La rivolta di Hong Kong
La protesta anti-Cina è scattata contro la proposta di legge che garantisce ai cinesi la possibilità di estradare individui incarcerati nel territorio di Hong Kong. È la reazione di chi si sente accerchiato dall'autoritarismo di Pechino
«Siamo davanti a una rivolta», con queste parole il capo della Polizia di Hong Kong Stephen Lo Wai-chun ha inasprito ancora di più il conflitto del 12 giugno tra la popolazione e il governo della Regione Autonoma Speciale di Hong Kong (Rashk). Per più di otto ore i manifestanti, per lo più studenti e giovani, sono stati repressi da lacrimogeni, spray al peperoncino e proiettili di gomma – sparati ad altezza d’uomo – dalle forze dell’ordine. Quella che era stata annunciata come una giornata di forte protesta si è concretizzata in una delle più imponenti repressioni che Hong Kong abbia mai vissuto.
Da dove parte la rabbia?
La proposta di legge che garantirebbe alle autorità della Repubblica Popolare Cinese la possibilità di estradare individui incarcerati nel territorio Rashk ha mobilitato tutto il popolo, indistintamente. L’estradizione è prevista per i reati «più gravi», ovvero punibili da sette anni in su e considerati tali da entrambe le giurisdizioni. Nella nota rilasciata dal governo alle 23.07 di domenica 9 giugno, si legge inoltre che la legge non comprende nessuna criminalizzazione della libertà di assemblea, di stampa, accademica, né i reati d’opinione politica.
L’architettura giuridica su cui si basa il rapporto tra Hong Kong e Pechino, però, fa intravedere il possibile sviluppo di questa legge, ovvero una progressiva erosione del sistema «Un Paese, Due Sistemi», sancito dalla Dichiarazione del 1984 firmata dalla Gran Bretagna, allora guidata da Margaret Thatcher, e dalla Repubblica Popolare Cinese di Deng Xiaoping, che prevedeva il passaggio della colonia britannica nelle mani di Pechino il 1° luglio 1997. La strategia politica di Pechino, soprattutto dal 2012 con l’ascesa di Xi Jinping a leader centrale cinese, sembra essere sempre più evidente. Il popolo di Hong Kong sta venendo lentamente accerchiato dall’autoritarismo cinese, che stringe sempre più la presa fino a soffocare – probabilmente nel 2047 – le libertà garantite dalla Dichiarazione del 1984. Questa strategia del serpente ha fatto svegliare i cittadini, che prima di oggi hanno organizzato il Movimento degli Ombrelli nel 2014 – descritto in maniera approfondita nell’ultimo libro del sociologo Ming-sho Ho.
Dalla fine di marzo di quest’anno, una nuova mobilitazione popolare ha iniziato a muoversi per le strade della città, manifestando pacificamente il proprio dissenso verso la legge proposta – o per meglio dire, imposta – e un governo sempre più asservito al potere politico proveniente dall’alto. L’amarezza della sconfitta del 2014 sta sicuramente giocando un ruolo all’interno di questa nuova ondata di proteste. Subito dopo la presentazione della proposta di legge, il 31 marzo una prima protesta ha riacceso le braci dell’opposizione che sembravano spente dalla paura della repressione. Invece, a quelle dodicimila persone di marzo se ne sono aggiunte più di altre centomila un mese dopo, il 28 aprile. La fiamma ha quindi ricominciato ad ardere. Durante la manifestazione è stata ripetuta la frase «è la manifestazione più grande dal 2014» per tutta la durata del corteo e nei giorni successivi. Il silenzio è stato il protagonista della seconda protesta, come ha imposto la parte maggioritaria del corteo, nonché quella più conservativa nella strategia di protesta.
Da qui, il primo scontro è avvenuto proprio nel Consiglio Legislativo (LegCo) tra le forze di maggioranza – filo cinesi – e le forze di opposizione – pro democratici. L’11 maggio la rabbia scaturita dalla voluta noncuranza della maggioranza di Carrie Lam – l’attuale Capo Esecutivo di Hong Kong – nei confronti di un’opposizione unita nel richiedere una discussione leale riguardo alla proposta di legge ha portato all’ospedalizzazione di due membri dell’opposizione. L’avvicinamento progressivo tra il popolo e i leader dell’opposizione è stato rafforzato dalla terza protesta, quella degli avvocati del 6 giugno. Per la prima volta nella storia di Rashk, un corteo silenzioso di tremila avvocati – circa un quarto del totale – ha sfilato dalla Corte d’Appello Finale agli Uffici del Governo Centrale.
