
La Resistenza armata tedesca: l’ultimo tabù
Il 20 luglio di 78 anni fa il colonnello Claus Schenk von Stauffenberg provò a uccidere Adolf Hitler. Non ci riuscì, ma fu il segnale che portò migliaia di persone a disertare e combattere contro il nazismo. Una storia rimossa
Facce di russi, di ucraini, di polacchi, di mongoli venuti chissà di dove; ebrei, anche, sì, qualcuno; e donne, e una girandola di uniformi. Sovietici rivestiti dai tedeschi, nella divisa della polizia; sovietici tutti stracciati, con la divisa dell’Armata Rossa; perfino qualche disertore tedesco… Quanti? Chi sa! Cinquanta qui, trecento là, gruppi che si formavano e si disfacevano, alleanze, litigi e qualche sparatoria.
È così che a pagina 18 della prima edizione di Se non ora, quando?, romanzo-epopea resistenziale di Primo Levi pubblicato nel 1982, nel discorso indiretto che riferisce il racconto di un aviatore uzbeko sorto in mezzo ai cespugli, appaiono tra i partigiani della regione anche disertori tedeschi. Nell’ouverture del suo romanzo sui resistenti ebrei, che si dipana tra la Russia Bianca, la Polonia e la Germania per arrivare fino all’Italia del nord, il testimone e chimico piemontese ormai celebre a livello globale si premurò di inserire tra questo partigianato est europeo – scalcagnato, vivido, determinato – anche dei combattenti tedeschi.
D’altra parte Levi affrontò in altri frangenti il tema della Resistenza internazionale (ad esempio nella storia di Avrom, in Lilít [1981], il quale «come tanti eroi del Risorgimento aveva combattuto per la libertà di tutti in un paese che non era il suo») e alla sua ricerca di tedeschi che non fossero complici dedicò tutta la propria vita di superstite, non senza ricorrenti ritrosie, in maniera ondivaga, «a tratti entusiasta, a tratti frustrante», come ha rilevato Martina Mengoni nel suo brillante studio Primo Levi e i tedeschi (2015). E già nel maggio del 1960, scrivendo al suo traduttore Heinz Riedt – che era stato a sua volta un partigiano tedesco in Italia, «forse […] la persona che da anni speravo di incontrare», come gli confessò pochi mesi prima – a ridosso dell’imminente uscita dell’edizione tedesca di Se questo è un uomo, dichiarò: «Non ho mai nutrito odio nei riguardi del popolo tedesco, e se lo avessi nutrito ne sarei guarito ora, dopo aver conosciuto Lei. Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che è ma per il gruppo a cui gli accade di appartenere». Questo suo commento in Italia sarebbe stato reso pubblico solo un quarto di secolo più tardi, nel capitolo Lettere di tedeschi de I sommersi e i salvati, l’ultimo libro che Levi diede alle stampe prima di morire. In Germania, invece, fu inserito nella prefazione di Ist das ein Mensch?, con un particolare omissis di un periodo – non riportato in entrambi in casi – in cui si parla di quel paese come di una nazione «oggi dormiente» che «è insieme un pericolo e una speranza per l’Europa».
E se allarghiamo lo sguardo, restando – per un istante e rapsodicamente – nel campo visivo che ci concede la letteratura, troviamo partigiani tedeschi o aspiranti tali praticamente ovunque: dal tedesco «puro» (non riconosciuto come tale dai resistenti polacchi: l’episodio è straziante) in Educazione europea di Romain Gary (1944) all’austriaco «Fritz» del racconto Golia (1960-63 ca.) di Beppe Fenoglio o all’«ufficialetto» suo connazionale che si unisce alla Resistenza ne Il partigiano Johnny (1968, postumo), fino alla magnetica figura di Walter Proska, il riluttante disertore del romanzo di impianto autobiografico di Siegfried Lenz, Der Überläufer, scritto nell’immediato dopoguerra ma pubblicato solo nel 2016; ad aprile 2020 è uscita oltretutto una miniserie tratta dal libro, a confermare un montante interesse, ancorché imperdonabilmente tardivo, nei confronti di queste vicende.
