
La globalizzazione in crisi da successo
Produzione e commerci si dipanano ormai su scala planetaria. Ed è proprio il compimento di questo processo che genera le cause strutturali della crisi globale e del ritorno della geopolitica. Tra i suoi effetti: la guerra
Senza rimuovere il fatto che esiste un aggressore e un aggredito, che sono emersi nazionalismi e nuove volontà di potenza imperiale che seguono una dinamica e una logica autonome, vale la pena provare anche a indagare le ragioni strutturali che hanno favorito l’esplosione del conflitto e che ne condizionano gli esiti. Fuori da qualsivoglia logica meccanicista, è bene intendere su quale piano inclinato macroeconomico sono scivolate le attuali dinamiche.
La crisi asimmetrica della globalizzazione
La globalizzazione, affermatasi come superamento del modello fordista-keynesiano, dopo decenni di vento in poppa a partire dalla crisi finanziaria del 2008 mostra segni di difficoltà strutturale. Secondo la regola dell’eterogenesi dei fini, i punti di forza della globalizzazione hanno prodotto come effetto collaterale le ragioni della propria crisi. Una «crisi da successo».
La Cina da fabbrica del mondo dove delocalizzare le produzioni o rifornirsi di semilavorati a basso valore aggiunto, diventa potenza di prim’ordine. Il ruolo dell’Impero Celeste (e in seconda battuta di altri paesi asiatici) è stato essenziale per l’Occidente. Prima è stato innanzitutto un luogo d’investimento alla ricerca di lavoro a basso costo per alzare i profitti e contenere l’inflazione, poi è sempre più divenuto anche mercato di sbocco strategico. In entrambe i casi la Cina è stata determinante per rialzare i saggi di profitto caduti negli anni Settanta. La crescita economica imponente del gigante asiatico ha cambiato il quadro: alla concorrenza tra capitali si è affiancata la concorrenza tra potenze, incrinando progressivamente l’equilibrio unipolare raggiunto tra gli anni Ottanta e Novanta. La Cina è infatti riuscita ad acquisire parte del know how occidentale, a svilupparlo autonomamente in alcuni settori, al punto da sfidare le grandi multinazionali statunitensi e giapponesi sul terreno dell’innovazione tecnologica, inanellando contemporaneamente grandissimi surplus commerciali a tutto svantaggio, in particolare, degli Stati uniti.
La competizione globale da un lato ha fatto crescere i profitti delle multinazionali a trazione occidentale, ma dall’altro ha favorito un recupero di alcuni paesi nell’altra metà del pianeta. La crisi del 2008, arginata ma non risolta in via definitiva, ha reso evidenti le contraddizioni. In assenza di una strategia di rilancio di una crescita economica sistemica, ha prevalso la necessità per ogni paese di scaricare la crisi sui rivali. Le guerre valutarie, la competizione sulle terre rare e le materie prime, le guerre commerciali avviate con Obama e radicalizzate con Trump, fino allo scontro sui big data e le tecnologie informatiche, ne sono state le manifestazioni più evidenti. Dentro questa sfida geopolitica e dentro la crisi economica strisciante si è riaffermata la centralità dello stato.
Le tendenze protezioniste degli Stati uniti
Poco più di un anno fa The Economist affermava che «la geopolitica diventa sempre più conflittuale […] Man mano che la competizione tra America e Cina si intensifica, cresce la minaccia di embarghi o persino di conflitti militari». Le difficoltà registrate nei paesi occidentali e la crescente penetrazione commerciale dei paesi emergenti, in particolare della Cina, hanno dato vita a una progressiva reazione difensiva. Tale processo ha preso corpo negli Usa con l’approvazione di un numero significativo di barriere commerciali nei confronti di paesi potenzialmente concorrenti, compresi quelli europei.
Dal 2018 Trump, giustificandola con ragioni di sicurezza nazionale, ha iniziato una guerra doganale con la Cina senza precedenti, una guerra che colpiva anche l’Unione europea. Emblematica la vicenda dell’acciaio e dell’alluminio dove i dazi sono saliti al 25% e al 10%. L’anno successivo vi fu una contrazione di un terzo delle vendite di acciaio dal Vecchio continente agli Stati uniti. Biden non ha dismesso l’orientamento protezionista, ma lo ha ricalibrato puntando nuovamente a un asse con l’Europa che ha portato a una distensione doganale nel 2021. Una Ue che Eurostat afferma aver sostituito gli Usa con la Cina come principale partner commerciale nel 2020, grazie alla crescita delle importazioni (+5,6%), ma anche delle esportazioni (+2,2%). Una tendenza che si è rafforzata nel 2021, con un ulteriore aggravio per la bilancia commerciale del Vecchio continente. L’idea che sembra emergere è quella di un protezionismo macroregionale contro la Cina e i suoi principali alleati, nel tentativo di bloccarne l’espansione commerciale costruita a suon di accordi di libero scambio e acquisizioni strategiche.
