La ricerca oltre la crisi
Un nuovo orizzonte oltre la pandemia, per ricostruire il ruolo sociale della scienza e dei saperi come beni comuni a tutela del benessere collettivo
La crisi da Covid-19 ha improvvisamente messo a nudo una vulnerabilità che pare riportare l’umanità indietro di secoli nella storia del suo progresso. Attraversiamo uno scenario inedito che, tra le diverse questioni che mette in luce, colpisce al cuore il rapporto tra scienza e società. Per questo, come ricercatrici e ricercatori, ma anche come attiviste e attivisti, vogliamo riflettere sulle ricadute sociali del nostro lavoro e su come possa inserirsi nel discorso pubblico entro e oltre le difficili giornate di questo periodo. Mossi dall’idea che lo studio e la comprensione dei fenomeni ci aiuti a non rimanerne sopraffatti e a identificare delle possibili soluzioni, crediamo serva fare il punto sul ruolo della scienza nella società e sul rapporto che ne regola il legame. Proviamo a farlo nella duplice prospettiva di comprendere, da una parte, quale sia il contributo che il mondo dei saperi può offrire alla comunità per superare l’emergenza nelle sue diverse implicazioni e, dall’altra, cosa sia necessario affinché gli strumenti che il mondo della conoscenza può mettere a disposizione siano efficaci.
Prima di aprire questa riflessione, però, ci preme sgombrare il campo da un equivoco: un’epidemia, così come una crisi economica o qualsiasi altra dinamica naturale e sociale, è un fenomeno complesso e va letto in quanto tale, senza cercarne una narrazione univoca quanto semplicistica. Per questo stupiscono gli appelli di alcuni esponenti della politica che chiedono alla comunità scientifica «certezze inconfutabili e non tre o quattro opzioni per ogni tema». Affermazioni di questo tipo nascondono alla base un grande fraintendimento attorno all’idea che la scienza possa essere considerata come un’entità monolitica, neutrale e super-partes rispetto all’oggetto dei suoi studi. La prospettiva tecnocratica alla base di questa visione altro non è che una distorsione del concetto stesso di scienza, che nasconde una tesi da discutere dietro a una patina di – solo apparente – oggettività, con l’effetto di sottrarla al dibattito democratico costruendo un muro tra scienza e opinione pubblica. Infatti, ammesso e non concesso che un singolo dato misurabile possa avere una sua oggettività, il modo in cui una molteplicità di questi vengono prima selezionati e poi messi in relazione e la narrazione che vi si costruisce attorno finiscono sempre per essere storicamente e politicamente situati. Il compito della scienza, e a maggior ragione delle scienze umane e sociali – essendo strutturalmente concepite per progredire attraverso verità falsificabili – non è quello di fornire certezze inconfutabili, quanto piuttosto di mettere a disposizione della collettività degli strumenti che possano servire da bussole per orientarsi. In questo senso la scienza ha una connotazione profondamente democratica, e il suo ruolo è quello di istruire nel modo più accessibile possibile un dibattito pubblico scientificamente informato, sulla cui base si formano le opinioni che orientano le scelte dei diversi decisori politici. È però sempre e solo a questi ultimi, in tutte le loro diverse forme e rappresentazioni, che spetta la fase finale del processo di decisione, che include la scelta tra le opzioni possibili e la sua attuazione, con l’inevitabile assunzione di responsabilità che ne consegue.
Chiarire questo passaggio rispetto a cosa la scienza sia e quale sia la sua utilità sociale è fondamentale per ragionare sulla sua ricezione nel discorso pubblico. Questo negli ultimi decenni si è polarizzato sempre di più su posizioni tra loro antitetiche e che per uno strano paradosso si alimentano soprattutto dell’antipatia verso il polo opposto, senza riuscire a restituire la complessità delle trasformazioni che hanno investito e stanno investendo il rapporto tra saperi e comunità.
