
L’uomo che insegnò ai liberali il salario minimo
Aumentare i salari e rendere più democratico il sistema scolastico fa bene all'economia. Lo sosteneva Alan Krueger, economista (liberal)democratico la cui lettura è utile a comprendere cosa muove il mercato: il lavoro e le disuguaglianze
L’economia è una scienza sociale. Come scienza, richiede una metodologia che garantisca un rigore e una sicurezza nei suoi studi. L’aggettivo sociale specifica che questo rigore metodologico dovrebbe essere indirizzato a una comprensione dei complessi fenomeni sociali per definire e promuovere miglioramenti generalizzati delle condizioni umane e materiali, mai nascondendo tuttavia la propria visione di società, la propria impostazione ideologica.
In questo senso, Alan Krueger, 58 anni, professore in Economics dal 1987 alla Princeton University la cui morte è stata annunciata lunedì 18 marzo, era un modello di scienziato sociale: con profonda onestà e curiosità intellettuale ha indagato per decenni la dinamica del mercato del lavoro unendo metodi di analisi innovativi alle classiche domande sul suo funzionamento. Un sincero democratico immune dalla falsa coscienza che caratterizza la stragrande maggioranza dei suoi colleghi. Da buon liberal-democratico, Krueger ha insistito molto sulla necessità di contenere l’impoverimento della classe media statunitense e di implementare politiche redistributive, indispensabili nel mitigare gli effetti di polarizzazione creati dal sistema capitalistico. Non fu un rivoluzionario, ma un uomo del suo tempo convinto che la politica dovesse prima di tutto redistribuire opportunità per una competizione individuale più giusta e per poter raggiungere un sistema economico efficiente. Non egualitario, appunto.
Per più di vent’anni, Alan Krueger ha messo a disposizione della politica le sue conoscenze e abilità, cercando di indirizzarle verso le principali problematiche e urgenze sociali. Già capo economista dell’Us Labour Department nel periodo 1994-1995, sotto la presidenza di Bill Clinton, fu nominato nuovamente da Obama capo economista del Dipartimento del Tesoro in piena crisi economica, nel 2009-2010. Durante la presidenza Obama, consapevole che solo una politica non austera potesse contenere almeno in parte gli effetti della crisi, promuove non soltanto un aumento della spesa pubblica per investimenti in infrastrutture così da creare domanda e occupazione, ma anche un aumento del salario minimo. Inoltre, proprio in quel periodo, grazie ai suoi contributi il tema della disuguaglianza torna al centro del dibattito mainstream, anticipando Piketty senza godere però del suo successo mondiale.
Krueger diviene uno dei massimi esperti in tema di mercato del lavoro, rivoluzionando l’approccio allo studio della materia, riconoscimento che gli viene conferito da Angrist e Pischke che riportano il suo approccio in “The credibility revolution in empirical economics: how better research design is taking the con out of econometrics”. Troppo spesso infatti, lo studio causale era suscettibile di assunzioni e conclusioni pre-costruite dal ricercatore che usa i dati non per verificare una teoria ma al contrario torturandoli per estrarre loro la conferma di quanto sostenuto. Krueger ripone l’enfasi su un metodo opposto, sono i dati, sintesi dei fatti reali, che bisogna osservare e far parlare senza manipolazioni. Alan Krueger è convinto di questo approccio, motivo per il quale fonda il Survey Research Center, e lo utilizzerà nel corso della sua carriera per misurare l’impatto delle politiche economiche. Con gli studi di Krueger inizia a diffondersi quindi l’utilizzo dei natural experiments anche per gli studi sul mercato del lavoro. Il vantaggio principale degli esperimenti naturali è quello di riuscire a isolare l’impatto di un evento – una scelta politica – dalle altre determinanti di quel fenomeno. Un metodo ambizioso e proprio per questo difficilmente praticabile, soprattutto in ambito socio-economico dove molti meccanismi operano contemporaneamente e dipendono fortemente dal contesto storico-politico entro cui ci si muove. In particolare, i risultati ottenuti sono scarsamente generalizzabili proprio per quanto appena detto. Tuttavia, bisogna riconoscere che tali metodi sperimentali permettono di sottrarre discrezionalità al ricercatore sfruttando fattori al di fuori del suo controllo, naturali o non. Un terremoto, l’introduzione (o abolizione) di una determinata legge, sono esempi di natural experiment, dove le unità statistiche dovrebbero simulare un’attribuzione ai gruppi di trattamento e controllo del tutto randomizzata, cioè casuale.
