
L’Apocalisse in piazza San Marco e l’emergenza ambientale
Per salvare Venezia bisogna lottare per la giustizia climatica. Per questo gli attivisti e le attiviste che dopo la marea hanno aiutato nelle calli scioperano con Fridays For Future
I re mai ebbri delle immense ricchezze
e il carattere umano s’insinuò
e non sopportarono la felicità,
neppure le felicità,
neppure la felicità.
In un giorno e una notte la distruzione avvenne.
Tornò nell’acqua.
Sparì Atlantide.
Da secoli il mito di Atlantide esercita un fascino poetico. Un’isola di prosperità, ricchezze, scomparsa in una notte di tempeste eccezionali. Sono le parole di un filosofo a restituirne memoria in un tempo ormai lontanissimo, parole che da secoli – millenni, in effetti – plasmano il mistero di una civiltà un tempo grande caduta in disgrazia agli occhi degli dei e punita per la sua hybris.
Il ruolo di Poseidone nella distruzione di Atlantide ci parla di una concezione della natura tanto, tanto diversa da quella cui ci ha abituato la retorica – oltreché la pratica – del pianeta da difendere, delle foreste da salvare, dei mari da proteggere. Ci parla di una natura aggressiva e di una rivoluzione nei rapporti di forza che il genere umano ha intrapreso in un arco di tempo estremamente limitato. Ci parla di un anthropos spavaldo, che non teme di farsi agente modificante dell’ambiente che lo circonda.
Ci parla, nel suo piccolo, di un progetto di riqualificazione dell’area di Porto Marghera che prevede l’insediamento di un petrolchimico che si estende su 2.109 ettari con la costruzione di un impianto viario funzionale all’operatività del polo industriale. Infrastrutture che cementificano l’intera pianura padana e modificano per sempre la morfologia di un territorio unico al mondo.
Ci parla di come sia stato possibile che nel 1953 il Genio civile per le opere marittime proponesse l’apertura di un nuovo canale lagunare che collegasse il Mar Adriatico a Porto Marghera e di come poco più di dieci anni dopo il canale Malamocco-Marghera, noto anche come Canale dei Petroli, iniziasse a prendere forma. Tra il 1964 e il 1968, i lavori aprirono un canale di 15 km, largo 200 metri e profondo tra i 12,5 e i 17 metri lungo il quale le petroliere potevano raggiungere il porto petrolifero di San Leonardo, collegato alla raffineria con un oleodotto di 11 km. Gli scavi comportarono un’alterazione permanente dell’equilibrio idrostatico della laguna, con l’ingresso di enormi masse d’acqua salata. Non è un caso se il picco di marea più alto mai registrato (+194 cm) nella laguna di Venezia risalga proprio al 1966.
Da allora di acqua sotto i ponti – e nelle calli – ne è passata parecchia: guardando i grafici del Centro previsioni e segnalazioni marea di Venezia dell’incidenza di picchi di marea straordinaria nell’ultimo secolo si nota come dal 1900 al 2000 si siano registrati 10 casi di acqua alta superiore al +140 cm. Dal 2000 al 2019 i casi registrati sono 14, quattro dei quali nella sola scorsa settimana. Se dagli anni Sessanta in poi è visibile un consistente aumento dei casi registrati (tra i 10 episodi del ventesimo secolo, 7 si concentrano negli ultimi quarant’anni del Novecento), in meno di vent’anni la curva segnala un incremento vertiginoso. Coincidenze? Improbabile.
Nell’ultimo secolo il livello medio del mare è aumentato di 30 cm, colpa del surriscaldamento globale, mentre Venezia è sprofondata di 14 cm per fenomeni di subsidenza – ossia di lento e progressivo sprofondamento del fondo del bacino marino – in parte naturali e in parte antropici. I modelli climatologici basati sullo scenario Ipcc A1b (non il più catastrofico) prevedono che entrambi i fenomeni di eustatismo (la variazione del livello dei mari) e di subsidenza continueranno a crescere riducendo sempre più l’altitudine sul livello del mare di Venezia.
Una città che sembra destinata a scomparire, proprio come la mitica Atlantide, per aver peccato di una forma moderna di tracotanza. Un sentimento fatto di rivalsa, di senso – e politica – del dominio, di predazione di tutte le forme del vivente e del non vivente.
Venezia è stata nei secoli, al di là delle bellezze architettoniche, un luogo simbolo dell’adattamento dell’uomo all’ambiente: là dove l’ingegno umano è riuscito a mutare abitudini e forme dell’esistente per abitare un habitat inconsueto, ora rischia di sorgere uno dei più famosi templi dei tempi che furono. E vista l’apocalisse imminente, non è detto che nasca tra duemila anni un poeta, un filosofo, che ne canti la storia.
