La Palestina, oltre Hamas
Bisognerebbe prima di tutto ricostruire relazioni con il popolo dei territori occupati, martoriate dalla politica di apartheid di Israele e ormai da tempo ostacolate da fondamentalismo e pratiche terroriste
Ancora una volta lo scontro armato brutale, con i suoi strascichi di orrore e barbarie, monopolizza l’attenzione del conflitto israelo-palestinese per quanto sia ormai una concessione semantica metterli sullo stesso piano.
L’attacco lanciato da Hamas il 7 ottobre 2023, quasi a celebrare l’attacco del 1973 avvenuto attorno alla stessa ricorrenza, ha lasciato sorpreso il mondo intero, soprattutto Israele e sicuramente la maggioranza dei palestinesi. Nel giro di poco tempo, però, la sorpresa è stata sopraffatta dalle immagini violente, spesso raccapriccianti, del massacro di civili inermi, dei rapimenti di donne e bambini, di una modalità della guerra che – non è la prima volta, non sarà l’ultima – non si combatte tra eserciti preparati allo scopo, ma si abbatte su innocenti e incolpevoli.
L’estetica della violenza copre la dinamica dei fatti
Il giudizio morale sulle immagini che hanno fatto il giro del mondo ha ormai sovrastato quello politico, l’estetica della violenza copre la dinamica dei fatti, il suo svolgimento e quindi ottunde anche la capacità di capire torti, ragioni, anche solo semplici spiegazioni. Nello schema bipolare che governa il mondo da tempo immemorabile, l’analisi e la ricostruzione dei vari movimenti in campo è di fatto preclusa da atteggiamenti da tifoseria e, come con la guerra in Ucraina, si iniziano a preparare le liste dei fiancheggiatori di Hamas.
Abbiamo bisogno di uscire da questo schema, di lasciar cadere la modalità sfiancante della discussione da «social» – basata sul like e sulla condivisione emotiva – mettendo in fila poche, ma salde, verità che possono aiutare a costruire un discorso rigoroso.
L’offensiva di Hamas è stata spettacolare sul piano militare e ha messo a nudo una debolezza inaspettata di Israele. Non sono state le falangi palestinesi o i nemici di Tel Aviv a indicare questa fragilità, è stata la stampa israeliana, di destra e di sinistra, a puntare il dito contro l’attuale premier, Benjamin Netanyahu fino a chiederne, come fa Haaretz del 10 ottobre, le «immediate dimissioni». Sono stati i servizi segreti egiziani a dichiarare di aver avvertito Israele che «qualcosa di grande» stava per avvenire e su Le Figaro l’ex capo dell’agenzia di intelligence israeliana Shin Bet, Ami Ayalon, non ha avuto remore ad accusare il premier israeliano.
La foga di coprire i coloni al nord, la necessità di concentrarsi sul proprio destino giudiziario e quindi di parlare «più con i suoi avvocati che con i servizi segreti o il ministero della Difesa», come sottolinea ancora Haaretz, da parte di Netanyahu, ha permesso a Hamas di compiere un’azione militare che, a quanto inizia a trapelare, è andata oltre le stesse aspettative dell’organizzazione islamica. Questa radiografia della situazione permette di cogliere alcune dinamiche che il giudizio morale e l’orrore esibito non colgono: Israele ha una decisa crisi interna che la nascita del governo di unità nazionale proverà a coprire, ma non si sa per quanto. Dall’altra parte Hamas che sembrava fosse dedita a occuparsi solo del governo del territorio, quindi di Gaza, ha mostrato una preparazione e una capacità di organizzazione inusitata e inaspettata per quanto micidiale e cruenta. Le sorti del conflitto non potranno prescindere da questa situazione.