La nuova presidenza sembra propensa alla ricerca di un’unità occidentale contro la Cina, e ha rispolverato uno schema politico ideologico non privo di contraddizioni su cui definire e legittimare lo scontro. Nell’ultimo decennio si è affermato il paradosso che i padri della globalizzazione, Stati uniti e Regno unito, hanno tirato il freno e la Cina è rimasta il principale baluardo a difesa dell’internazionalizzazione dell’economia. Celebre in tal senso nel 2017 l’intervento di Xi Jinping tenuto a Davos a difesa della globalizzazione dove affermò: «Piaccia o no, l’economia globale è l’enorme oceano dal quale nessuno può tirarsi fuori completamente». Negli Usa e in Uk si sono affermati, invece, ambiziosi, in alcuni casi persino dubbi, programmi di reshoring (rilocalizzazione delle industrie). Si è diffuso un punto di vista dubitativo sul valore assoluto degli scambi internazionali e al contempo sui rischi di un espansionismo incontrollato di imprese e paesi stranieri nei gangli economici nazionali. L’Europa e i paesi asiatici tradizionalmente alleati con gli Usa vivono questa radicalizzazione dello scontro con la Cina con enormi contraddizioni e rischiano di dover frettolosamente rivedere piani di sviluppo e alleanze commerciali. La penetrazione cinese in Europa era diventata sempre più evidente.
In fondo la politica europea è da tempo attraversata da contraddizioni e polarizzazioni relative ai rapporti con la Cina e con la Russia. Dal 2002 i rapporti commerciali Germania-Cina sono decuplicati, facendo della Cina il primo partner della Germania. Le imprese tedesche realizzavano profitti e quelle cinesi assorbivano know how manifatturiero. Dal 2016, però, agli scambi si sono aggiunte le acquisizioni, finendo per far sollevare anche in questo caso problemi di natura strategica e di tutela degli interessi nazionali tedeschi. Col tempo, come ci ricorda Jacob Shapiro, la Cina da «partner strategico» della Germania è stata considerata un «competitore sistemico». Il contestato e attualmente messo in soffitta Memorandum italo-cinese del primo governo Conte (quello con la Lega) è stato un altro esempio di difficoltà registrate da un paese orientato all’export, ma anche di una parte dell’Europa potenzialmente contesa economicamente tra Cina e Usa, e prontamente richiamata all’ordine dalla politica statunitense e dagli eventi degli ultimi due anni.
Il ritorno della geopolitica
La Cina per alcuni paesi occidentali dotati di un’industria di qualità, dunque, ha fatto crescere le esportazioni e al contempo ha favorito l’arrivo di investimenti e capitali, ma questo ha posto sempre più un problema geopolitico, sia relativamente alla proprietà degli asset nazionali e strategici, sia all’alleanza con gli Usa. Il repentino sviluppo cinese ha anche prodotto un aumento dei costi interni, compreso quello della forza lavoro, spingendo un numero significativo di multinazionali a delocalizzare ulteriormente in paesi limitrofi, pratica però ora utilizzata anche direttamente dalle industrie cinesi che definiscono nuove gerarchie nelle catene di produzione. Con l’esclusione di Malaysia e Thailandia, tutti gli altri paesi asiatici firmatari l’accordo Asean (Associazionw delle nazioni del sud-est asiatico), a partire da Vietnam, Singapore e Indonesia, registrano saldi negativi con la Cina, divenuta anche per quest’area primo partner commerciale.
La progressiva chiusura statunitense negli ultimi anni ha avviato una corrispondente reazione cinese, fatta di contro-dazi, ma anche di riaffermazione della logica della globalizzazione liberista. Gli investimenti di Pechino in alcuni paesi occidentali, e in particolare negli Usa, si stanno riducendo, mentre aumentano quelli in Asia, Africa e America Latina. La Cina ha anche formalizzato un accordo commerciale fondato sul libero scambio con, tra gli altri, Corea del Sud, Giappone e Australia. Costruire zone di libero scambio anche con alleati storici degli Stati uniti sembra essere l’orientamento della Cina, ma questo contraddice la logica cinese della «circolazione duale» rivisitata dagli Usa, secondo cui si ambisce a un equilibrio tra apertura e sicurezza interna. Reggerà questo accordo al nuovo quadro politico in via di affermazione?
