La sociologia da finestrino di Galli Della Loggia
L'opinionista del Corriere della sera accusa i giovani di periferia di portare il Covid-19 alla «società per bene», con un'analisi sociale non solo classista ma anche sciatta e basata su pregiudizi. Ma è il segreto di molti editorialisti nostrani
Nel classico Le anime del popolo nero, W.E.B. Du Bois introduceva la figura del sociologo da finestrino, colui che cercava di comprendere il Sud statunitense della segregazione razziale «dedicando le poche ore libere di un viaggio di piacere a dipanare il groviglio di secoli». A questo buffo personaggio, proseguiva il padre della sociologia americana, potrebbe capitare di superare con la propria auto dei contadini neri che ritornano a casa su dei carretti al termine di una giornata di lavoro – e che lungo il tragitto lasciano cadere a terra, senza curarsene, dei fasci di grano. Fedele al proprio punto di osservazione, il sociologo motorizzato concluderà che i neri sono dei campioni di inettitudine e pigrizia. Eppure, se avesse continuato a osservarli per qualche ora, avrebbe notato che all’indomani si sarebbero alzati all’alba e che poi avrebbero lavorato duramente nei campi. Più che di pigrizia, si trattava di un calcolo politico razionale e per certi versi ribelle: i contadini – proseguiva Du Bois – non avevano motivo di essere più accorti, perché nella condizione di oppressione in cui versavano l’accortezza sarebbe servita solamente a rendere le terre degli uomini bianchi migliori, a ingrassare i loro muli o a risparmiare il loro grano. Per accorgersi di tutto questo, ovviamente, diveniva necessaria una sociologia che espandesse il proprio orizzonte ben al di là delle fugaci immagini carpite da un finestrino.
Du Bois, tuttavia, non contrastava il vacanziere che s’improvvisava sociologo con un discorso apodittico – del tipo: solo chi è nato e vissuto al Sud può studiare e comprendere la realtà della segregazione razziale. In un intervento del 1905 avrebbe non a caso preso le distanze da un modo aprioristico di fare sociologia, inevitabilmente basato «sul sentito dire, sul pettegolezzo e sulla tradizione, su speculazioni vaghe, racconti di viaggiatori, leggende, ricordi di ricordi ed errori storici». Ciò che mi interessa in questa occasione è proprio il lato negativo della sua riflessione – quello del finestrino, che poi si rivelerà anche quello di chi pensa per stereotipi e sentito dire: l’uomo del finestrino può estrarre una conclusione sul carattere dei neri da una semplice occhiata perché nella sua mente ha già il pregiudizio razzista che essi siano pigri e inferiori ai bianchi.
Penso di poter dire con un certo livello di accuratezza che, per quanti appartengono oggi alla generazione dei venti-trentenni che vivono in Italia, la sociologia da finestrino è il registro con cui le opinioni supposte «colte» e «autorevoli» sull’attualità ci sono più spesso state propinate – essa è fra l’altro il segreto malcelato del bizzarro fenomeno dell’editorialismo. L’editoriale è un tipo di articolo giornalistico dalla nobile tradizione, in cui una firma di prestigio di una certa testata interviene direttamente nel dibattito pubblico. Si tratta di un esercizio complesso: esprimere in poco spazio un punto di vista coerente e informato che sia capace di far riflettere e, se necessario, di mobilitare lettrici e lettori. Il rischio di scivolare nell’impressionismo, nell’aneddoto non suffragato dall’evidenza più ampia o nella chiacchiera da bar è elevato – e cresce di pari passo con il ventaglio di argomenti su cui si è chiamati a scrivere. Una difficoltà ulteriore, almeno negli ultimi due decenni abbondanti, deriva dal fatto che coloro che firmano gli editoriali sulla carta stampata sono anche gli stessi invitati a farlo in televisione su base quasi quotidiana – l’immaginario catodico della mia generazione è fatto di direttori (quasi mai direttrici) di giornale chiamati a pontificare su qualunque tema all’ordine del giorno (dalla cronaca nera alla geopolitica del Medio Oriente, dall’economia internazionale al diritto parlamentare, dalle elezioni in un paese straniero a quelle nell’ultimo dei comuni italiani). Padroneggiare un simile novero di tematiche e affrontarle in modo chiaro e incisivo richiederebbe una cultura vastissima e in continuo aggiornamento, oltre che capacità comunicative fuori dal comune – da cui probabilmente l’alone di deferenza solitamente prestato alla categoria degli editorialisti.
