La lezione di David Card
Il premio Nobel per l'economia è andato quest'anno allo studioso che ha dimostrato l'impatto positivo del salario minimo. I sui studi andrebbero considerati anche in Italia, dove il 12% dei lavoratori e delle lavoratrici è a rischio povertà
Il premio Nobel per l’economia è stato assegnato a David Card, Joshua D. Angrist e Guido W. Imbens per il loro «contributo empirico allo studio del mercato del lavoro e per le contribuzioni metodologiche allo studio delle relazioni causali». Gli studi dei tre neopremiati si prefiggono l’obiettivo di valutare – il più precisamente possibile – l’impatto causale di specifici elementi istituzionali del mercato del lavoro come il salario minimo, i cambi strutturali nelle distribuzioni occupazionali e salariali o ancora gli effetti causali dell’immigrazione sul mercato del lavoro.
L’applicazione di metodi econometrici innovativi (J.D. Angrist e G.W. Imbens) allo studio del mercato del lavoro (D. Card) ha rivoluzionato l’approccio analitico, sostituendo i più naif studi correlazionali. Inoltre, i precedenti approcci erano maggiormente soggetti alla discrezionalità (ideologica) del ricercatore e al p-hacking (fermare le analisi al raggiungimento della significatività statistica) o cherry-picking (selezionare i risultati in base alla tesi che si vuole dimostrare).
In questo senso, lo sviluppo delle tecniche di differenza-alle-differenze (DiD) o di regression-discontinuity (RD), variabili strumentali, matching, ecc., rappresentano un modo per far parlare più sinceramente i micro-dati, sfruttando i cosiddetti esperimenti naturali o quasi-sperimentali. Esempi di quasi-esperimenti naturali sono proprio l’introduzione del salario minimo in uno Stato (regione) o modifiche nella legislazione in merito all’immigrazione.
I precedenti Nobel Banerjee, Duflo e Kremer si focalizzano e creano esperimenti aleatori controllati a livello micro/individuale per valutare scientificamente se una misura è efficiente per la riduzione della povertà. Il loro approccio, come discusso in precedenza, rimane all’interno della cornice teorica mainstream focalizzandosi sull’individuo astraendo dal contesto sociale, economico, politico, e dai cambiamenti strutturali e delle dinamiche redistributive. Al contrario, il neo-Nobel David Card impiega il rigore scientifico della «credibility revolution» – come riporta lo stesso Angrist in collaborazione con Pischke – per la comprensione di fenomeni sociali aggregati, per comprendere come l’evoluzione delle istituzioni del mercato del lavoro nel loro complesso influiscono materialmente all’interno della società.
Salario minimo e teoria mainstream
Nella teoria neoclassica la principale tesi per opporsi al salario minimo è quella che sostiene che gli aumenti nei minimi salariali sono sfavorevoli per i lavoratori perché il salario minimo aumenterebbe la disoccupazione. Questa tesi deriva dalla complementarità di due aspetti. Il primo, è che il tasso di occupazione-salario di equilibrio vengono determinati dall mercato del lavoro. Il secondo, conseguente, è che se il prezzo del bene lavoro aumenta, allora la quantità domandata dalle imprese diminuisce.
Questo significa che – come introdotto da Milton Friedman – esiste un tasso di disoccupazione «naturale» (Nairu) che rappresenta la piena occupazione e determinato dalle libere scelte di massimizzazione dell’utilità individuale: è l’individuo che volontariamente sceglie se offrire il proprio lavoro al salario proposto in corrispondenza del tasso di disoccupazione «naturale». Inoltre, se il mercato del lavoro fosse pienamente Walrasiano (assenza di eccesso di domanda nel mercato), allora il tasso di disoccupazione naturale dovrebbe tendere allo zero. In altre parole, sono le frizioni nel mercato del lavoro, cioè quelle istituzioni e meccanismi che lo allontanano dal mercato perfetto, che creano la disoccupazione. Ne consegue che per la teoria neoclassica è necessario ridurre al minimo queste frizioni per minimizzare la disoccupazione stessa.