Fin dalla seconda metà degli anni Quaranta, dunque, la migliore narrativa scaturita dal secondo conflitto mondiale, da vivide esperienze autobiografiche di deportazione e Resistenza, ha costantemente fotografato tra i partigiani europei dei tedeschi. Ma non è solo la letteratura strictu sensu ad averlo focalizzato, sebbene non manchino i chiaroscuri in queste prime «rivelazioni»: ancora nelle edizioni degli anni Settanta delle Lettere della Resistenza europea, che ne includono dieci di antinazisti tedeschi e austriaci, si ragiona infatti intorno all’odio maturato nei confronti di un «popolo di assassini», rinnovando un’avversione atavica nei confronti dei tedeschi «cattivi» as such. Eppure, se ci concediamo di tralasciare il milione circa di tedeschi che finirono nei campi di concentramento nazionalsocialisti, il fenomeno della diserzione, strutturale in ogni conflitto armato, era stato tutto fuorché trascurabile tra il 1939 e il 1945.
Considerando la decisa impennata dettata dal panico delle ultime settimane di guerra che rese anche difficile contarli, i disertori delle forze armate tedesche possono essere stimati nell’ordine delle centinaia di migliaia sui circa venti milioni di combattenti (anche di origine ebraica, peraltro) impegnati sui vari fronti. Furono oltre 22.000 le sentenze di morte per diserzione emanate, e almeno 15.000 vennero in effetti applicate come auspicava Adolf Hitler già nel Mein Kampf: se un uomo in guerra può morire, scriveva il futuro dittatore austriaco, il disertore deve. E infatti molti altri – chissà quanti – vennero giustiziati su due piedi: fucilati o impiccati all’albero più vicino dai loro ex commilitoni. Ma limitiamoci a osservare i dati certi: 15.000 esecuzioni. È una cifra impressionante, se comparata con i 48 giustiziati nella guerra precedente dal Reich tedesco e con i 40 messi a morte dalla Gran Bretagna e i 146 dagli Stati uniti nel secondo conflitto mondiale, e considerando le centinaia di migliaia di disertori che, scampata la pena capitale, vennero imprigionati o spediti in «battaglioni punitivi».
Le loro storie svelano ben altro rispetto all’immagine del «povero soldato» inconsapevole che l’ha fatta da padrona nel lungo dopoguerra tedesco, soprattutto negli Heimatfilme che hanno dominato l’immaginario collettivo di una nazione che ci ha messo decenni a «fare i conti» con il passato nazista, riuscendoci – per lo meno a livello istituzionale – solo a Germania riunificata. Se da un lato non bisogna dimenticare, come ha rivelato negli anni Novanta – innanzitutto in Germania e in Austria – la Wehrmachtsausstellung, la mostra itinerante sulla guerra di sterminio e sui crimini della Wehrmacht, che la guerra ai civili non era stata fatta solamente dalle unità più spietate e più ideologicamente vicine al nazismo (SS e Gestapo), ma anche da molti soldati e ufficiali, né che molti «uomini comuni» parteciparono senza farsi troppi scrupoli al massacro spesso prendendoci gusto, dall’altro la vicenda dei disertori è un elefante che da tre quarti di secolo si aggira in un silenzio spettrale tra le rovine della guerra europea dei Trent’anni. Nella storiografia tedesca circola un’espressione: «l’ultimo tabù», dal titolo dell’opera omonima (Das letzte Tabu) curata da Wolfram Wette e Detlef Vogel nel 2007; e anche da un punto di vista transnazionale l’accostamento di due lemmi assai semplici, consolidati e descrittivi come «partigiani tedeschi» appare ancor oggi problematico, e a molti e molte suona come un malcelato ossimoro.