Tuttavia, fare l’editorialista – e soprattutto farlo male – ha i suoi vantaggi: a differenza della cronaca, l’editoriale si può scrivere senza nemmeno uscire di casa; la visibilità e l’influenza che offre sono molto elevate (i cronisti vanno poco in televisione, gli editorialisti sembrano a volte muniti di sacco a pelo negli studi dei principali network); il rischio di smentita e falsificazione è minimo (il cronista può riportare il falso, l’editorialista potrà programmaticamente trincerarsi dietro un «esprimevo solo la mia opinione»). In Italia si aggiunge il privilegio di far parte di un club ristretto: gli editorialisti sono virtualmente tutti maschi, bianchi, avanti negli anni, perlopiù giornalisti nella fase finale della carriera o accademici attempati che non hanno ormai grandi stimoli per fare ricerca. Ne deriva che il disaccordo fra loro ha più che altro a che fare con motivi di appartenenza politica – cambierà la posizione sul governo in carica, non il modo di argomentare o i riferimenti culturali. È molto difficile, in conclusione, smascherare un editorialista sciatto, ignorante, o disonesto – e altrettanto elevato è l’incentivo, per chi ne ha la possibilità, a essere almeno qualche volta sciatto, ignorante o disonesto. La sociologia da finestrino è servita.
Ernesto Galli della Loggia è uno degli alfieri dell’editorialismo italiano: commentatore del Corriere della sera da quasi tre decenni, nessun tema sembra oltrepassare la sua competenza o la sicurezza spesso granitica dei suoi giudizi. Storico di professione, si diletta anche, all’occorrenza, in sociologia da finestrino. Emblematico, in questo senso, il suo editoriale del 28 luglio scorso. L’incipit dell’articolo è certamente condivisibile: presi dal presenzialismo mediatico, i principali esponenti della politica nazionale avrebbero dimenticato il tema delle periferie e della necessità di migliorare i servizi e la qualità della vita di chi vi risiede. I problemi iniziano, purtroppo, già dal secondo capoverso:
Solo qualche mese fa invece — complice la protesta politica dei tanti italiani obbligati nei sobborghi delle grandi città a vedersela da vicino con il problema dell’immigrazione o della presenza di un campo rom […] il problema delle periferie dei centri urbani sembrava essere ai primissimi posti nella lista delle urgenze nazionali.
Una cosa che salta all’occhio è che, nella mente dell’autore, i «campi rom» devono costituire una realtà estremamente diffusa – sarebbero «tanti» gli italiani residenti in periferia ad averli vicino casa propria. Secondo i dati a nostra disposizione, invece, in Italia esistono 127 «baraccopoli» formali (riconosciute dalle istituzioni) in cui risiedono circa 15.000 persone – mentre altre 9.600 vivrebbero in insediamenti non riconosciuti. Non tutte le persone presenti in queste strutture, peraltro, possono essere definite Rom. La percentuale di individui con un «campo rom» nel proprio vicinato è perciò infinitesima. Resta poi da capire perché tali insediamenti, o addirittura l’immigrazione in generale, sarebbero «un problema».
Riguardo il primo aspetto, Nando Sigona, tra i principali studiosi del fenomeno, notava la connotazione discriminatoria di espressioni come «campo nomadi» e «campo rom»: usate per indicare strutture fisiche spesso fatiscenti e situate in luoghi in cui nessun altro vorrebbe vivere, ma anche come metafora della stessa esistenza Rom, esse tendono a inibire forme positive di integrazione con la società circostante, contribuendo a stabilire un circolo vizioso per cui la marginalizzazione sociale e una crescente repressione da parte delle istituzioni si alimentano a vicenda. Lo scorso marzo l’Associazione 21 luglio denunciava che all’interno degli stessi «campi» istituzionalizzati di Roma era impossibile rispettare le norme anti-Covid emanate dal governo e che i loro residenti erano stati completamente abbandonati dalle istituzioni – un problema, questo, che non sembra minimamente interessare Galli della Loggia.