A parte considerazioni pratiche come un tasso di disoccupazione in Italia costantemente nell’intorno del 10% con effetti di isteresi (ossia l’incapacità del tasso di disoccupazione di ritornare a livelli pre-crisi), ci sono rilevanti considerazioni teoriche. Rimanendo all’interno delle relazioni tra prezzo e quantità domandata, affermare che un aumento del prezzo del bene lavoro riduca la domanda di lavoratori si basa sulla assunzione di ceteris paribus. In altre parole, la relazione «causale» inversa tra domanda e prezzo è definita assumendo che tutte le altre variabili che influiscono sulla domanda siano costanti. È Alfred Marshall che introduce l’assunzione di ceteris paribus e l’analisi per equilibri-parziali che costituiscono la base teorica per l’affermazione della relazione «causale» inversa.
Tuttavia, il mercato del lavoro non può essere analizzato con l’assunzione di ceteris paribus o preso singolarmente: i prezzi di equilibrio nel mercato del lavoro dipendono dall’equilibrio degli altri mercati. Ad esempio, in una visione classica dell’economia – da Smith a Marx – i salari non sono determinati dall’equilibrio di domanda e offerta nel mercato del lavoro. Per Smith ad esempio (spesso erroneamente preso come modello dei neoclassici) il salario è determinato dal livello minimo di sussistenza e – come riprenderà Marx successivamente – dal potere contrattuale dei lavoratori, che è funzione inversa del tasso di disoccupazione. Anche nella visione Keynesiana il tasso di occupazione non è determinato nel mercato del lavoro, bensì nel mercato dei beni: è la domanda di beni che determina il livello di occupazione. Ad aumenti di domanda di consumo dovuti a maggiori salari, consegue un aumento della produzione e, quindi, un aumento della domanda di lavoro. È perciò l’equilibrio nel mercato dei beni a determinare il tasso di occupazione che non fluttua attorno a un tasso Walrasiano «naturale», ma è uno dei tanti risultati di un continuum di outcome dell’economia.
I risultati della micro-econometria
I lavori di Card si inseriscono all’interno di questo quadro teorico e forniscono una prova scientifica nel cortocircuito delle previsioni neoclassiche.
Uno dei contributi più famosi del neo-Nobel (in collaborazione con Alan Krueger) è «Minimum wages and employment: a case study of the fast-food industry in New Jersey and Pennsylvania». Come già anticipato in un articolo commemorativo per Alan Krueger, attraverso una delle tecniche econometriche principalmente studiate e sviluppate da Angrist & G.W. Imbens, si dimostra come l’aumento del salario minimo nel settore del fast-food in New Jersey non abbia causato una diminuzione dell’occupazione, ma al contrario un suo aumento.
Un altro contributo è «The impact of the Mariel Boatflit on the Miami labour market» il cui obiettivo è valutare l’effetto di un flusso immigratorio sul mercato del lavoro a Miami. Sfruttando un aumento della forza lavoro pari al 7% a seguito di un flusso migratorio da Cuba verso Miami, Card anticipa il dibattito teorico-empirico che si svilupperà con Borjas (2003): l’immigrazione riduce o meno i salari dei nativi? Le risposte di David Card, così come di Ottaviano e Peri, sono contrarie a Borjas e alla teoria neoclassica in quanto non trovano alcun effetto negativo sulla distribuzione salariale dei nativi. Anzi, Ottaviano-Peri, basandosi sul concetto di complementarietà-sostituibilità, individuano un leggero ma significativo effetto positivo per i residenti statunitensi, mentre l’effetto negativo è assorbito da altri lavoratori immigrati.