È in questo contesto di tensioni che i rapporti commerciali tra Cina e Russia sono cresciuti. Il volume degli scambi tra i due paesi è aumentato dal 2010 del 167% e del 35,9% solo nell’ultimo anno con 146 miliardi di dollari. Si badi all’anno di riferimento (2010, dopo crisi finanziaria) e all’accelerazione degli ultimi tempi. In 10 anni gli interscambi della Russia con la Cina sono raddoppiati, passando dal 9% del totale al 18% (dati Unctad), mentre per la Cina la Russia rappresentava e rappresenta il 2% del totale (dato che evidenzia l’espansione commerciale della Cina negli ultimi 10 anni). Anche nelle forniture energetiche sono rintracciabili cambiamenti importanti. La vendita di gas russo alla Cina, che scommette su questo idrocarburo con l’obiettivo di ridurre le proprie emissioni, è un esempio di forte attualità. Una vendita che si è concretizzata solo a partire dalla fine del 2019, con commesse cresciute da 0,328 a 4,101 miliardi di metri cubi nel corso del 2020. L’export di gas russo, sebbene non raggiunga ancora le punte del 2018, cresce in maniera decisa, contribuendo a spostare verso l’Asia il baricentro commerciale del paese. Il parziale affrancamento dall’Europa ha reso nel tempo più forte contrattualmente la Russia e più praticabile la scelta dello scontro.
Verso un’instabile deglobalizzazione selettiva
La pandemia e la guerra si sono innestate sul panorama descritto e hanno favorito l’orientamento politico Usa, spingendo stati e imprese a differenziare le catene di approvvigionamento accorciando le distanze. Questo dato non è immediatamente visibile sul commercio internazionale: se la crescita annuale è passata dal 7% precedente al 2008 al 3,5% nei 12 anni successivi, è pur vero che nel 2021 esso è cresciuto del 13% rispetto ai livelli prepandemici. Le catene produttive e commerciali non ripiegano sul piano nazionale, ma cambiano le rotte e i flussi. Tutto ciò avviene in un quadro regolatorio che non è più quello dei grandi organismi internazionali e del liberismo più sfrenato. Protezionismo selettivo e accordi bilaterali sembrano disegnare un nuovo orizzonte politico ed economico particolarmente instabile e dominato da alleanze macroregionali. Dal rallentamento della globalizzazione siamo passati alla deglobalizzazione selettiva in settori strategici (energia, semiconduttori, alimentare, informatico) e incardinata su base geopolitica. Quanto questo nuovo quadro si consoliderà sarà profondamente condizionato dall’esito del conflitto militare.
L’inflazione è la registrazione di questa instabile e costosa ridefinizione. L’interventismo monetario e fiscale utilizzato per fronteggiare i blocchi economici, combinato con una successiva ripartenza della domanda e una incertezza dell’offerta, hanno rappresentato l’innesco di una spirale dei prezzi che non si vedeva da circa quarant’anni. La guerra ha indubbiamente approfondito questa dinamica già avviata. Un’inflazione strutturale che è, in fondo, l’effetto dell’insieme delle contraddizioni della crisi dell’economia a debito di cui abbiamo ampiamente scritto su questa rivista.
In questo quadro in formazione vanno rilevate tendenze contraddittorie che confermano quanto l’instabilità sia la cifra del momento. Dal 2019 si registra un deflusso di capitali dalla Cina e nei primi mesi del 2022, secondo dati dell’Istituto di Finanza Internazionale (Iif), anche un record di vendite di azioni e obbligazioni cinesi da parte di investitori stranieri. Una dinamica sospinta anche dalla perdurante centralità del dollaro e dall’aumento dei tassi d’interesse avviato dalla Fed (la banca centrale degli Usa) che hanno finito per favorire un deflusso di capitali dai paesi indebitati proprio nella divisa statunitense. La Cina ha da un parte siglato accordi per contenere il surplus commerciale, ma poi li ha anche sistematicamente disattesi.
La guerra ora è certamente il frutto delle mire russe, ma anche di movimenti fondati sul recupero di centralità degli assetti geopolitici. Il modello costruito negli ultimi quarant’anni non scomparirà, ma certamente verrà riconfigurato, con un inevitabile aumento dei costi. Oltre la durata della guerra i suoi strascichi, a partire dalle sanzioni, scardineranno il vecchio modello favorendo il consolidamento del partito della deglobalizzazione selettiva guidato dagli Usa. Sui quotidiani europei mainstream fioccano articoli sull’autonomia nazionale o, addirittura, su un’impossibile autarchia. I partiti filo russi o filo cinesi sono spiazzati. La finanza, gli scambi commerciali e l’industria dovranno trovare equilibri su una scala geografica minore. Ci sarà una spinta verso il ritorno dei magazzini e di filiere corte.
Leggere la guerra oggi o gli effetti della pandemia ieri come fattori esogeni ai consueti meccanismi di sviluppo dell’economia di mercato significa non comprendere quali moventi all’agire in questi anni hanno spinto nella direzione che stiamo drammaticamente vivendo.
*Marco Bertorello collabora con il manifesto ed è autore di saggi su moneta e debito. Danilo Corradi insegna filosofia e storia ed è docente a contratto all’Università Tor Vergata. Insieme hanno scritto Capitalismo tossico (Alegre, 2011).
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