Riguardo all’immigrazione, l’editorialista è libero di considerarla di per sé un problema, ma il rapporto tra periferie e immigrazione è assai più complesso. Una corposa ricerca apparsa lo scorso anno e svolta nelle periferie di Roma, Milano, Firenze e Cosenza mostra come, se da un lato la percezione dell’immigrazione è spesso negativa, essa non dipende da esperienze dirette nella vita di periferia. Così scrivevano due degli autori:
[T]ra percezione negativa del problema ed esperienza reale esiste una discrasia molto ampia. Anche nelle interviste dei più critici, le problematiche segnalate e i timori espressi non sono mai riconnessi a esperienze dirette e personali (tranne in un unico caso). Al contrario, generalmente i problemi associati alla presenza dei migranti vengono pensati come esistenti in altri luoghi, lontani dal proprio contesto di riferimento (città o quartiere), dove invece la convivenza risulta pacifica e in alcuni casi genera rapporti amicali. Emerge dunque come la paura verso il fenomeno dell’immigrazione non sia il prodotto diretto della convivenza multiculturale nei contesti periferici.
Non pago delle proprie affermazioni spericolate, Galli della Loggia osa ancora di più istituendo una connessione tra periferie e pandemia:
Ma con ancora maggiore urgenza la pandemia ripropone il tema delle periferie. Infatti, da dove pensiamo mai che provengano in larga maggioranza le turbe di giovani che dappertutto stanno agitando le notti italiane di questa estate? Da dove, se non dalle invivibili periferie, dagli sperduti quartieri dormitori, dalle strade male illuminate che finiscono nel nulla? Ormai è diventato un rito. Al calar d’ogni sera, specie nel fine settimana, quei giovani si rovesciano nelle piazze, nei centri storici delle città, e sembrano farlo come posseduti da un desiderio di rivalsa che oggi si manifesta nella volontà d’infrangere tutti gli obblighi e le precauzioni sanitarie, di farsi beffa in tal modo di ogni regola di civile convivenza. Li muove, si direbbe, quasi il torbido proposito di seminare il contagio, d’infettare la società «per bene» insieme ai posti che essa abita. Di distruggere quanto non possono avere.
Difficile trovare un senso compiuto a queste frasi. Secondo Galli della Loggia, le «turbe» di giovani provenienti dalle periferie sarebbero responsabili di invadere i luoghi del centro città. L’ipotesi (risibile) è che i giovani residenti nei centri storici non escano la sera, ma rimangano serrati in casa. C’è tuttavia di peggio: per qualche misteriosa ragione sconosciuta ai virologi, le persone giovani di periferia sarebbero in quanto tali portatrici del virus – come potrebbero «seminare il contagio» se non fossero già infette? I giovani del centro, d’altro canto, non possono aver contratto il virus – quasi esso comparisse solo entro certi codici di avviamento postale –, oppure, se lo hanno fatto, sono notevolmente più ligi di quelli di periferia nel rispettare le misure di sicurezza (di nuovo: chi lo dice? Con quali dati?).
Galli della Loggia pare possedere una conoscenza delle dinamiche di diffusione del Covid-19 superiore a quella della comunità scientifica mondiale – oppure avrà intravisto dal proprio finestrino due giovani «di periferia» (come si distinguono, a proposito?) aggirarsi senza mascherina per i locali del centro e ragionato di conseguenza. Conclude il paragrafo un attacco violentissimo e completamente ingiustificato a chi vive in periferia – che addirittura spanderebbe il morbo volontariamente – il tutto condito da una spruzzata di classismo che le virgolette intorno a «per bene» non riescono a camuffare. Colpisce anche la totale mancanza di familiarità con la vita urbana – per Galli della Loggia centro e periferia sarebbero due galassie indipendenti e separate, che verrebbero in contatto solo di notte e nei weekend per mano di scalmanati untori provenienti dai bassifondi. Eppure questo, persino stando a quanto scritto dallo stesso editorialista, non ha alcun senso: come si può parlare di periferici «quartieri dormitori» se l’unica interazione tra diverse zone sarebbe data dalla cosiddetta movida?