Da una parte registriamo con preoccupazione l’emergere di un sentimento antiscientifico, talvolta orgoglioso e altre volte inconsapevole: si palesa marginalmente nelle più strampalate teorie del complotto, e in modo ben più serio nella crescente difficoltà da parte di molte persone nel selezionare in modo critico le fonti di informazione, finendo per leggere con creduloneria quelle più controverse e con diffidenza quelle tradizionalmente ritenute attendibili. In questo processo, ha senza dubbio giocato un ruolo chiave l’operazione di esautoramento, economico e nella narrazione collettiva, della pubblica istruzione costruita in vent’anni di berlusconismo. Tuttavia, vale la pena di analizzare anche il ruolo rivestito dalla diffusione dei nuovi mezzi di informazione di massa, dalla televisione a internet fino ai social network, e le contraddizioni che questi nuovi strumenti hanno portato con sé.
A prima vista infatti sembra che questi ultimi abbiano trasformato il ruolo del destinatario di ciascun contenuto informativo, da quello di semplice lettore o lettrice, in uno decisamente più proattivo: purtroppo, però, questa apparente democratizzazione è solo una brutale illusione. La potenziale spinta verso la conoscenza offerta dall’accesso alle informazioni da parte di fette sempre più ampie di popolazione al momento non si è tradotta in una democratizzazione del dibattito perché non è stata accompagnata da strumenti di supporto adeguati. Fino a oggi l’accesso non mediato a una molteplicità di fonti, più o meno attendibili, ma anche le nuove gerarchie e relazioni che si producono all’interno del circuito del web, mediante algoritmi che ordinano la disponibilità di queste fonti, hanno profondamente alterato il rapporto tra collettività e scienza, contribuendo a decostruire l’autorevolezza di quest’ultima.
Dall’altra parte, la comunità scientifica, o almeno una sua parte, talvolta non ha saputo comunicare con efficacia i frutti del proprio lavoro al suo esterno, accartocciandosi in un atteggiamento autoreferenziale fino ad abdicare alla missione divulgativa che le è richiesto di esercitare, mentre altre volte ha avanzato istanze che la politica non ha saputo o voluto ascoltare minando nuovamente la credibilità dell’una e dell’altra (si pensi a titolo d’esempio ai moniti che la scienza ha lanciato rispetto alla crisi ambientale e climatica).
Tutto questo ha a che fare con la rottura di un patto sociale e di fiducia tra il mondo della ricerca e la società che gli sta attorno, che è insieme effetto e concausa della gigantesca crisi di senso che la società occidentale sta attraversando: una crisi che, travolgendo tutte le strutture di significato, ha colpito duramente anche la credibilità di scienza e politica nel prefigurare un futuro che ispiri fiducia invece di ansia e paura. Le cause di questa crisi di senso si annidano nel logoramento di quella cinghia di trasmissione tra chi, a diverso titolo, è chiamato a prendere delle decisioni e chi ne vive le conseguenze sulla propria pelle, sentendosi spogliato della possibilità di esprimersi al riguardo. Si tratta di uno strappo complesso e difficile da ricucire, ma che non possiamo più tardare ad affrontare.
Perché la ricerca sia un bene comune nel senso più autentico del termine, il primo passo da fare è che la comunità scientifica torni a esercitare la famosa «terza missione», fatta, molto più che di brevetti e di relazioni industriali con le imprese, di divulgazione e contributi da portare all’esterno, senza sottrarsi al dibattito democratico e talvolta anche alle critiche e all’ammissione di non avere una risposta per ogni domanda, ma solo strumenti da mettere a disposizione e tanta capacità di mettersi in ascolto e in discussione.
Per ricostruire un patto sociale tra mondo della conoscenza e società, dunque, è centrale ripartire dalla dimensione di cura della collettività e del bene comune che dovrebbero muovere l’agire di queste fondamentali istituzioni di riproduzione sociale.
Affinché si imbocchi questa strada, è necessario affrontare almeno due ordini di discorsi, concatenati tra loro. Il primo è quello della circolazione dei saperi:è necessario implementare protocolli di copyleft e open access, come ad esempio la piattaforma Plan S – ma esistono anche molte sperimentazioni coraggiose di autorganizzazione e mutualismo in questo senso – di modo che i risultati della produzione scientifica siano accessibili e consultabili da chiunque lo desideri. Il secondo nodo da sciogliere, riguarda il cosiddetto trasferimento tecnologico, ovvero il meccanismo attraverso cui le conoscenze generate nelle università e negli enti di ricerca vengono assorbite da imprese e territorio.
