La povertà è una colpa
Come funziona e quali interessi difende la retorica moralista che serve a cooptare nella «classe media» una parte della classe lavoratrice e mobilitarla contro tutti quelli che vengono ghettizzati in quanto parassiti
«È triste che Woolworths chiuda. Dove andranno i chav a comprare i loro regali di Natale?». Inizia riportando questa battuta sentita a una cena tra amici a Londra e riguardante la chiusura di una catena di grandi magazzini, il libro Chavs: The Demonization of the Working Class, pubblicato esattamente dieci anni fa dal giornalista inglese Owen Jones per Verso. «La battuta si sarebbe facilmente potuta parafrasare in: «È triste che Woolworths chiuda. Dove andranno le orribili classi popolari a comprare i loro regali di Natale?» commentava Jones.
La parola chav in inglese identifica in termini fortemente spregiativi persone, appartenenti agli strati economicamente più bassi della società, riconoscibili per l’abbigliamento pacchiano e volgare e per i comportamenti aggressivi e maleducati. Parole italiane o dialettali come tamarro, truzzo, zarro, coatto rendono l’idea ma fino a un certo punto, perché non riportano in pieno il dato di classe insito nel concetto di chav. In un contesto di persone istruite, educate e mediamente progressiste, rifletteva Jones, l’utilizzo di una generalizzazione spregiativa basata su un’etichetta razziale, in una battuta, sarebbe stato accolto dal gelo. Invece, furono risate. «Come è successo che l’odio verso le persone della classe lavoratrice è diventato socialmente accettabile?» si chiedeva l’autore.
Per rispondere a questa domanda, il libro scava in oltre trent’anni di storia britannica, ricostruendo l’itinerario del thatcherismo, il suo attacco alla classe lavoratrice sia in termini materiali, con la guerra al sindacato e la deindustrializzazione, sia in termini ideologici, con la rimozione totale del vocabolario di classe in favore di una «Middle Britain» borghese in cui si potesse riconoscere la maggioranza dei cittadini. Il New Labour di Tony Blair si inserisce in questo solco, in una Gran Bretagna in cui «siamo tutti classe media», appellandosi alla componente «aspirazionale» del suo storico elettorato, sostituendo all’uguaglianza la meritocrazia e all’orizzonte di un miglioramento collettivo delle condizioni della classe lavoratrice la promessa di un’uscita individuale da essa attraverso il mitico «ascensore sociale». Chavs passa in rassegna politiche materiali e svolte simboliche, le disuguaglianze crescenti e l’emersione di un backlash di estrema destra alimentato dal risentimento di chi è lasciato indietro, tratteggiando un quadro complesso ma limpidissimo di uno degli esempi più radicali di lotta di classe dall’alto verso il basso che l’Europa abbia mai conosciuto. In filigrana, si leggono i tumulti degli anni post-2008, dalle piazze studentesche contro l’austerità ai riot di Londra, e si notano con evidenza i presupposti del successivo tentativo, incarnato da Jeremy Corbyn, di rimettere in campo una politica di massa «per i molti, non per i pochi».
Dieci anni dopo, e in un contesto culturale diverso come quello italiano, in cui l’identità di classe ha storicamente subito, rispetto alla Gran Bretagna, una fortissima concorrenza di appartenenze territoriali, religiose e familiari, ha senso chiedersi a che punto sia, dalle nostre parti, la demonizzazione della classe lavoratrice, e che ruolo abbiano determinate rappresentazioni stereotipate nella sua crisi. Fa particolarmente impressione vedere riemergere in questi mesi, con il dibattito sul cosiddetto «Reddito di cittadinanza», uno degli elementi centrali dell’analisi di Jones, ovvero l’attacco classista contro i beneficiari di misure di welfare. Gli echi thatcheriani della retorica del «divano» sono evidenti. Fin da quando è stato concepito, tra l’altro da un governo nient’affatto di sinistra come quello guidato da Giuseppe Conte e sostenuto dall’alleanza tra Movimento 5 Stelle e Lega, il Reddito è stato preso di mira da una campagna politica e mediatica basata su un piano simbolico tutto morale: è sbagliato dare soldi a chi non lavora, le misure di welfare incentivano la pigrizia, stiamo pagando la gente per stare tutto il giorno sul divano, bisogna impedire che i soldi vengano spesi in maniera immorale in alcol e gioco d’azzardo, e così via. Una retorica che si basa precisamente su uno dei punti cardine dell’offensiva thatcheriana: spezzare in due la classe lavoratrice materialmente per farla