In questo clima di conflitto che progressivamente si è andato intensificando ed è riuscito a mantenersi pacifico mentre si allargava il bacino di cittadinanza coinvolta, ha preso luogo la più grande manifestazione che Hong Kong abbia mai visto in tutta la sua storia. Il 9 giugno, più di un milione di manifestanti ha preso parte alla protesta che da Victoria Park ha progressivamente raggiunto il LegCo e gli Uffici del Governo Centrale dopo sette ore. Il punto di partenza della protesta è altamente simbolico, perché è proprio là che ogni anno da trent’anni il 4 giugno si commemora il Massacro di Tienanmen. Questa volta però il silenzio non è riuscito a vincere e slogan che chiedevano a gran voce le dimissioni di Carrie Lam hanno lasciato spazio a brevi pause di silenzio prima di chiedere ancora più fortemente il ritiro della proposta di legge. Altrettanto simbolicamente, i manifestanti una volta arrivati al Governo Centrale hanno iniziato a girare intorno alla struttura avvolgendola, così come Pechino sta facendo con Hong Kong.
Nel dicembre 2014, agli sgoccioli del Movimento degli Ombrelli che non riuscì ad arrivare a Natale, furono esposti in tutte le zone dell’occupazione dei grandi manifesti con scritto «Torneremo». A cinque anni di distanza quella che sembrava essere una minaccia naïve si è dimostrata una semplice promessa al popolo.
Tattica di resistenza o strategia di rivolta?
Le proteste di questi mesi hanno una vera differenza rispetto ai movimenti di Occupy Central del 2014, ovvero che sono unitarie e spingono tutte verso la stessa direzione. La richiesta di tutto il popolo di Hong Kong è di fermare la legge sull’estradizione, mentre nel 2014 la frammentazione aveva favorito l’intervento del governo centrale. Dopo 79 giorni l’occupazione venne sgomberata e proprio il mese scorso sono stati condannati a sedici mesi di reclusione due dei nove fondatori del Movimento degli Ombrelli e altri due a otto mesi, dopo l’arresto e seconda detenzione nel gennaio 2018 di Joshua Wong – uno dei fondatori più giovani del movimento.
Quello che però può apparire come un elemento positivo, l’unità nella richiesta, si è però andato a infrangere contro il problema più grande di questa nuova ondata di dissenso, il coordinamento e l’organizzazione. Infatti, nonostante ci sia una forte convergenza di tutte le forze della società, non esiste una struttura ben organizzata che possa favorire un risultato positivo dall’opportunità politica che è stata creata con i mesi. L’intensità del conflitto è cresciuta grazie alla costante spontaneità, che però è stata affiancata da una più sottile contrapposizione tra due rami dei manifestanti. Da una parte il silenzio pacifico rappresentativo della disobbedienza di chi si vuole opporre senza però ricorrere a metodi violenti; dall’altra, una crescente voglia da parte di alcune frange della popolazione di voler agire più risolutamente davanti ai costanti rifiuti da parte del governo di Carrie Lam di ascoltare il proprio popolo anziché Pechino.
Questa seconda parte ha quindi intrapreso un dibattito interno, lontano dai riflettori, spesso condotto attraverso piccoli gruppi in maniera molto informale, sulla possibilità di usare la violenza davanti a un potere sordo. Questa discussione si è svolta soprattutto in due modi. Il primo attraverso chat criptate soprattutto su Telegram, che quindi potessero garantire una protezione maggiore rispetto a Whatsapp o, ancora più pericolosamente, WeChat, la piattaforma messaggistica cinese. Il secondo invece è stato svolto nelle conversazioni personali. Le azioni del 9 e del 12 giugno però hanno confermato come la violenza non abbia preso il sopravvento sulla spontaneità della protesta. La repressione della polizia è stata violenta in entrambi i casi, con un’escalation nella protesta del 12 giugno, che ha visto anche dei feriti gravi e la minaccia della possibilità di utilizzo del Pla – l’esercito cinese. La protesta ha, infatti, vissuto i momenti di più alta tensione proprio davanti al più grande presidio del Pla. Subito dopo l’irruzione dei manifestanti nel LegCo, la polizia ha allontanato il gruppo sparando lacrimogeni a distanza ravvicinata e utilizzando una bomba fumogena.