Quel che il giudizio morale non riesce a vedere, inoltre, è che la guerra, come l’ha definita immediatamente Israele, non è cominciata il 7 ottobre del 2023, ma ha una sua storia. Inizia nel 1948, forse già prima, ha il momento più acuto nel 1967 e in mezzo ci sono azioni militari, massacri da parte israeliana – qualcuno ricorda ancora Sabra e Chatila se non bastasse Piombo fuso? – un’evoluzione della lotta di liberazione palestinese che ha visto la ritirata dei gruppi storici e l’avanzata delle formazioni islamiche e jihadiste, almeno tre «intifade», innumerevoli crisi di governo a Tel Aviv, un premier israeliano assassinato da estremisti cresciuti in casa , un mondo di fatti e dinamiche complesse che all’improvviso sembrano essere spazzate via.
Il discorso dominante è la difesa del diritto a esistere di Israele, la sua messa in pericolo, la sua salvezza. Come se Israele non fosse in grado di proteggersi e di contrattaccare, come sta già dimostrando nell’assedio di Gaza, come se davvero potesse essere invasa completamente da un esercito di deltaplani a motore. Quello del 7 ottobre è l’ultimo episodio di una guerra lunghissima a cui ne seguiranno altri. E tutto questo chiama in causa chi pensa davvero che la vicenda palestinese sia risolvibile a colpi di colonizzazione progressiva del territorio, di apartheid interno, di occupazione infinita e prolungata, di umiliazioni, perdita della dignità e incentivi alla corruzione interna. Non dovrebbero i più ferventi amanti della causa israeliana voler la fine del conflitto arrivando a una soluzione che possa riconoscere le legittime aspirazioni palestinesi? Due popoli, due Stati? Uno Stato unico ma pluriconfessionale e democratico? La discussione è in atto da decenni, ma finora si è preferito stringere nella morsa i palestinesi, costruendo per loro una prigione a cielo aperto da cui uscire solo su gentile concessione dell’esercito occupante. Chi può negare questa situazione? «Chiunque voglia ostacolare la creazione di uno Stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas e il trasferimento di denaro ad Hamas». È quanto diceva Netanyahu a una riunione dei membri della Knesset del suo partito Likud nel marzo 2019. «Questo fa parte della nostra strategia: isolare i palestinesi di Gaza dai palestinesi della Cisgiordania». Questa è stata la vera politica israeliana almeno dalla morte di Yitzhak Rabin in poi.
Un altro espediente per parlare di altro, e sostenere una propaganda che incita alla guerra permanente, è presentare il conflitto israelo-palestinese come un tassello di un conflitto globale al cui centro c’è la guerra ucraina. Hamas come la Russia, Israele come l’Ucraina, il mondo costretto a scegliere tra «il bene» e «il male», una dicotomia inesistente sul piano concreto ma propugnata sul piano della narrazione e della storia basata su proiezioni ideali. I conflitti sono ovviamente concatenati, perché il mondo è totalmente correlato, ma non c’è una guerra mondiale di cui l’attacco di Hamas è espressione locale. Russia e Cina, in questo caso, hanno tenuto un atteggiamento più prudente per quanto non abbiano nascosto la simpatia per i palestinesi. Gli stessi Stati uniti, che non lesinano pieno supporto a Israele, hanno interesse che la regione non deflagri, tifano per il completamento degli «accordi di Abramo» e quindi per una relazione tra Israele e Arabia Saudita che li aiuterebbe a isolare ulteriormente l’Iran. La Cina non fa mistero di puntare a una distensione con gli Usa, sia pure sulla base dei propri interessi, come dimostra il susseguirsi di incontri tra delegazioni statunitensi e esponenti del governo di Pechino. Non ci sono tracce di una guerra mondiale imminente a meno che non la vogliano settori specifici che potrebbero puntare a sfruttare le varie crisi stagnanti in giro per il mondo, si pensi all’Africa e a Taiwan, per far scattare un’escalation progressiva di cui questa narrazione catastrofica costituisce un ineffabile tassello.
