La tecnica non ci salverà
Dal geo-engineering alla riforestazione, con più di una strizzata d’occhio al nucleare: non mancano le soluzioni tecnologiche all’emergenza ambientale. Ma il sistema industriale che ha generato la crisi non si riforma da dentro
In una vignetta pubblicata dal New Yorker nei primi anni 2000, il presidente statunitense G.W. Bush proponeva di raffreddare l’atmosfera usando l’aria condizionata. Sarebbe come rimediare allo scioglimento dei ghiacci antartici con la neve artificiale. Eppure, su una rivista seria come Science Advances lo scenario è preso in considerazione dai climatologi del Potsdam Institute for Climate Impact Research in un articolo scientifico pubblicato il 17 luglio 2019. La neve sparata sull’Antartide servirebbe a impedire che il livello del mare si alzi di tre metri e sommerga Tokyo, Calcutta o New York. «Almeno 7.400 miliardi di tonnellate di nevicate addizionali stabilizzerebbero il flusso [del ghiaccio verso il mare] in dieci anni», scrivono gli autori dello studio. Che ammettono: «Il potenziale beneficio deve essere confrontato con il pericolo ambientale, i rischi futuri e le enormi sfide tecnologiche».
La proposta non è isolata. Da tempo la scienza produce soluzioni tecnologiche agli squilibri ambientali indotti dall’uomo. L’emergenza climatica ha solo accelerato la produzione di progetti come quello della neve artificiale al polo, per ragioni comprensibili. Tenere sotto controllo l’aumento di temperatura richiederebbe di modificare radicalmente il modello di sviluppo in auge in occidente e che si afferma anche nelle economie dell’Asia (con il conseguente sfruttamento ambientale di Africa e America latina). Un’occhiata al quadro geopolitico non induce a grandi speranze di cambiamento. Perciò, meglio cercare una soluzione nella scienza e nella tecnica piuttosto che aspettarla dalla politica.
Si chiama geo-engineering, cioè ingegneria della Terra, intesa come globo terrestre. Il termine lo ha coniato un fisico italiano oggi novantaduenne, Cesare Marchetti. Pressoché sconosciuto, Marchetti è stato uno dei pionieri del programma nucleare civile italiano e uno dei fondatori della teoria della system analysis. Per oltre quarant’anni ha lavorato all’Istituto Internazionale per l’Analisi dei Sistemi Applicata di Laxenburg, un centro di ricerca nato nel 1972 da una collaborazione tra Stati uniti e Unione sovietica proprio per affrontare problemi complessi che coinvolgono molte variabili interagenti. Le teorie di Marchetti sono state utilizzate in campi diversissimi, dallo studio dell’evoluzione della popolazione agli omicidi del Mostro di Firenze e al numero di goal di Del Piero.
Già nel 1977, Marchetti si poneva il problema di sottrarre all’atmosfera l’anidride carbonica in eccesso. La sua proposta era di immagazzinare la CO2 prodotta dai combustibili fossili e iniettarla sul fondo dell’Oceano Atlantico nei pressi dello Stretto di Gibilterra. Marchetti aveva anche trovato un nome per il suo sistema: il Gigamixer. Nello Stretto, l’acqua più densa (perché più salina) del Mediterraneo scende a 1.500 metri di profondità, nell’Oceano Atlantico si mescola e riaffiora circa 1.000 anni dopo. La corrente trascinerebbe già con sé anche l’anidride carbonica sottratta all’atmosfera e l’effetto serra tornerebbe a livelli accettabili.
Il Gigamixer non fu mai realizzato e probabilmente è meglio così. La quantità di anidride carbonica negli oceani oggi rappresenta un problema gravissimo, anche senza ulteriori aggiunte dell’uomo. Reagendo con l’acqua, la CO2 produce acido carbonico e aumenta l’acidità degli oceani. Per capire le conseguenze dell’acidificazione degli oceani, conviene guardare al passato, a circa 252 milioni di anni fa. Non si sa ancora bene se fu colpa dei vulcani o di un asteroide, ma avvenne allora la peggiore estinzione di massa sulla Terra, che segnò il confine tra il Triassico e il Permiano. Mentre il mutamento atmosferico fece fuori il 70% delle specie terrestri, l’aumento repentino dell’anidride carbonica nell’oceano portò all’estinzione il 96% delle specie marine nel giro di sessantamila anni.
Il geo-engineering però non si ferma a Marchetti. All’università di Harvard, il gruppo di ricerca diretto da Frank Keutsch pensa di poter fermare l’effetto serra disperdendo particelle di carbonato di calcio nella stratosfera. La luce solare verrebbe riflessa dalle particelle (un fenomeno detto «albedo») e non arriverebbe agli strati più bassi. Il metodo è suggerito dalla natura stessa. Le eruzioni dei vulcani Tambora nel 1815 e Pinatubo nel 1991, che spararono nell’atmosfera gigantesche quantità di polveri, provocarono abbassamenti della temperatura di circa mezzo grado centigrado nell’intero emisfero nord. L’idea pare semplice (si tratta di disperdere polveri nell’atmosfera, un po’ come nelle teorie complottiste sulle scie chimiche) ma anche stavolta non è risolutiva. Le eruzioni vulcaniche del Tambora e del Pinatubo dimostrano che la diminuzione di temperatura sparisce nel giro di un paio d’anni. Gli studi sul Pinatubo, in particolare, mostrano che la generazione fotovoltaica di energia elettrica in quel periodo è diminuita anche del 20% e la caduta delle particelle sulla superficie terrestre ha causato la morte prematura di circa cinquecentomila persone nel mondo.