Anche in questo caso, nonostante la forte diversità rispetto al 2014, non è possibile non prendere in considerazione il risultato della resistenza nonviolenta su cui tutto il Movimento degli Ombrelli si era basato. L’assenza di leader, invece, è stata spiegata dai manifestanti come forma di protezione contro la possibile criminalizzazione di chi si prenderebbe la responsabilità di guidare il movimento, andando incontro a pene detentive come per i leader di Occupy Central. La repressione violenta della polizia di allora ha portato in qualche modo alla rimodulazione della strategia di protesta, aprendo uno spiraglio per qualcosa che Hong Kong non ha mai vissuto.
Classe dominante e subordinati, il gioco degli specchi marxista
La popolazione di Hong Kong si è costituita sempre di più come classe subordinata attiva, andando a opporsi alla proposta di legge sull’estradizione presentata dal governo di Carrie Lam. Quello che però deve essere messo in luce è che in questo caso non si sta parlando di una contrapposizione tra due classi – quella dominante e subordinata – ma di almeno tre, in cui il governo di Hong Kong gioca un ruolo intermedio.
La vera classe dominante di Pechino utilizza il governo centrale di Hong Kong come un’estensione della sua volontà, assumendo il ruolo di agente intermedio tra il Politburo Permanente e il popolo dell’ex colonia britannica. In questo modo le forti pressioni che Carrie Lam ha ricevuto dalla capitale sono state eseguite nei dettagli, creando la frattura più che prevedibile tra lei e il proprio popolo. La forte repressione della polizia sui manifestanti deve quindi essere vista come un avvertimento dell’intransigenza di Pechino a voler dialogare con Hong Kong, così come il muro alzato dal governo nei confronti dell’opposizione all’interno e al di fuori del LegCo.
Dall’altro lato, gli hongkongeners hanno agito – sia nella versione pacifica che in quella più violenta – contro il proprio governo, creando un’asimmetria politica tra obiettivo da raggiungere ed effettivo mandante della legge. Proprio nel riconoscimento dell’autorità si crea una prima, forte, asimmetria perché i cittadini rifiutano l’identificazione di Pechino come legittimo potere esecutivo, nonostante Hong Kong sia formalmente una regione cinese. L’autonomia garantita dalla Dichiarazione del 1984 dovrebbe assicurare questa divisione, ma il Capo Esecutivo di Hong Kong è comunque fortemente inferiore al Presidente della Repubblica Popolare Cinese. In questo modo, l’apparente decomposizione del potere su Hong Kong genera un conflitto regionale tra popolo e governo locale, eludendo il governo centrale dal calcolo del conflitto.
Il corpo intermedio, guidato da Carrie Lam, è dominato dalla leadership di Xi Jinping e, quindi, impossibilitato ad aprire un dialogo con il suo diretto subordinato. Proprio su questa fragilità assoluta del governo di Hong Kong si gioca la partita tra il popolo di Hong Kong e il potere centrale di Pechino. La finta libertà politica su cui il territorio si appoggia viene infranta nel momento in cui il processo decisionale non avviene attraverso elezioni libere – promesse per il 2017 e non mantenute – il LegCo o il dialogo tra il popolo e il governo. Se la garanzia di libertà di stampa viene calpestata quando vengono chiuse numerose librerie indipendenti, la coscienza che deve emergere sempre di più è che il popolo può parlare solo sottovoce e sempre di meno.
Se la mano di Pechino sulla popolazione di Hong Kong è sempre più forte, fino al punto di scavalcare la finta autorità del governo attraverso annunci pubblici intimidatori al mondo Occidentale invitando a non entrare negli affari domestici di Pechino, la loro reazione scomposta è uno dei risultati più logici.
*Fabio Angiolillo è dottorando all’Università di Hong Kong (Hku). Si occupa di politica contemporanea cinese e politica comparata.
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