sparire simbolicamente. Da una parte, chi esce in condizioni economiche e sociali tutto sommato dignitose dalla transizione viene spinto a identificarsi in una «classe media» i cui interessi, per via aspirazionale, vengono fatti coincidere sempre di più con quelli della borghesia agiata. Dall’altra, chi resta fuori e finisce per vivere più di welfare che di lavoro, viene additato come individualmente e moralmente responsabile della propria condizione, utilizzato per dipingere la povertà come una sconfitta personale e non un problema sistemico, separato dal resto della classe lavoratrice in quanto privo della dignità e del prestigio sociale derivanti dal lavoro. Se non esiste più la classe lavoratrice perché «siamo tutti classe media», allora chi non lo è deve avere qualcosa che non va, dev’essere pigro o stupido, dev’essere un parassita della società. Il panico morale scatenato dai media sui «furbetti» che avrebbero ricevuto il Reddito di cittadinanza senza averne titolo rientra pienamente in questa retorica tesa a scatenare la guerra dei penultimi contro gli ultimi. Anche qui, niente di nuovo: la campagna elettorale presidenziale di Ronald Reagan nel 1976 utilizzò a mani basse la retorica classista e razzista delle welfare queen (madri povere, stereotipicamente afroamericane, accusate di truffare il sistema per portare a casa più benefici possibile) per delegittimare lo stato sociale e prepararne lo smantellamento.
«Siamo tutti classe media»
L’obiettivo centrale di questa retorica è cooptare nella «classe media» una parte della classe lavoratrice e mobilitarla contro chi sta più in basso, a sua volta espulso dalla classe lavoratrice in quanto parassita. Un’operazione pienamente ideologica, che sposta in basso l’asse del conflitto: non più tra classe lavoratrice e borghesia, ma tra un’enorme e indistinta «classe media» e poche persone problematiche, immorali e irresponsabili. Ed è così che, per restare all’attualità italiana, si erigono barricate contro ogni proposta di tassazione dei grandi patrimoni, immancabilmente definita dalla propaganda liberista come «un attacco alla classe media» anche quando, come nel caso della recente proposta di Sinistra Italiana, toccherebbe solo il 5% più ricco della popolazione.
Qualche mese fa, quando il segretario del Partito democratico Enrico Letta lanciò la moderatissima proposta di tassare all’1% i patrimoni sopra il milione di euro, proposta peraltro prontamente abbandonata subito dopo, fu particolarmente istruttivo l’intervento dell’editorialista de La Stampa Marcello Sorgi: «Un milione di euro è il valore di un normale appartamento familiare in una grande città. Parliamo di uno di quegli appartamenti in cui tutti noi abbiamo vissuto coi nostri figli. Se i ricchi sono quelli che hanno un appartamento in centro e magari una seconda casa al mare, secondo me, non sono ricchi che devono piangere, sono persone che hanno costruito qualcosa durante la loro vita e che amerebbero lasciarlo ai figli senza pesi ulteriori». Un distillato purissimo di ideologia. In un paese in cui il valore catastale medio di una casa è inferiore agli 80 mila euro, si immagina che un «normale appartamento familiare» ne valga un milione, e che ovviamente tutti abbiano una seconda casa al mare. I ricchi sono rappresentati come «persone che hanno costruito qualcosa nella vita», identici a quei lavoratori che si sono conquistati un certo benessere da piccoli risparmiatori. Siamo tutti uguali, siamo tutti classe media, e le profondissime disuguaglianze di questo paese spariscono.
Del resto, basta accendere la tv per scoprire che, effettivamente, siamo tutti classe media. L’Italia raccontata dalle fiction Rai è un’Italia di professionisti: medici, magistrati, giornalisti. Il lavoro dipendente viene mostrato solo se, come nel caso di poliziotti e insegnanti, lo si può raccontare come eroica vocazione e non come, appunto, lavoro. Lavoratori e lavoratrici compaiono sui nostri schermi domestici solo quando rientrano in schemi narrativi ben precisi, come il topos letterario degli «operai iscritti alla Fiom che ormai votano Lega», inaugurato dal programma tv Milano, Italia di Gad Lerner all’inizio degli anni Novanta e da allora periodicamente riproposto come cesura storica rivoluzionaria a ogni elezione, o la sua variante metropolitana «periferia urbana abbandonata dalla sinistra dove il punto di riferimento sociale sono i neofascisti». Della classe e della sua identità, insomma, si può raccontare solo la crisi.