Le tecniche micro-econometriche e i contributi dei tre neopremiati hanno dato vita a una ricerca continua nella letteratura sull’economia del lavoro. Recenti contributi riguardano il caso tedesco, dove C. Dustmann et al. (2020) osservano che a seguito dell’introduzione di un salario minimo nazionale c’è stato un aumento dei salari senza una riduzione dell’occupazione. Inoltre, il salario minimo ha contribuito a cambi occupazionali, incentivando i lavoratori a basso salario a spostarsi da piccole imprese a bassi salari a più grandi imprese che tradizionalmente pagano salari maggiori.
J. Clemens & M.R. Strain (2019) utilizzando un aggiornamento della DiD osservano che nel medio periodo l’effetto di un aumento contenuto del salario minimo è tendenzialmente zero. Ma non ci sono solo effetti sull’occupazione: P. Redmond et al., (2020) hanno comprovato come l’aumento del salario minimo sia efficace nell’aumento dei salari fino al trentesimo percentile.
Il caso Italia
In Italia circa il 12% dei lavoratori e lavoratrici è a rischio povertà e 4.6 milioni guadagnano meno di 9 euro l’ora, secondo il diciannovesimo rapporto annuale dell’Inps. Nonostante ciò, sia da destra che da sinistra con Pd e sindacati confederati che – contrariamente a quanto dimostrato dai neo-Nobel – si continua ad affermare che il salario minimo fa male.
Il salario minimo nel caso italiano non comporterebbe una perdita del ruolo dei sindacati ma, al contrario, li rinvigorirebbe. Rimasti arroccati in posizioni di conservazione corporativa e incapaci di fronteggiare l’avanzata padronale, i sindacati non sono in grado di proteggere una buona parte delle lavoratrici e dei lavoratori. Quasi la maggioranza dei loro iscritti è costituita da pensionati e la cosiddetta union density è intorno al 34%. Proprio Card, tra gli altri, ha dimostrato come una caduta del potere sindacale e del tasso di sindacalizzazione sia uno dei fattori che spiegano l’aumento delle disuguaglianze salariali.
Il salario minimo consentirebbe anzitutto di coprire gli esclusi dal contratto collettivo nazionale che, considerando tutte le forme di lavoro oltre a quella tradizionale dipendente è pari al17,7% secondo le stime dell’Inapp. Nonostante possa sembrare che ci sia una copertura elevata, l’azione dei sindacati nei contratti collettivi è costantemente minacciata da accordi pirata e conseguente esistenza di contratti collettivi con salari orari ben al di sotto dei 9 euro l’ora. Questo comporta un’ulteriore frammentazione all’interno del lavoro, dove a parità di mansione-occupazione si hanno salari diversi: la frammentazione e competizione tra lavoratori spinge ulteriormente al ribasso i salari. In questo senso, la proposta di Boeri-Perotti di un «livello ragionevole tra il 40% e 50% del salario mediano» è totalmente insufficiente. Considerando il totale del settore privato, il salario orario mediano è pari a 11,2 (mentre i lavoratori a tempo determinato prevedono un salario orario mediano di circa il 9% più basso). Secondo la proposta Boeri-Perotti questo equivale a un salario minimo nell’intorno di 5 euro l’ora. Vi sembra uno strumento di lotta contro la povertà salariale? La proposta dei due bocconiani consente alle imprese di continuare a offrire salari da fame, abbattere i costi del lavoro e lasciare in povertà milioni di lavoratori.
È per questo che anche i sindacati dovrebbero schierarsi per l’introduzione di un salario minimo al di sopra dei 9 euro: garantirebbe l’uscita dalla povertà di milioni di persone e darebbe maggior vigore al sindacato per contrattare condizioni qualitative migliori in tutti i settori e in tutte le forme occupazionali (comprese le atipiche) con l’obiettivo di aumentare la partecipazione sindacale e, quindi, la partecipazione democratica all’interno della produzione.
Se c’è una lezione che la sinistra italiana deve apprendere da questa assegnazione del Nobel per l’economia è proprio quella di superare il tabù del salario minimo.
*Luca Giangregorio PhD student in Social Sciences presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona.
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