Interpretazioni fuori dallo schema
È combinando raccolta di dati micro e natural experiment che Krueger costruisce (in collaborazione con David Card) il suo più importante e conosciuto contributo alla letteratura economica, “Minimum wages and employment: a casa study of the fast-food industry in New Jersey and Pennsylvania”. L’1 aprile 1992 il New Jersey aumenta il salario minimo da 4.25$ a 5.05$ l’ora. Si tratta di un evento esogeno che può essere sfruttato per valutare l’impatto causale della politica adottata – stabilire cioè se da questa politica dipendono direttamente altri effetti sul mercato del lavoro, come un aumento della disoccupazione. Nella letteratura dominante, infatti, il salario minimo era ed è tutt’oggi considerato come una rigidità che ostacolerebbe l’occupazione. Gli argomenti utilizzati per giustificare l’ipotesi mainstream sono sostanzialmente due. Da un lato, il maggior costo del lavoro è trasferito sui prezzi finali, determinando una caduta della domanda aggregata e una conseguente riduzione dell’occupazione. Dall’altro, il maggior costo del fattore lavoro costituisce un incentivo per impiegare più capitale. Accettare la prima risposta, però, significherebbe rifiutare che il lavoratore è anche consumatore e sono soprattutto i lavoratori nei decili più bassi del reddito ad avere una maggiore propensione al consumo e a sostenere la domanda aggregata. Senza domanda, non c’è offerta, senza lavoro non c’è (accumulazione del) capitale. Ne era ben consapevole Rosa Luxemburg, che nell’appendice de “L’accumulazione del capitale” scrive «le merci capitalistiche possono essere vendute solo se e in quanto soddisfino i bisogni della società: solo a questa condizione il profitto in esse incorporato può trasformarsi in denaro. Il continuo allargamento della produzione capitalistica, cioè la continua accumulazione, è perciò legato ad un altrettanto allargamento del fabbisogno sociale».
Questa ipotesi dominante viene smentita da Krueger che tramite la tecnica, detta differenze-tra-differenze (DiD), compara le medie delle variabili oggetto di studio prima e dopo l’aumento del salario minimo in New Jersey e in un altro Stato federale con simili caratteristiche di partenza, ma non soggetto allo stesso evento esogeno (Pennsylvania).
Raccogliendo i dati sul salario, occupazione e prezzi di vendita nel settore dei fast food per New Jersey e Pennsylvania, Krueger e Card provano con rigore e innovazione come una delle principali convinzioni economiche venga meno. Determinano, cioè, come l’aumento del salario minimo non abbia alcun effetto negativo sulla domanda di lavoro (e nemmeno su retribuzioni accessorie o profili salariali), al contrario, Krueger e Card osservano un aumento nei livelli occupazionali.
In merito ai prezzi, non trovano alcuna evidenza che il loro aumento sia diretta conseguenza della nuova politica di lavoro e non hanno un effetto negativo sull’occupazione.
È, dunque, un contributo importante per la letteratura economica perché questi risultati non sono interpretabili all’interno del tradizionale schema competitivo in cui siamo abituati a definire salario e livello occupazionale e dovrebbero aprire al dibattito accademico, anziché all’arroccamento su posizioni ideologiche a-priori.
Un esempio recente riguarda la principale economia europea, la Germania, che nel 2015 ha introdotto un salario minimo nazionale pari a 8.50 euro orari. G. Ahlfeldt, D. Roth e T. Seidel (2018) in “The regional effects of Germany’s national minimum wage” utilizzano la stessa tecnica di Krueger (DiD) e, come lui, osservano come non ci sia alcun effetto negativo sull’occupazione soprattutto nelle regioni caratterizzate da una maggior presenza di lavoratori che in precedenza erano sotto la soglia del salario minimo. Ciò dimostra, pur rimanendo dentro una argomentazione marginalista, che il l’interpretazione dominante secondo cui il mercato del lavoro dominato da forze competitive sia in grado di definire automaticamente l’uguaglianza tra salario e produttività marginale non regge. Le imprese sono in grado, dato il rapporto di forza di cui godono, di imporre salari inferiori ai livelli di produttività che esse stesse impongono. Il furto salariale è una dinamica connaturata al sistema di mercato capitalistico.
Un altro esempio è il caso spagnolo, dove il governo ha introdotto dall’1 gennaio 2019 il più alto incremento del salario minimo degli ultimi decenni pari al 22 per cento rispetto al minimo precedente (da 735.90 a 900 euro). È chiaramente impossibile determinare ora un effetto causale, e nemmeno associativo, tra aumento del salario minimo e occupazione, ma l’esito non è determinato a priori, come dimostrato dai casi sopra menzionati.