Partigiani tedeschi in Europa: frammenti di una storia da indagare
Non è certo un caso che, sul fronte orientale, Heinrich Himmler decise di proibire la parola «partigiano», per riferirsi ai gruppi di civili che affiancavano le forze regolari sovietiche, ordinando di utilizzare il termine «banditi» (Banditen), largamente in uso in tutta Europa, o in alternativa il termine franc-tireurs, espressione che i tedeschi conoscevano bene per via della guerra del 1870-71. Come ha raccontato lo storico Chris Bellamy, il lemma «partigiano» poteva fare presa sui soldati tedeschi, persino nella «guerra assoluta» contro l’Urss, dove fin dalle ore precedenti l’attacco un militare tedesco passò le linee per avvisare i nemici. Dovrebbe trattarsi dell’operaio comunista berlinese Wilhelm Korpik o del caporale Alfred Liskow, falegname comunista bavarese, che è l’unico disertore (Пeребежчик) del quale è citata l’identità nella raccolta di documenti dell’Urss sulla «grande guerra patriottica» e che venne probabilmente non creduto e fucilato dai sovietici (in maniera analoga a quanto accade in Educazione europea di Gary, che avrebbe dovuto intitolarsi I dintorni di Stalingrado). In realtà sappiamo che di militari passati a dar manforte ai «rossi» ce ne furono diversi altri (persino dei generali come Rudolf Bamler), e furono numerosissimi nel celebre e leggendario «Battaglione punitivo 999» – che poi in Grecia vedrà un altissimo tasso di diserzione –, dove erano assegnati i comunisti tedeschi, e in genere gli antinazisti; come ha osservato Alexander Statiev nel volume collettaneo European Resistance in the Second World War, i passaggi di campo, considerando anche quelli dei combattenti locali, possono essere stimati in decine di migliaia. Le loro storie, e innanzitutto la lungimirante diserzione di Liskow, a guerra in corso vennero talvolta utilizzate per la propaganda antinazista: tra le più emozionanti rimane la vicenda del muratore comunista Fritz Schmenkel, di Stettino, catturato in Bielorussia dai suoi ex camerati dopo oltre due anni di lotta con i partigiani sovietici e fucilato nel febbraio del 1944.
E lo stesso vale per diversi altri teatri di guerra, come la Francia (dove furono sicuramente svariate centinaia, probabilmente migliaia), la Jugoslavia e la Grecia (dove furono oltre mille, come ha ricostruito lo storico tedesco Christoph Schminck-Gustavus). Anche se è sempre difficile raggiungere delle stime certe, e tendenzialmente domina la prudenza, va detto che le biografie a nostra conoscenza hanno raggiunto ormai da tempo, allargando lo sguardo al continente, un ordine complessivo quantificabile in diverse migliaia.
E se è vero che si tratta di un’esigua minoranza vista dal versante dei mobilitati, se si ribalta la prospettiva e si accostano le stime dei disertori che rivolgono le armi contro i connazionali ai numeri dei partigiani combattenti stiamo parlando, anche quantitativamente, di dimensioni di notevole rilevanza: per il caso italiano nel mio Il buon tedesco ipotizzo che siano tra i due e i tremila i combattenti tedeschi e austriaci unitisi ai partigiani sulla penisola; e nel saggio e in successivi contributi «derivati» invito a giustapporre alle celebri «tre guerre» teorizzate da Claudio Pavone – civile, di liberazione, di classe – una quarta, altrettanto importante: una guerra ideologica internazionale che va in scena su tutti i fronti, coinvolgendo decine di nazionalità tra cui, appunto, migliaia di soldati e ufficiali del Terzo Reich.
L’ultima estate di guerra
L’estate del 1944, in questo, fu decisiva per due ragioni.
In primis, dopo lo sbarco in Normandia a fine primavera le forze armate tedesche si trovarono vicine al punto di rottura: l’Asse stava perdendo la guerra ovunque e le diserzioni divennero sistematiche. Riguardavano soldati inquadrati precedentemente a est, alsaziani e Volksdeutsche, ma anche tedeschi nati nel Reich (Reichsdeutsche) e austriaci, come ha notato lo storico militare Antony Beevor:
Alcuni erano soldati che non credevano nel regime nazista o che, più semplicemente, odiavano la guerra […] Il generale Lüttwitz, comandante della 2ª Divisione panzer, rimase sconvolto quando tre dei suoi austriaci disertarono passando al nemico e avvertì che i nomi di tutti i disertori sarebbero stati resi pubblici nelle loro rispettive città, così da poter prendere misure contro i loro parenti. «Se qualcuno tradisce il suo stesso popolo» annunciò «la sua famiglia non appartiene più alla comunità nazionale tedesca».
In secondo luogo, dato che si intercetta su tutti i fronti e in tutti i contesti sociali, è fondamentale l’impatto del colpo di mano messo in atto dal colonnello Claus Schenk von Stauffenberg il 20 luglio 1944 poco prima delle 13. Subito si sparse la voce che il Führer era morto, ma presto arrivò la smentita: era uscito illeso dall’attentato. Già alle 20.35 del 20 luglio fu ordinato l’arresto di tutti coloro che vi avevano partecipato, e si scatenò la furia vendicatrice nazista. Almeno 150 persone vennero giustiziate (tra cui lo stesso Stauffenberg), il 30 luglio il Führer ordinò il Sippenhaft – l’internamento dei familiari dei cospiratori per «corresponsabilità» – e in agosto Hitler e Himmler procedettero ad arrestare tutti gli uomini politici della repubblica di Weimar: è l’Aktion Gewitter, nella quale finirono così in prigione altre 5.000 persone, molte delle quali non sarebbero sopravvissute.