Il filo rosso che lega questi due nodi è senza dubbio quello del rapporto tra settore pubblico e privato: la privatizzazione dell’accesso ai saperi – di cui il sistema valutativo di accreditamento delle riviste scientifiche è una delle punte dell’iceberg – così come l’ingerenza di aziende private in diversi campi della ricerca pubblica rappresentano forti elementi di contraddizione su cui non si può più rimandare l’elaborazione di una riflessione complessiva.È ormai sotto gli occhi di tutte e tutti quali siano i tragici effetti prodotti dalla cannibalizzazione del settore pubblico operato dal privato: ne è un esempio lampante l’inadeguatezza strutturale del Servizio sanitario nazionale davanti alla pandemia dopo anni di tagli e privatizzazioni, ma le analogie con quanto avviene nella ricerca e nell’istruzione a ogni livello sono parecchie. Ma non deve sorprendere più di tanto: il soggetto privato per sua stessa natura ha per obiettivo la massimizzazione del profitto ed è evidente come questo non coincida (quasi) mai con la tutela del benessere collettivo che sarebbe invece compito dello stato perseguire.
Perché la ricerca riacquisti la propria autorevolezza e credibilità presso l’opinione pubblica, è necessario che non diversamente dalla sanità e da tutte quelle attività che hanno al loro centro la cura e il benessere della collettività – possa smarcarsi dall’interesse privato, tornando alla propria naturale dimensione di bene comune. Se la crisi del Coronavirus riuscirà a lasciarci una lezione positiva, sarà esattamente questa: la sempre più impellente urgenza di riorganizzare l’assetto sociale mettendo da parte il falso mito dell’infallibilità e delle doti taumaturgiche del mercato per restituire centralità a una teoria e una prassi del bene comune.
Perché tutto questo discorso possa effettivamente dalla teoria tradursi in prassi, è prima di ogni altra cosa necessario mettere in sicurezza il comparto dell’istruzione e della ricerca. In questo senso, molti soggetti che storicamente si occupano di istruzione e università, da anni denunciano le drammatiche condizioni dell’accademia e di chi vi lavora precariamente, rivendicando un completo rifinanziamento del settore. Di fronte alle sfide poste dalle conseguenze della crisi pandemica, è più urgente che mai saper rispondere con un ragionamento complessivo e di lungo periodo, che si basi su una meccanica cooperativa e non rapacemente competitiva come quella che ha massacrato i sistemi formativi negli ultimi decenni. Non si può più rispondere con una logica strettamente emergenziale, col rischio che le ricadute di questa nuova crisi gravino ancora una volta sui soggetti più fragili e meno tutelati. Serve commettere sulla conoscenza come fattore chiave per costruire un futuro all’altezza dei bisogni e delle aspirazioni collettive senza lasciare indietro nessuno. Per questo tutelare i diritti e la dignità delle persone che lavorano nell’ambito del sapere è un elemento strategico per presidiare i luoghi di formazione del sapere stesso. Farlo significa inserirsi in un ragionamento di filiera sulla produzione dei saperi per garantire una formazione pubblica, di qualità e accessibile a tutti: quest’ultima è infatti uno dei più effettivi strumenti di riscatto – individuale e collettivo – da cui dipende il futuro che saremo capaci di disegnare.
Questa partita era fondamentale ben prima dell’avvento del Coronavirus, di fronte a questo snodo potrebbe rivelarsi cruciale per la storia dell’umanità. Con la crisi da Covid-19, la necessità di investire su istruzione e ricerca come beni comuni è finalmente tornata a occupare il dibattito politico. Tuttavia, quello che si è aperto nelle contraddizioni di questa fase altro non è che uno spazio di conflitto: sta alla nostra comunità il compito di aggredirlo per fissare il nostro «orizzonte del pensabile» al di fuori del paradigma attuale.
*Eleonora Priori è dottoranda in Economia e sistemi complessi all’Università di Torino. Lorenzo Fattori è dottore di ricerca in Scienze sociali e statistiche alla Federico II di Napoli. Entrambi fanno parte della segreteria di Adi – Associazione Dottorandi e Dottori di ricerca in Italia.
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