La grève générale può fermare Macron
Da venerdì la Francia è investita da una lotta imponente di lavoratori contro l’attacco al sistema pensionistico. Il presidente vorrebbe diventare la «Thatcher francese» ma gli scioperi possono fermarlo
Non c’è nessun dubbio sull’importanza degli scioperi dello scorso venerdì in Francia. Gli eventi del 5 dicembre hanno rappresentato un potente contraccolpo all’assalto alle pensioni sferrato da Emmanuel Macron, e hanno dimostrato che ci sono milioni di persone pronte a resistere al suo piano di smantellamento del welfare francese. Composta da mobilitazioni locali in centinaia di cittadine e città in tutta la Francia, non è stata semplicemente una «giornata di mobilitazioni», ma il primo giorno di quello che ora sembra come un’ondata prolungata di scioperi.
Già venerdì la partecipazione è stata impressionante. L’attività economica di Parigi e dintorni ha subìto una battuta d’arresto, con le stazioni della metro quasi tutte chiuse. In tutta la Francia, più del 90 percento del servizio ferroviario è stato sospeso, e gli impiegati del settore pubblico, dai postini agli addetti agli impianti nucleari e ai magistrati, si sono uniti allo sciopero in gran numero. Ancora più impressionante è stato il coinvolgimento di massa degli e delle insegnanti, che non solo si trovano a dover contrastare i pesanti tagli alle pensioni, ma anche un accumulo di «riforme» che hanno fatto aumentare la pressione sul settore.
I lavoratori del settore privato hanno partecipato con numeri più bassi, ma comunque significativi: per giovedì, la Confédération générale du travail (Cgt) aveva ricevuto appelli allo sciopero da almeno duecento luoghi di lavoro privati in tutto il paese. Come previsto, i lavoratori delle raffinerie si sono uniti allo sciopero in massa, e c’è stata anche una partecipazione significativa delle compagnie aeree nazionali. Gli impianti della Renault hanno annunciato che circa il 5 percento della loro forza lavoro ha preso parte allo sciopero – una percentuale modesta, se confrontata con le mobilitazioni storiche, ma comunque la più alta dell’ultimo decennio a livello aziendale.
La dimensione delle manifestazioni era un altro test chiave per la mobilitazione. Di nuovo, questi numeri sono la prova di un dinamismo reale. Mentre le fonti ufficiali dichiarano che a Parigi sono scese in strada circa 70 mila persone e 806 mila in tutto il paese, i sindacati ne stimano 250 mila per la capitale e un milione e mezzo in tutta la Francia; diversi giornalisti dei media locali hanno parlato di più di un milione di persone a livello nazionale.
Il movimento non è affatto limitato alla sola Parigi. Tolosa ha visto scendere in piazza il maggior numero di persone in rapporto alla popolazione (un centinaio di migliaia, secondo gli organizzatori). Contemporaneamente, la vecchia città portuale di Le Havre ha avuto la maggior partecipazione osservabile dei lavoratori del settore privato (scaricatori, lavoratori e lavoratrici del settore delle costruzioni, delle raffinerie e dei call center), come era successo anche nel 2016 con il movimento contro la Loi Travail (la riforma del lavoro). Il successo più grande è tuttavia rappresentato dal numero impressionante di persone che sono scese in piazza in centinaia di città di piccole e medie dimensioni – un segnale inequivocabile della diffusione della mobilitazione nella società francese.
Le manifestazioni hanno permesso una convergenza efficace tra settori differenti. Ai lavoratori del trasporto pubblico e agli insegnanti si sono uniti anche gli studenti e le studentesse delle scuole superiori e delle università, i gilets jaunes, e i lavoratori e le lavoratrici di altre categorie. Ma questi diversi gruppi sono anche uniti dalla consapevolezza che per sconfiggere Macron sarà necessario molto più che un singolo giorno di mobilitazione. Questa consapevolezza è in realtà diffusa in tutta la popolazione: tutti i sondaggi mostrano un consenso maggioritario agli scioperi.
Durante l’ultimo anno di proteste dei gilets jaunes, molti hanno sostenuto che le manifestazioni e gli scioperi non fossero più mezzi efficaci di azione collettiva. Un singolo giorno di mobilitazione, lo scorso venerdì, in cui i lavoratori e le lavoratrici hanno paralizzato l’economia, è stato sufficiente a dimostrare il contrario. E di fronte al tentativo di Macron di fare a pezzi il welfare francese, i segnali che arrivano ci dicono che questo movimento è qui per restare.