In una sorta di gara con sé stesso a scrivere cose via via più estreme, Galli della Loggia inserisce le immaginarie scorribande dei giovani di periferia in un quadro pseudo-teorico (siamo qui alle «speculazioni vaghe» e ai «racconti di viaggiatori» di Du Bois): staremmo assistendo a «un inedito conflitto sociale» che trova la propria avanguardia nei e nelle giovani «appartenenti a una vasta zona sociale che va dal sottoproletariato alla piccola borghesia» (un movimento potenziale enorme, dunque). I giovani facinorosi di periferia si prodigherebbero «nell’occupazione selvaggia degli spazi pubblici, nel raid violento, nel vandalismo ai danni delle scuole, della segnaletica stradale o dei mezzi di trasporto». Per quanto si cerchi tra le agenzie e i siti dei quotidiani, non si riesce a trovare traccia del presunto, recente incremento della criminalità per mano dei giovani di periferia (tantopiù che gli sporadici atti vandalici ad opera di ignoti registrati nelle scuole a luglio riguardano in prevalenza centri urbani di piccole dimensioni, in cui distinguere in modo manicheo fra centro e periferia ha ancora meno senso: Terlizzi, Borgia, Volpiano, Camerota).
Non solo ci troveremmo di fronte a un conflitto sociale inesistente per tutti meno che per l’autore, ma anche le sue ragioni sarebbero per così dire spettrali: «essendogli estranea qualunque dimensione organizzata e di massa si riconosce piuttosto in quella del piccolo gruppo guidato da un’erratica spontaneità, e non possedendo alcun retroterra, alcun progetto, alcuna strategia rivendicativa non può che esprimersi in azioni puramente distruttive». Siamo qui al sempreverde topos reazionario della folla irrazionale – poco importa che si tratti di un modello superato da almeno un secolo e continuamente smentito dagli studi sulle recenti rivolte nelle grandi periferie, dalle banlieues francesi ai boroughs inglesi.
Ad averlo voluto analizzare seriamente, il tema delle periferie si sarebbe prestato a molteplici riflessioni – tutte, nemmeno a dirlo, tendenti in direzione opposta ai rilievi da finestrino letti pochi giorni fa sul Corriere. In un libro appena pubblicato Loretta Lees, tra le maggiori sociologhe urbane a livello mondiale, sottolinea la dimensione ormai planetaria della gentrificazione – termine che sta a indicare come nelle zone centrali delle grandi città quartieri in precedenza abitati dalla working class vengano rapidamente ripopolati e trasformati dalla upper e lower middle class tramite un processo che trova il suo cardine nel rapido innalzamento dei valori immobiliari. La gentrificazione ha assunto proporzioni talmente rilevanti anche in Italia che Galli della Loggia la tratta in modo inconsapevole come una sorta di invariante: l’idea che i poveri vivano inevitabilmente in periferia e i ricchi nei centri storici è intrinsecamente classista innanzitutto perché storicamente falsa (non era così fino a non moltissimi decenni fa e non occorre essere degli urbanisti per capire che le stesse coordinate del «centro» di una città siano variabili nel tempo).
