interpretazione alle aziende proprio sul reporting delle emissioni scope 3, ma il fatto che non vengano riempiti i formulari non significa che le emissioni non ci siano.
Questo ritratto di Snam purtroppo è ancora poco noto ma, stando così le cose, questa società a controllo pubblico più che un supereroe della transizione ecologica sembra più che altro un blocco evidente alla stessa. Snam e le altre grandi società che sono responsabili della crisi che stiamo vivendo stanno tracciando una strada che porta a una modifica non sostanziale del mix energetico, che rafforza un modello centralizzato di produzione in cui poche aziende raccolgono i benefici, e che si affida con grande entusiasmo al mercato come guida suprema. Un approccio quasi fideistico che dimentica, o fa finta di farlo, come proprio il mercato ci abbia condotto maldestramente verso la crisi e come una transizione energetica solo apparente, ma in realtà basata su vecchie e obsolete ricette, sia una minaccia troppo grande per il clima e per le future generazioni.
Affidarci a Snam e alle sue sorelle, consegnando loro un immaginario assegno in bianco, è un rischio che non ci possiamo e non ci dobbiamo prendere. Risulta invece più che mai urgente informare i territori e costruire dal basso una risposta collettiva e democratica che generi sia risposte sulla matrice energetica, sia su un nuovo sistema, alternativo a quello che ci ha portato dentro questa crisi socio-ecologica.
*Elena Gerebizza è ricercatrice e campaigner di ReCommon dal 2012, si occupa della campagna contro il gas e le false soluzioni alla crisi climatica e
della campagna contro i mega-corridoi infrastrutturali. Filippo Taglieri, ricercatore e attivista di ReCommon dal 2017, lavora su campagne contro i combustibili fossili, soprattutto carbone e gas, e ha condotto ricerche sul campo, in particolare in America Latina, sugli impatti socio-ambientali delle industrie estrattive e delle grandi infrastrutture.
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