Una tradizione di proteste
Il consenso per questo sciopero non arriva dal nulla, così come il desiderio di Emmanuel Macron di arrivare a uno scontro totale stile Thatcher con il welfare state, ancora oggi un esempio di «eccezione francese». Infatti la reputazione delle proteste francesi – spesso denigrata come «mal francese» – è più che meritata. In particolare, le storia della lotta al neoliberismo dei lavoratori e delle lavoratrici francesi è unica in tutte le società a capitalismo avanzato. Dalla metà degli anni Ottanta a oggi, contro le riforme neoliberiste sono scoppiati con regolarità movimenti di massa. Ma ancora più straordinario è il fatto che, contrariamente a quanto accaduto nel resto d’Europa dopo lo sciopero dei minatori inglesi del 1984-85, non tutti questi movimenti sono stati sconfitti.
Nel 1986, la rinascita di un movimento studentesco ha bloccato il tentativo di introduzione di nuove tasse universitarie. L’accesso all’educazione superiore è ancora oggi essenzialmente gratuito, malgrado la recente tendenza a far pagare agli studenti determinati master e l’introduzione di tasse per gli studenti che provengono da paesi al di fuori dell’Unione europea.
Nel 1995, un’ondata di scioperi dei lavoratori del settore pubblico è riuscita a fermare la «riforma» dei loro fondi pensione voluta dal governo di centro-destra di Alain Juppé. Due anni dopo, la destra è stata sconfitta nelle elezioni anticipate indette dal Presidente Jacques Chirac, vinte da un governo di «sinistra plurale».
In tempi più recenti, nel 2006, una mobilitazione giovanile, supportata da manifestazioni di massa dei sindacati, ha costretto il governo a ritirare un disegno di legge che introduceva contratti di lavoro precari (le contrat première embauche, Cpe) per i lavoratori al di sotto dei ventisei anni. Infine, il movimento dei gilets jaunes iniziato nel novembre del 2018 – e che continua ancora oggi – ha forzato Emmanuel Macron ha rinunciare all’aumento previsto delle tasse sul carburante e sulle pensioni, e ad annunciare nuove misure per calmare le proteste.
La fine dell’eccezione francese
Questo non significa che il neoliberismo francese abbia fermato la sua corsa; in realtà, altre grandi mobilitazioni hanno fallito nel centrare l’obiettivo, soprattutto le battaglie contro le riforme delle pensioni nel 2003 e nel 2010. Ma la resistenza protratta al neoliberismo ha avuto un impatto realmente duraturo, e ci spiega come mai il welfare state transalpino si sia dimostrato più resiliente dei rispettivi omologhi di altre nazioni occidentali. Per la disperazione delle élite domestiche e dei burocrati di alto rango nell’Unione europea e nell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), la Francia ha la spesa pubblica più alta in rapporto al Pil; con il suo 55 percento circa, il suo livello di spesa pubblica supera quello di tutti i paesi scandinavi, ed è più alto del 10 percento di quello della Germania e della media dei paesi Ocse.
La presidenza di Macron, appoggiata prevalentemente dalla classe capitalista francese e dalle sue controparti europee, era sin dall’inizio orientata a mettere fine all’«eccezione francese». Per il primo anno e mezzo dopo le elezioni sembrava quasi che ce l’avrebbe fatta. Un’ondata di riforme neoliberiste si è abbattuta su quasi tutte le aree di attività economica e sociale: il sistema scolastico è stato subordinato a un programma di selezione, mentre i trasporti pubblici e ferroviari sono stati aperti al meccanismo della competizione e svenduti al settore privato.
La legislazione sul lavoro è stata ulteriormente adattata alle norme di un mercato del lavoro flessibile, l’edilizia popolare è stata costretta a vendere parte dei propri immobili, e il settore pubblico nel suo insieme è stato sottoposto a tagli importanti, mentre il sistema sanitario ha dovuto affrontare un livello mai visto di stress e carenze. Attacchi ugualmente duri sono stati sferrati ai vari movimenti di protesta contro l’inasprimento delle politiche neoliberiste, con livelli di repressione mai visti dal 1968. In particolare i gilets jaunes sono stati oggetto di una brutalità poliziesca e giudiziaria estrema, con centinaia di feriti, oltre tremila condanne e diecimila arresti durante le mobilitazioni.
Un test cruciale
Quest’autunno, Macron avrebbe potuto vantarsi di aver spezzato la resistenza, passando sopra a tutto come un rullo compressore per eliminare ogni ostacolo alla sua agenda politica. Ma la riforma delle pensioni non poteva che essere il test decisivo per la sua autorità.
Questa riforma strutturale è stata in cantiere per anni – ed è pensata come mossa cruciale per smantellare il modello sociale francese. Nata con questo spirito, la riforma tenta di rimpiazzare il suddetto modello con un regime neoliberista basato sui sussidi minimi statali, integrato con i fondi pensionistici privati e i redditi extra che l’esercito di riserva dei più anziani si prevede debba portare dalle attività di lavoro salariato continuative.