L’interesse di Krueger per la determinazione dei salari precede lo studio seminale con Card. Già nel 1988, su Econometrica, viene pubblicato “Efficiency wages and the inter-industry wage structure”, in cui Krueger, con il supporto di Lawrence Summers, fornisce un altro importante contributo nella spiegazione della determinazione dei salari. Le differenze intra settoriali non sono spiegate esclusivamente dalla produttività e caratteristiche osservabili (e non) del singolo lavoratore, c’è ben altro di più complesso che la letteratura dominante prova a tacere o distorcere.
Uno dei fattori che può generare differenze settoriali e divergenza produttività-salari risiede secondo i ricercatori nel potere contrattuale dei lavoratori e nella forza della rappresentanza sindacale. I continui attacchi al fattore lavoro tramite le riforme strutturali e l’incapacità del sindacato di combattere alla radice le trasformazioni e ristrutturazioni poste dal capitalismo post-fordista comprimono la quota salari e portano a una polarizzazione della distribuzione dei redditi sul mercato del lavoro. David Card fornisce conferma dell’importanza del ruolo dei sindacati affermando che la forza sindacale è in grado di spingere i salari della coda sinistra della distribuzione verso la classe media, risultati confermati anche da Visser & Checchi ma anche dal Fondo Monetario Internazionale.
Lavoro, istruzione e disuguaglianza
Del resto, è proprio nel mercato del lavoro che ha origine la disuguaglianza sia di reddito che di opportunità. Krueger ne era più che consapevole e in un discorso tenuto al Center for American Progress (Cap) nel gennaio del 2012, annota nel sempre più indebolito ruolo dei sindacati e della tassazione progressiva tra le cause dell’accresciuta disuguaglianza americana. Le aliquote marginali sono diminuite ovunque dagli anni Settanta del secolo scorso nella convinzione che i benefici ottenuti dagli individui nel top 1% avessero generato effetti positivi anche per il restante 99% (trickle-down economics). Questa teoria si è dimostrata completamente errata e ha, anzi, portato a un ulteriore aumento delle disuguaglianze come dimostrano, tra gli altri, Facundo Alvaredo, Anthony Atkinson, Thomas Piketty e Emmanuel Saez in “The top 1 percent in international and historical perspective”: una riduzione delle aliquote marginali dei redditi più elevati si associa a un incremento della quota di reddito di cui proprio quell’ 1% più ricco si appropria.
Tuttavia, come già detto, Alan Krueger non era certo un economista rivoluzionario e infatti sosteneva che l’eccessiva disuguaglianza nel mercato del lavoro non sarebbe così preoccupante se ci fosse un’alta mobilità intergenerazionale. Non proponeva quindi l’emancipazione collettiva, ma uno schema di compromesso che riducesse almeno le derive intrinseche del modello di produzione in cui viviamo.
È in questo contesto che, sulla base degli studi di Miles Corak, Krueger introduce il concetto di Great Gatsby Curve, ovvero l’associazione positiva tra disuguaglianza di reddito e disuguaglianza di opportunità, senza appunto mai sfidare le vere cause di quelle diseguaglianze. Ne consegue che Paesi con una più diseguale distribuzione dei redditi tenderanno anche ad avere una minore mobilità sociale che, nuovamente, risulterà in maggior disuguaglianza di reddito, innescando un circolo vizioso, che in altri termini non è altro che il risultato dell’accumularsi e acuirsi dei rapporti di forza di un pezzo di società su un altro, quello più debole di cui la maggioranza della classe lavoratrice fa parte.
Anche in un contesto liberaldemocratico non si può fare a meno di riconoscere come l’istruzione sia il principale pulsante che muove l’ascensore sociale. Di conseguenza la democratizzazione dell’istruzione è una condizione necessaria, seppur per nulla sufficiente, ad alleviare i mali che si celano dietro il mito della meritocrazia – a tal proposito è sempre utile rileggere il contributo distopico di Michael Young, “L’avvento della meritocrazia”. Rousseau nel “Discorso sull’origine delle disuguaglianze” fissa la nascita della disuguaglianza con il passaggio da stato di natura alla società. E la disuguaglianza è, difatti, presente in ogni contesto sociale dove classi contrapposte rappresentano e agiscono per interessi divergenti, cercando di sopraffare la più debole. Questo significa, per utilizzare le parole di John Rawls. che oltre alla “lotteria naturale” la quale determina intelligenza, prestanza fisica, luogo di nascita, cioè caratteristiche estranee al controllo individuale, vi si aggiungono discriminanti sociali, legate all’origine socio-economica dell’individuo. Allora, se è vero com’è vero che la meritocrazia è una questione di classe, più che i meriti bisognerebbe utilizzare i bisogni come metro di democratizzazione, anche per i servizi quali l’istruzione.