Hamas non equivale alla causa palestinese
E quindi viva Hamas? Nemmeno per sogno. Tra le tante disgrazie del popolo palestinese c’è proprio quella di avere come rappresentante ormai di fatto un’organizzazione che certamente svolge un ruolo sociale rilevante, ma è sostanzialmente reazionaria, confessionale e con una forte predisposizione alla tattica terrorista. Se c’è qualcosa che evidenzia profondamente l’arretramento subito dai palestinesi negli ultimi trent’anni è proprio l’equazione via via irrobustitasi tra la loro causa e le scelte di formazioni come Hamas o Jihad islamica. Non c’è solo il giusto disgusto per l’orrore esibito come un trofeo da miliziani che, in ogni caso, sono cresciuti in un ghetto desolante e hanno conosciuto solo l’odio e l’assenza di un futuro decente; non c’è solo la presa di distanza dalla logica confessionale che anima il gruppo dominante a Gaza. Ancora una volta c’è, deve esserci, la politica, il giudizio sulle dinamiche concrete. E per quanto si possano esaltare per il risultato, inaspettato, raggiunto il 7 ottobre, i dirigenti di Hamas stanno provocando una delle reazioni più feroci contro il proprio stesso popolo verso cui, data la sproporzione delle forze e dei mezzi in campo, non potranno fare nulla. L’eccidio che sta per consumarsi a Gaza porterà la firma israeliana e sarà responsabilità piena di quello Stato a cui, anche amici fedeli come Emma Bonino chiedono di evitare «crimini di guerra», ma Hamas ha perfettamente previsto questa evoluzione. Così come un secondo effetto potrebbe essere il ricompattamento, dietro lo strazio delle vittime innocenti e dei giovani uccisi nel deserto, di una società che esce da mesi di forte contrapposizione interna e divisione acutissima che ha attraversato tutte le componenti della società e delle istituzioni israeliane, compreso l’Esercito. La nascita del governo di unità nazionale è una boccata d’ossigeno per Netanyahu, anche questo effetto della mattanza del 7 ottobre.
Va poi fatta un’analisi più di fondo se la forma della forza militare, impossibilitata a competere alla pari con il nemico, sia lo strumento più efficace per ottenere lo scopo dell’autodeterminazione. Dopo decenni in cui questa logica è stata perpetuata indefinitamente occorre ricordare , come sostiene il politologo di origine libanese Gilbert Achcar, che «il culmine dell’efficacia della lotta palestinese è stato raggiunto nel 1988 durante la Prima Intifada, nella quale i palestinesi hanno deliberatamente evitato l’uso di mezzi violenti. Ciò portò a una profonda crisi morale nella società e nel sistema politico israeliano, comprese le sue forze armate, e fu un fattore chiave nel portare la leadership israeliana Rabin-Peres a negoziare gli accordi di Oslo del 1993 con Yasser Arafat – per quanto viziati fossero questi accordi».
E qui si entra nel campo delle forze palestinesi che appaiono oggi più deboli e divise che mai e che sembrano avere come sola opzione quella di ritirarsi in una gestione fallimentare di territori occupati e sempre più colonizzati oppure affidarsi alla forza di immagine e di estetica di Hamas. Quello che non si vede da tempo in azione è un movimento popolare di massa, una dinamica di mobilitazione che, tra le altre cose, spazzi via una certa burocrazia insediatasi nei Territori occupati e incapace da tempo di rappresentare una sponda e una speranza. Non a caso la direzione dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) raccolta attorno ad Abu Mazen non vuole cimentarsi con il voto popolare. C’era un tempo in cui ogni mobilitazione contro la guerra e la giustizia sociale, ovunque si verificasse, aveva in sé anche il seme della solidarietà alla lotta palestinese. La sua identificazione con i movimenti islamici, e il contestuale utilizzo della pratica terroristica, hanno creato una frattura tra queste lotte, che pure sono sempre più flebili, e l’obiettivo dell’autodeterminazione palestinese.
Il problema oggi non è schierarsi dalla parte di Hamas, ma ritrovare il senso e la possibilità di una lotta comune con i palestinesi, la vittima conclamata di un’occupazione illegittima e di un’ingiustizia epocale.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.