Per numerosi combattenti, il mancato tirannicidio dell’Operazione Valchiria – celebre anche in virtù dell’omonimo film del 2008 –, avvenuto inoltre quando ormai la tenaglia da est, da sud e da nordovest si stava stringendo sul Terzo Reich, accelerò il processo di incubazione di una scelta irreversibile che li portò a disertare. Perché il malcontento, foss’anche nella sua natura di investimento in un futuro che si preannunciava di altro colore, serpeggiava anche tra i vertici delle forze armate. Il messaggio fu nitido: non c’era più coesione intorno a Hitler e ai suoi piani di dominio, neanche in porzioni rilevanti delle alte sfere della Germania nazionalsocialista. L’opposizione attiva era residuale, certo, ed erano fragili minoranze quelle che in qualche modo la mettevano in pratica. I tentativi di opporsi che, a vari livelli, si susseguirono nei cinque anni di conflitto investirono però i più diversi segmenti della società: dagli aristocratici agli operai e ai contadini, dai religiosi ai militanti di lungo corso ai (veri o presunti) «ravveduti». E quegli ultimi giorni di luglio del 1944 furono una svolta. Perché davvero tutto apparve perduto e perché era ormai chiaro a ciascuno che la guerra, fino a quel momento «esportata» insieme all’alleato italiano con iniziale e travolgente successo, stesse arrivando nei vecchi confini della Germania. E tra i soldati e gli ufficiali iniziò a serpeggiare un profondo disagio, quando non aperto dissenso, come avrebbe rilevato ad esempio la Commissione italo-tedesca (2009-2012) per quanto riguarda lo scacchiere della penisola: a partire dall’estate del 1944, nelle annotazioni dei soldati delle forze armate tedesche si trovano infatti «elementi decisamente nuovi», e si inizia a mettere sistematicamente in dubbio «anche il senso della guerra in Italia in generale».
Le frontiere negli occhi
Il più noto di una serie interminabile di tentati tirannicidi – ma il più epico rimane a mio avviso quello di Georg Elser, carpentiere e falegname, che a due mesi dallo scoppio della guerra mancò il Führer di 13 minuti in un attentato dinamitardo – ha, in sostanza, contribuito a cannibalizzare il tema della Resistenza armata tedesca, convogliando su di sé tutta l’attenzione, o quasi. Non è certo facile abbattere l’«ultimo tabù», considerato il combinato disposto che, mentre i disertori all’inizio del nuovo millennio venivano infine riabilitati in Germania e in Austria – ma in quanto vittime della giustizia nazionalsocialista, non in virtù del loro (eventuale) status di combattenti – negli ultimi decenni ha dato ampio risalto a storie assai meno problematiche e più ecumeniche.
Grazie anche al cinema, infatti, tra gli anni Novanta e gli anni Duemila hanno avuto una strabiliante notorietà alcune gesta di tedeschi. Innanzitutto la storia dell’imprenditore Oskar Schindler riproposta da Steven Spielberg nel 1993 (tratta dal libro di Thomas Keneally del 1982), poi quella degli studenti Hans e Sophie Scholl raccontata nel più didascalico La rosa bianca – Sophie Scholl (Sophie Scholl – Die letzten Tage, 2005) o ancora, grazie al recente Lettere da Berlino (Alone in Berlin, 2015), la tragica vicenda dei coniugi Otto ed Elise Hampel narrata nel meraviglioso Ognuno muore solo di Hans Fallada (1947), definito non a caso dallo stesso Levi «Il libro più importante che sia mai stato scritto sulla resistenza tedesca al nazismo». Ma la sensazione è che gli oppositori tedeschi siano stati letteralmente, nell’immaginario europeo, «disarmati». E confinati, almeno per quanto riguarda ciò che accadde all’interno dei «vecchi» confini del Terzo Reich, nel rassicurante contenitore della «resistenza civile».