Persino un processo naturale come la riforestazione rischia di avere effetti collaterali negativi. L’idea di piantare alberi per assorbire l’anidride carbonica in eccesso è molto in voga, ed è stata adottata anche dalle Nazioni unite nel Bonn Challenge, un impegno internazionale a riforestare 150 milioni di ettari nel mondo entro il 2020, e 350 entro il 2030. Una ricerca pubblicata sulla rivista Science il 5 luglio 2019 ha calcolato che si potrebbero piantare foreste su 900 milioni di ettari globali. E così si potrebbero assorbire il 25% delle emissioni globali. Gli alberi sono meno verdi di quanto sembra. Da un lato assorbono anidride carbonica, dall’altro riflettono meno del suolo che coprono, dunque contribuiscono a trattenere calore nell’atmosfera. Diverse ricerche mostrano che ad alcune latitudini il beneficio derivante dall’assorbimento dell’anidride carbonica è inferiore al danno provocato dalla minore radiazione solare riflessa. Già nel 2008 l’Onu aveva lanciato l’ambizioso progetto «Reducing emissions from deforestation and forest degradation in developing countries» in base al quale i paesi poveri ricevevano sussidi da quelli ricchi per limitare la deforestazione. Il fatto che se ne sia parlato più per i casi di corruzione che per i risultati è piuttosto significativo.
I progetti di geo-engineering proseguono. La fantasia degli scienziati è arrivata a concepire immensi teli bianchi che coprano aree della terra estese come il deserto del Sahara: oltre che irrealizzabile dal punto di vista logistico, avrebbe conseguenze sulla circolazione delle sostanze nutritive trasportate dalle tempeste di sabbia: ne farebbero la spesa interi ecosistemi. Qualcun altro ha proposto di mettere in orbita uno specchio riflettente grande quindici volte l’Italia, con costi più stratosferici dell’ozono. O uno specchio galleggiante sull’oceano vasto come un continente, che distruggerebbe la vita marina sotto di sé. O ancora una diga attraverso lo Stretto di Bering per separare l’Artico dall’acqua più calda.
Si potrebbe continuare. Chi fosse interessato, è rinviato a un libro della climatologa della Nasa Claire Parkinson, Coming climate crisis? Consider the past, Beware the big fix, pubblicato negli Stati uniti nel 2010. Parkinson non è una negazionista (tutt’altro), ma conosce molto bene i limiti della nostra capacità di prevedere l’evoluzione del clima. «Abbiamo una conoscenza troppo incompleta per rischiare di danneggiare ulteriormente l’ambiente terrestre mettendo in pratica massicci progetti di geo-engineering basati su proiezioni derivate da simulazioni al computer approssimative», scrive Parkinson.
È improbabile che dal cilindro dell’innovazione tecnologica si possa tirar fuori un coniglio in grado di fermare l’emergenza. Anche se i tentativi non mancheranno, con programmi industriali anche più collaudati e apparentemente affidabili del geo-engineering. C’è da aspettarsi, ad esempio, che nel giro di pochi anni si torni a parlare di energia nucleare. «Il nucleare è uno dei metodi di produzione di elettricità con le più basse emissioni di gas serra», afferma l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, che si sta riconvertendo in un ente che, attraverso il nucleare, aiuterà i decisori politici a raggiungere gli obiettivi ambientali fissati. «L’energia nucleare può fornire un contributo significativo per il raggiungimento di obiettivi sostenibili» sostiene Fatih Birol, direttore dell’International energy agency, nell’ultimo rapporto. Che presenta un quadro meno entusiasta: senza nuovi interventi, la produzione di energia nucleare nei paesi industrializzati sarà un terzo di quella attuale.
Anche dal settore dei trasporti è difficile aspettarsi miracoli. Persino inondando il mercato di auto elettriche, le emissioni di gas serra diminuirebbero solo in piccola parte. Rispetto a un motore diesel, quello elettrico renderebbe più pulite le città. Ma il suo effetto principale è lo spostamento delle emissioni dalle strade alle centrali di produzione energetica, dove le fonti energetiche possono essere anche più inquinanti del diesel. In paesi come Usa, Cina, India e Germania il carbone rimane una fonte energetica fondamentale. Perciò calcolare l’impatto delle auto elettriche è più complicato di quanto sembri. Secondo alcuni studi, ad esempio quello dell’Unione degli scienziati responsabili, le auto elettriche emettono la metà di un’auto tradizionale. Ma altri studi, come quello dell’Istituto per la ricerca economica di Monaco di Baviera, sostengono che un’auto elettrica tedesca inquini quanto una diesel. L’incertezza di questi studi deriva anche dalla scarsa affidabilità dei valori di inquinamento comunicati dai produttori venuta a galla con il Dieselgate. Ma l’impressione generale è che senza de-carbonizzazione l’auto elettrica non risolverà il problema delle emissioni.
Ciò non significa che scienza e tecnologia non servono ad affrontare la crisi climatica. Ma saranno tanto più efficaci se accompagneranno un progetto di società alternativo a quello attuale. Altrimenti, come hanno dimostrato i gilet gialli infuriati contro l’eco-tassa di Macron, l’ambientalismo dall’alto scivola direttamente nell’autoritarismo.
*Andrea Capocci è dottorato in fisica teorica e insegnante. Scrive di scienze su il manifesto. È autore di Networkology (il Saggiatore) e Il brevetto (Ediesse).
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