Secondo Lees, nel cosiddetto Nord del mondo la gentrificazione assume solo talvolta la forma di un apartheid urbano (la segregazione spaziale di poveri e minoranze in aree remote, di solito le periferie cittadine); in altri casi, si manifesta in modalità differenti di apartheid sociale – «la segregazione de facto sulle basi di uno status economico, dove la sottoclasse è costretta a vivere separata dal resto della popolazione (anche nel caso in cui si trovino fianco a fianco)». In città come Roma o Milano la situazione sembra essere proprio questa – con numeri crescenti di lavoratori e lavoratrici che svolgono occupazioni precarie e sottopagate per tenere in piedi l’economia sempre più turistificata di un centro città in cui non possono permettersi di vivere. In un altro volume uscito negli ultimi mesi, Sarah Gainsforth ha studiato l’impatto di una piattaforma come Airbnb sulla gentrificazione in un novero di metropoli fra cui Roma, dove gli appartamenti affittati a turisti tramite il sito sono più di 15.000. La possibilità di affittare a viaggiatori e viaggiatrici per brevi lassi di tempo ha sconvolto e continua a sconvolgere il profilo di interi quartieri, mentre i canoni d’affitto schizzano alle stelle e quote crescenti di popolazione sono spinte a spostarsi lontano, in aree meno costose. Gainsforth, a differenza di Galli della Loggia, coglie anche un nesso reale tra politiche urbane e pandemia nel contesto della capitale: la brusca frenata economica portata dal virus ha congelato i progetti di «rigenerazione» urbana con cui la giunta capitolina si apprestava di fatto a (s)vendere centinaia di migliaia di metri quadri a grandi gruppi privati che avevano fiutato l’affare della gentrificazione, mostrando le fondamenta fragili di un modello di sviluppo che esclude la cittadinanza e le risorse pubbliche dal giocare un ruolo rilevante nella gestione di spazi che potrebbero migliorare le condizioni di vita di chi vive sia in centro che altrove.
La mossa pilatesca con cui, dopo le affermazioni che abbiamo visto, l’editorialista lamenta «la drammatica condizione di disagio, di diseguaglianza di standard socio-culturali, che colpisce chi vive nelle periferie» gratta appena la superficie della questione: le disuguaglianze esistono ormai abbondantemente all’interno dello stesso centro, per cui riprodurre su ampia scala un modello che ha già fallito nelle zone nevralgiche non farà che moltiplicarle. Un caso di scuola è quello di Brooklyn, borough newyorkese un tempo a buon mercato dove da più di un decennio non appena un’area si segnala per fermento culturale e qualità dei servizi diviene oggetto di speculazione immobiliare e gentrificazione, tagliando fuori chiunque non abbia entrate elevate.C’è qualcosa di improbabile, persino divertente nella sociologia da finestrino di un editorialista come Galli della Loggia: colui che tuona contro un’istruzione pubblica rea a suo dire di non bocciare abbastanza e di regalare voti, scrive peggio di un o una liceale che abbia studiato bene il testo argomentativo. Sarebbe tuttavia un errore derubricarla a fatto di costume, a ennesima manifestazione della decadenza delle élite italiche. L’editorialismo allarga i confini del dicibile (se lo ha detto uno stimato commentatore, allora dev’esser vero che quei farabutti delle periferie diffondono volontariamente il virus!); rinvigorisce – con una funzione intrinsecamente conservatrice – i pregiudizi del momento; abbassa il livello del dibattito a una notte in cui tutte le vacche sono nere e tutte le posizioni sostenibili (ovvero a uno scenario politico nel quale mutano le maggioranze ma non le agende). Il punto non è – come sostengono a volte le anime belle – che per ogni sociologo da finestrino attempato ci sarebbero dieci giovani (magari non maschi, magari non bianchi) in grado di scrivere meglio per un decimo del compenso. Al Corriere lo sanno benissimo, e lo stesso Galli della Loggia non avrebbe avuto la carriera accademica che ha avuto se non fosse abbondantemente a conoscenza dei rudimenti della scrittura argomentativa. L’essenza del privilegio, il vero potere, sta proprio nella facoltà di rinfocolare gli istinti più bassi e irrazionali della parte più privilegiata della popolazione e di farla franca davanti al tribunale dell’opinione pubblica. Sarebbe forse il caso di rendere quest’ultima prodezza meno facile, di incastonare qualche contravvenzione nei finestrini di certi guidatori spericolati.
*Franco Palazzi è dottorando in filosofia all’Università di Essex e autore di Tempo presente. Per una filosofia politica dell’attualità (ombre corte, 2019). Ha scritto, tra gli altri, per Doppiozero, Effimera, Il Tascabile, Jacobin Italia, Le parole e le cose, OperaViva Magazine e Public Seminar.
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