Anche in questo caso, il fenomeno è tutt’altro che un’esclusiva italiana. Basti pensare ai fiumi di parole spesi negli ultimi anni intorno alla white working class, in corrispondenza del referendum sulla Brexit o della vittoria di Donald Trump negli Stati uniti nel 2016: la classe lavoratrice viene nominata in termini razzializzati proprio per indebolirne il potenziale universalizzante e ridurla a un’etichetta identitaria tra le tante, una categoria demografica da sondaggio, il personaggio di una narrazione scontata, quella appunto di una classe lavoratrice bianca, arrabbiata, e mobilitata a destra in nome di razzismo e sessismo. Una narrazione ben lontana dalla realtà, sia in termini di composizione sociale, dato che la classe lavoratrice continua a essere, nella maggior parte dei contesti, il settore più multirazziale della società, sia in termini di rappresentanza politica, dato che i casi di soggetti di destra in grado di conquistare la maggioranza dei voti di lavoratori e lavoratrici, a conti fatti, restano piuttosto rari. Ma è una narrazione che fa comodo sia alla destra, la cui scommessa populista si basa sulla proiezione di un’immagine credibile di rappresentanza di un popolo unito contro la perfida élite culturale cosmopolita, sia al centrosinistra liberale, ansioso di potersi liberare da ogni residua responsabilità di rappresentanza dei ceti popolari e di poter attribuire alla loro natura intrinsecamente razzista, sessista e reazionaria la sua incapacità di costruire una proposta politica maggioritaria. Un mondo in cui «siamo tutti classe media» è un mondo in cui Trump e Clinton, Macron e Le Pen, Meloni e Draghi, si possono misurare sul piano di una guerra culturale-valoriale che lascia intoccato il modello neoliberista di fondo.
In questo quadro, cambia proprio il significato di «lavoro»: smette di essere, come è sempre stato nella prospettiva socialista, contemporaneamente la gabbia da cui liberarsi e la condizione che permette di sviluppare il potere necessario a quella liberazione, per diventare invece, come nell’Ottocento, carica morale di dovere sociale, di cui le classi agiate si sentono titolari senza alcuna evidenza empirica, agitando il ditino contro chi, in basso, non lavora abbastanza. Vale per il Reddito di cittadinanza, come si diceva, e vale per lo smart working, contro cui il ministro Renato Brunetta ha lanciato una crociata in nome del fatto che lavoratori e lavoratrici del pubblico, senza l’occhio vigile di un dirigente, sarebbero di fatto in vacanza. Non è passato molto tempo, del resto, da quando in rete girava l’hashtag #CuliAlCaldo sui lavoratori dipendenti coperti da lavoro a distanza o cassa integrazione durante i periodi di distanziamento sociale, con autorevoli esponenti del governo a proporre decurtazioni dello stipendio.
Nel mondo della classe media universale, a lavoratori e lavoratrici viene tolto lo scettro del lavoro, a vantaggio dell’impresa. Le proteste degli imprenditori della ristorazione, in primavera, sono state accompagnate da questa retorica, descrivendo gli imprenditori come «gente che lavora», in guerra contro lavoratori dipendenti «garantiti e privilegiati». La retorica dell’imprenditoria come unico vero lavoro, e come rappresentanza simbolica e politica di chi si sente lavoratore, mobilitando in particolare i lavoratori del settore privato contro quelli del pubblico, è stata al centro del discorso politico della destra italiana degli ultimi trent’anni. Silvio Berlusconi e la Lega Nord di Umberto Bossi hanno costruito gran parte del loro consenso, in particolare nelle regioni settentrionali, sulla costruzione simbolica di un blocco sociale tra media borghesia e una parte dei lavoratori del settore privato, uniti dal mito del piccolo imprenditore e dall’identificazione dell’interesse dell’impresa come elemento unificante tra le classi. Non è un caso se, nella pandemia, lavoratori e lavoratrici della ristorazione e della cultura, spesso esclusi dal sistema di welfare e privi di organizzazione collettiva, sono finiti spesso cooptati nella mobilitazione dei loro datori di lavoro, trovando solo nell’impresa e nella sua possibilità di produrre utili la risposta ai propri sacrosanti interessi materiali.