Macron e il suo governo presentano il nuovo sistema come «più equo» dato il suo supposto carattere «universale» – e cioè, un sistema unico per tutti i lavoratori salariati e persino per molti dei liberi professionisti. E dunque quanti vi si oppongono non possono che essere motivati dal loro desiderio di preservare i «privilegi corporativi», come i lavoratori dei trasporti pubblici e delle ferrovie che possono andare in pensione prima degli altri come compensazione per le loro condizioni lavorative e i loro orari.
Ma non c’è voluto molto per capire che questa riforma non avrebbe portato a un «livellamento al rialzo» sui diritti pensionistici, ma a un «livellamento al ribasso», e cioè a un innalzamento dell’età pensionistica per tutti. Malgrado gli sforzi intensi degli spin doctor governativi e dei media conniventi, per la fine di novembre i sondaggi riportavano che circa due terzi della popolazione rifiutava la proposta di riforma e appoggiava gli scioperi che vi si opponevano.
La battaglia di Macron
Da quel momento, è stato chiaro che il governo stava andando deliberatamente verso uno scontro sociale su scala di massa. Macron in realtà sta cercando un momento decisivo equivalente a quello rappresentato dallo sciopero dei minatori per la Thatcher nel Regno unito.
Ma il rapporto di forze con cui si deve confrontare si è rivelato molto più insidioso. Anziché puntare a un singolo settore, questa riforma offre su un piatto d’argento ciò che era mancato alle proteste precedenti: e cioè, la convergenza di varie mobilitazioni su un singolo obiettivo che compatti l’opposizione più ampia contro l’intero regime neoliberista. Ed è evidente che solo i sindacati possono essere la spina dorsale di un movimento tanto generalizzato.
Non è un compito semplice. I fallimenti successivi delle mobilitazioni degli ultimi anni hanno indebolito i sindacati, soprattutto i più combattivi (la Cgt e la Sud, Union syndicale Solidaires). Lo scorso anno, la riluttanza della Cgt a unirsi al movimento dei gilets jaunes ha creato ulteriori difficoltà nel riunire strati più ampi attorno ai settori più combattivi della classe lavoratrice.
Ma alcuni, almeno, hanno imparato delle lezioni strategiche dai movimenti precedenti. Soprattutto, un numero sempre maggiore ha capito che la tendenza dei leader sindacali a scegliere forme discontinue di sciopero frammentate lungo linee categoriali si è rivelata inefficace e divisiva, minando la necessaria unità su obiettivi condivisi.
Il movimento partito il 5 dicembre beneficia di questa difficile esperienza. Era chiaro sin dall’inizio che la prospettiva necessaria era quella di uno sciopero generale – un’escalation sindacale dove la base stessa potesse assumere il ruolo di leader, attraverso assemblee quotidiane a livello locale. Questo è stato fondamentale non solo per chiedere conto ai leader sindacali delle loro azioni, ma anche per costruire dal basso la convergenza necessaria con altri gruppi come i gilets jaunes, gli studenti e le studentesse, e i lavoratori e le lavoratrici della sanità che avevano già dato vita a scioperi importanti.
La settimana decisiva
Nei settori più colpiti (i trasporti, le ferrovie, le raffinerie) gli scioperi si sono protratti fino a lunedì. Il test decisivo per questo movimento sarà senza dubbio la prossima settimana. Gli scioperi potrebbero non trasformarsi in un vero e proprio sciopero generale di tutti i lavoratori. Ma è chiaro che uno sciopero per delegati – in cui la maggioranza delega lo sciopero ai lavoratori e alle lavoratrici del settore pubblico, strategicamente potenti, mentre si limita a dare un supporto passivo – non sarà sufficiente.
Con questo spirito, i sindacati francesi hanno annunciato due ulteriori giorni di manifestazioni martedì e giovedì prossimo, e soprattutto hanno invocato un «proseguimento e rafforzamento» degli scioperi nei diversi settori. In risposta a questo movimento, si prevede che il governo annunci nuove misure mercoledì prossimo – anche se si pensa che le eventuali concessioni saranno puramente decorative. È chiaro che continuare a sostenere la mobilitazione è la prima condizione per un movimento in grado di scuotere la presidenza di Macron dalle fondamenta.
In questa lotta, i sindacati hanno la rara opportunità di ritornare a essere la spina dorsale dell’opposizione all’offensiva neoliberista. Dopo il 5 dicembre, le condizioni sono ideali non solo per un momento di protesta simbolica, ma per una lotta che punti a una vittoria concreta. Questo è in sé stesso un obiettivo importante, e una lezione preziosa per le battaglie future.
*Stathis Kouvelakis insegna teoria politica al King’s College di Londra ed è autore tra l’altro di Filosofia e rivoluzione (Alegre). In passato ha fatto parte del comitato centrale di Syriza. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Gaia Benzi.
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