Nella Germania di allora non erano mancati i giovani che avevano fondato organizzazioni clandestine in contrasto alla Gioventù Hitleriana – come i «Pirati del Kittelbach» o i «Pirati della Stella Alpina» –, né altre cospirazioni di militari, né il costante lavorio sotterraneo di comunisti, socialisti, sindacalisti e molti socialdemocratici, anche in armi: per tutti i dodici anni di nazionalsocialismo, nella più drammatica delle condizioni, individui, gruppi e movimenti diedero tenacemente battaglia alla Germania nazista all’interno dei suoi confini, che si ampliarono a dismisura a partire dal 1939 per poi contrarsi nuovamente dal 1943. I casi più noti del Widerstand tedesco sono forse quello del Circolo di Kreisau (Kreisauer Kreis) – composto da intellettuali, militanti di sinistra e religiosi –, annientato in seguito al mancato tirannicidio di Stauffenberg, o della cosiddetta Orchestra Rossa (Rote Kapelle), gruppo composito di resistenti così definito dalla Gestapo il quale denunciò tra le altre cose lo sterminio in corso in Europa orientale, fino a essere a sua volta decapitato dalla macchina repressiva nazionalsocialista, che ne uccise oltre cinquanta membri.
Per vedere la Resistenza armata tedesca, però, bisogna fare uno sforzo di immaginazione. In scia a imponenti lavori di sintesi che negli ultimi anni hanno costretto anche la storiografia a ripensare quegli anni nei loro termini spaziali – penso naturalmente a Terre di sangue di Timothy Snyder (2010), tra i capostipiti di questa nuova vague –, dovremmo iniziare a vedere i partigiani tedeschi per quello che furono in un continente che aveva sì confini amministrativi ma, fondamentalmente, era «tutta Germania». Svariate migliaia di combattenti (e non è da escludere che l’ordine sia delle decine di migliaia) che trovatisi in ogni angolo della «fortezza Europa» nazista dai Pirenei alle «terre di sangue» dell’est, dal Mare del Nord al Mediterraneo, quando vollero, riuscirono e poterono, disertarono e passarono al nemico. C’erano eccome, i partigiani tedeschi: dall’Unione sovietica alla Francia, dall’Italia alla Jugoslavia e alla Grecia, combattevano dove la guerra li aveva portati; alcuni lo fecero non appena giunsero al fronte, altri ci misero un po’ a scegliere, vissero il loro personale «lungo» 8 settembre «prolungato e strisciante» (per tornare a Pavone).
Ma quale generazione capì tutto subito? Quanti erano i partigiani italiani a settembre del 1943, ad esempio? Alcune centinaia. Che differenza c’è tra un Rudolf Jacobs che dopo anni in giro per l’Europa – presumibilmente senza aver mai sparato un colpo – passò alla Resistenza italiana e un Nuto Revelli che, reduce dal fronte russo, fece altrettanto? A chi si perde in distinguo che puzzano di nazionalismo inconsapevole, vogliamo ricordare che decine di migliaia di partigiani italiani erano stati fascisti o avevano partecipato alle guerre fasciste, e che tra loro c’era anche chi – facile fare l’esempio di Edgardo Sogno, praticamente uno spettacolo circolare – aveva combattuto in Spagna, volontariamente, dall’altra parte?
I partigiani tedeschi, presenza non trascurabile nelle resistenze «nazionali» furono una minoranza, probabilmente anche sparuta, se comparata ai milioni di mobilitati nelle forze armate, senza ombra di dubbio. Ma in quale paese la Resistenza non lo fu? Levandoci le frontiere dagli occhi, dobbiamo iniziare a riconoscere che anche il Terzo Reich ha avuto il suo esercito di liberazione. Particolarmente sgangherato, certo, in quanto composto di uomini e ragazzi sparpagliati ovunque, tra l’Europa ridotta in macerie dai loro commilitoni.
*Carlo Greppi, storico e scrittore, è curatore della serie Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti di Editori Laterza, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente (2020). Tra le sue più recenti pubblicazioni, 25 aprile 1945 (Laterza 2018), La storia ci salverà. Una dichiarazione d’amore (Utet 2020) e Il buon tedesco (Laterza 2021, Premio FiuggiStoria 2021). È inoltre autore di un manuale per il triennio della scuola secondaria superiore di secondo grado (Trame del tempo, di C. Ciccopiedi, V. Colombi, C. Greppi, M. Meotto [Laterza 2022]), del quale firma il terzo volume: Guerra e pace. Dal Novecento a oggi.
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