Ascensori e bibitari
Nella società del realismo capitalista, non si mette in discussione che in basso si stia male: è naturale, non potrebbe essere altrimenti. Quello che è previsto è che con merito, fatica e ambizione ci si sposti verso l’alto (il mitico «ascensore sociale») per stare meglio, ovviamente in una narrazione che rimuove tutte le condizioni materiali che aiutano alcuni e ostacolano altri in quest’ascesa. Ciò che manca completamente è il punto di vista di chi, pur stando in basso, può a ben diritto rivendicare, per numero e per ruolo, una funzione centrale nella società, e ambire a star meglio collettivamente riducendo le disuguaglianze con chi sta in alto. La logica liberale del successo porta con sé l’elitismo dei «competenti», all’apice in questa fase di «governo dei migliori» guidato dal competente per antonomasia, l’ex presidente della Bce Mario Draghi, a cui, sempre in nome della competenza, viene ormai quotidianamente proposta sui media ogni carica della Repubblica.
In un paese in cui il successo professionale tende spesso a essere curiosamente ereditario, è difficile non vedere il risvolto classista di questa retorica. Non è un caso che, tra le tante critiche ben più fondate che avrebbe meritato, a restare appiccicata al ministro degli esteri, ed ex capo politico del M5S Luigi Di Maio, sia stata l’etichetta di «bibitaro», riferita a un suo passato (peraltro controverso) impiego come steward allo stadio San Paolo di Napoli. Un classismo che non stupisce, in un parlamento composto in maniera preponderante da professionisti, manager e imprenditori, in cui la classe lavoratrice in senso tradizionale (dipendenti pubblici e privati, disoccupati, studenti) occupa poco più di un quinto dei seggi. Stupisce un po’ di più che questa retorica elitista, come il simile stilema del «blastare» chi non è «competente», per censo o per titolo di studio, si sia fatta ampiamente strada, se non a sinistra, quantomeno in vasti settori del centrosinistra. Per molte persone è più facile, o più conveniente, pensarsi «classe media», se non direttamente «élite culturale» che fare i conti con le proprie oggettive condizioni di classe. Al disallineamento tra appartenenza di classe e valori culturali, alla crescente rilevanza di questi ultimi nel segnare la distinzione tra sinistra e destra e all’illusione che basti un titolo di studio a trasformare in élite, abbiamo dedicato l’articolo sulla «fenomenologia dei radical chic» nel numero 11 di Jacobin Italia. Sarebbe sbagliato, però, trattare questo fenomeno come lineare, univoco e dagli esiti predeterminati. Davvero crediamo che il blocco sociale della sinistra degli anni Quaranta e Cinquanta fosse più omogeneo, in termini di esperienza di vita e consumi culturali, di quello che andrebbe costruito oggi? La presunta élite culturale del lavoro cognitivo, a quanto si vede dai social, la sera sta davanti alla tv a guardare X Factor esattamente quanto i ceti popolari da cui si sente così distante. La società di massa, anche nell’epoca delle mille nicchie di consumo culturale diversificate, mantiene una gigantesca capacità omogeneizzante.
La crisi dell’identificazione di classe nelle società occidentali contemporanee è un processo reale di cui va tenuto conto, legato alla transizione post-fordista, alla frammentazione del lavoro, alle dinamiche generali di individualizzazione. Ma è anche il risultato di una battaglia politica, quella raccontata da Chavs per quanto riguarda il caso britannico e che anche in Italia, come abbiamo visto, si è fatta strada. Una battaglia politica che, in quanto tale, può essere combattuta anche in senso opposto. Le profezie sull’impossibilità di organizzare lavoratori e lavoratrici nel mondo del precariato, del resto, sono state smentite da una serie sempre più lunga di esempi. E deve far riflettere l’ondata di sdegno che ha seguito sui social l’ennesima campagna mediatica sulle imprese che non trovano dipendenti perché le persone preferirebbero stare a casa a incassare il Reddito di cittadinanza. Le persone che, non disponendo di patrimoni e rendite, hanno bisogno di lavorare per vivere, continuano a essere maggioranza nelle nostre società, e dietro la retorica del «siamo tutti classe media» si agitano conflitti vecchi e nuovi.
La transizione che stiamo vivendo non si annuncia meno traumatica di quella che Margaret Thatcher guidò quarant’anni fa. Trovare elementi di battaglia politica unitaria per le persone, per evitare nuove fratture, è centrale. Reclamare un salario minimo superiore agli attuali minimi contrattuali, e allo stesso tempo rivendicare la difesa e, anzi, il potenziamento e il miglioramento del Reddito di cittadinanza, ad esempio, va in questa direzione. Ricomporre la frammentazione delle esperienze e delle condizioni delle persone in un’identità condivisa in cui ciascuno e ciascuna si possa riconoscere e che a tutti e tutte indichi una prospettiva di miglioramento della propria vita, è un processo politico, tutto da costruire.
Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino, 2019).
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.