In questo senso, in “Education, occupation and social origin”, Bernardi & Ballarini (2016) dipingono un quadro sconfortante per l’Italia: controllando per il livello educativo, chi è nato nella working class ha un gap salariale di 328 euro rispetto a chi è nato nelle classi benestanti.
Inoltre, deve essere garantito universalmente non solo l’accesso all’istruzione, ma l’ingresso a un’istruzione di qualità, che non significa come troppo spesso ci viene raccontato una migliore preparazione in vista del mercato del lavoro, ma di capacità di accesso al sapere e a migliori condizioni di vita all’interno della scuola. Contrariamente a molti troppi sostenitori dei tagli all’istruzione, Krueger, dimostra l’effetto delle dimensioni delle classi sulle performance degli alunni, individuando come classi di minori dimensioni abbiano un impatto positivo e persistente sui risultati degli studenti, in particolar modo su quelli con origini socio-economiche meno abbienti.
Krueger e l’Italia
Sebbene Alan Krueger non possa essere tacciato di estrema radicalità, né teorica né ideologica, ma anzi rappresenta il volto talentuoso dell’accademia, i suoi insegnamenti e le ormai inconfutabili prove sull’incapacità del mainstream di spiegare i fenomeni sociali non sembrano fare breccia nel mainstream italiano. I liberaldemocratici del nostro paese continuano a scagliarsi contro ogni politica che possa anche lievemente migliorare le condizioni dei lavoratori, restituendo loro non soltanto potere d’acquisto ma anche forza democratica prima ancora che contrattuale. Il dibattito sul salario minimo ne è un esempio, dal momento che un dibattito contro le diseguaglianze non esiste nei palazzi di governo o della rappresentanza politica.
Nel contesto italiano, dove la contrattazione è centralizzata, il dibattito sul salario minimo è stato per troppo tempo abbandonato. Il formale potere contrattuale dei sindacati ha infatti relegato aprioristicamente la discussione sul salario minimo al tema della contrattazione collettiva. Il salario minimo è stato storicamente avversato in quanto strumento utile per depotenziare i contratti collettivi e sostituirli con la contrattazione aziendale e/o individuale, come in effetti vorrebbero gli esponenti neoliberali incarnati nel Partito Democratico e nei portavoce degli interessi padronali.
Se ciò si verificasse l’effetto sui salari sarebbe negativo, specialmente se il salario minimo è fissato a livelli piuttosto bassi, accentuando inoltre le gabbie salariali e riducendo il potere contrattuale dei lavoratori stessi. Al contrario, il salario minimo può e deve essere introdotto per estendere la contrattazione e includere nei meccanismi di protezione tutti i lavoratori che percepiscono salari sotto la soglia di povertà (è il fenomeno dei working poors – i lavoratori poveri). Ovvero, deve essere uno strumento utile e a supporto della contrattazione collettiva diretto a ridurre il potere del capitale.
Nonostante
le aperture di Landini,
il fatto che le principali sigle sindacali siano contrarie ad una
tale riforma dimostra amaramente come abbiano perso il ruolo attivo e progressista
nella difesa degli interessi dei lavoratori tutti e, al contrario, abbiano
adottato una mera posizione conservatrice, di difesa del proprio ruolo
burocratico, senza però che questo riesca a risollevare le sorti di milioni di
lavoratori, le cui paghe orarie non sono neppure sufficienti a raggiungere la
soglia di povertà relativa, circa 1000 euro al mese.
È sul salario minimo, invece, che si giocherà la battaglia politica, tra Pd e M5S, due partiti che hanno bisogno di rilanciare per recuperare terreno di fronte allo strapotere, anche elettorale, della Lega di Salvini. Non a caso, proprio in queste settimane per la prima volta nella storia, in Commissione Lavoro al Senato esistono due proposte sul salario minimo.
Quale eredità
Krueger ci lascia quindi una grande eredità, non solo in tema di mercato del lavoro, dove ha contribuito a estendere le interpretazioni dei fenomeni osservati al di fuori del tradizionale schema competitivo, ma anche in tema di distribuzione e mobilità sociale.
In un contesto intellettuale dove spesso vige l’assolutismo ideologico, è un’eredità che deve essere tesaurizzata per l’onestà intellettuale che incorpora, ma anche per i temi di grande rilevanza sociale.
*Marta Fana, PhD in Economics, si occupa di mercato del lavoro. È autrice di Non è lavoro è sfruttamento (Laterza). Luca Giangregorio PhD student in Social Sciences presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona.
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