Di fronte a questo scenario, è legittimo pensare che la battaglia per Venezia sia una battaglia persa? La risposta è no, perché se Venezia è sintomo di come – nell’occidente cui siamo abituati – la crisi climatica si abbatterà su tutti noi, combattere per Venezia significa automaticamente combattere per la giustizia climatica globale. Di fatto, combattere per ciascun ettaro di foresta sradicato, per ciascun metro di montagna traforato, per ciascun lembo di terra trivellato, per ciascuna falda acquifera inquinata, per ciascun animale macellato, significa combattere per tutti gli ettari di foreste, per tutte le montagne, per tutte le terre, per tutte le falde e per ciascun animale. Il particolarismo delle battaglie locali non è un autistico atteggiamento «Nimby», ma è da ascrivere alla stessa identica matrice e si oppone alla globale tendenza del capitale a estrarre profitto dalla natura in tutte le sue forme.
«Il denaro avvilisce tutti gli dei dell’uomo e li trasforma in merce», e non esiste civiltà che non abbia annoverato nel proprio pantheon una declinazione di Madre Natura. La mercificazione, attraverso l’attribuzione di un valore commensurabile, ha posto quell’anthropos – sulla cui circoscrizione il dibattito è ancora aperto – gerarchicamente al di sopra di tutto il resto.
E tuttavia, all’interno dell’anthropos, sono da annoverare migliaia di comunità resistenti, organizzate, le cui battaglie non riguardano solo la permanenza dell’uomo nel proprio habitat, ma anche la sopravvivenza di tutte le forme viventi e non viventi che animano quell’ecosistema.
Forse per la poeticità del luogo, ma chi vive a Venezia instaura con l’ambiente un rapporto davvero di prossimità, riuscendo a leggere le sfide cui la città ci pone di fronte come affatto provinciali: non è un sentimento semplice da riferire. Nella sua storia, la città lagunare è stata crocevia di popoli, culture, tradizioni diverse, che talvolta si sono sedimentate altre hanno solo attraversato il labirinto di canali lasciando una traccia leggera. Forse è per via di questo cosmopolitismo, di questa stratificazione che anche un’isola di 54mila abitanti riesce costantemente a leggersi come parte di una cornice molto più ampia e cogliere nelle proprie contraddizioni quelle che reggono il resto del pianeta, con le dovute sfumature di intensità.
L’acqua alta straordinaria che ha invaso Venezia nella notte tra il 12 e il 13 novembre e che continua a sommergere la città da quindici giorni a questa parte parla un linguaggio storicamente sconosciuto a queste latitudini: la meteorologia ha dovuto coniare un neologismo per descrivere l’incidenza di fenomeni tipicamente tropicali nell’area mediterranea. Cogliere le differenze tra la leggendaria Acqua Granda del 1966 – quando una sommatoria di alta marea, fiumi gonfi per le piogge e vento di scirocco andò ad aggiungersi all’alterazione dell’equilibrio idrodinamico dovuto allo scavo del Canale del Petrolio – e quella del novembre 2019 significa necessariamente aggiornare il proprio linguaggio e prendere velocemente familiarità con un lessico che speravamo di non dover mai apprendere.
E invece la crisi climatica bussa anche qui, nella culla dorata della Serenissima, e a rispondere sono i comitati e Fridays For Future, e sono le centinaia di persone che per giorni si sono messe a disposizione per costruire un sistema di aiuto e mutuo soccorso dal basso.
«I giornali e i telegiornali l’indomani hanno aperto intitolando di una Venezia piegata, in ginocchio: Venezia quella notte era tutta in piedi, stivali alle cosce, ad aiutare chi era più in basso e più esposto». Nelle parole di Marta Canino, un’attivista storica di Venezia, una giovane madre, che ha aperto l’assemblea cittadina convocata dal Comitato No Grandi Navi e da Fridays for future Venezia, c’è davvero la descrizione dell’orizzonte che si deve aprire, che entra a gamba tesa cogliendo in pieno l’influenza differenziata con cui la crisi climatica colpisce la società in modo disomogeneo, guidata dalle quattro linee fondative del capitalismo: classe, razza, genere, natura. Chi abita ai piani bassi a Venezia non è sicuramente un soggetto subalterno, ma è l’elemento metaforico – poetico, ancora una volta – a costruire un immaginario potente.
Che centinaia di ragazzi e ragazze abbiano impiegato i giorni successivi alla marea, quando le scuole erano chiuse, ad aiutare nelle calli è un segnale importante. Che lo abbiano fatto organizzandosi, ci parla di una disposizione alla condivisione, alla collettivizzazione, alla cooperazione. Chi scrive ha assistito con passione allo svolgersi di quella micro-comunità, che con altrettanta rabbia ha reagito all’inadeguatezza delle istituzioni.
A Venezia l’acqua alta è preannunciata dal suono delle sirene di allertamento: quattro suoni in scala crescente avvisano di un livello di marea dai 140 cm in su. Ma non esiste nessun segnale che informi che la marea ha superato i 150 cm, i 160 cm o i 180 cm. Quella notte le quattro note dell’earcon continuavano a suonare disperate, sperando di allertare così sulle dimensioni dell’emergenza. Quella notte è stato chiaro che non esiste nemmeno un protocollo di attivazione per le emergenze. È stato evidente nei giorni immediatamente seguenti, quando protezione civile, Veritas e altri soggetti agivano senza un piano chiaro ed efficace. Resta evidente in questi giorni, in cui le continue alte maree sospendono il corso ordinario dei mezzi pubblici, in cui i mobili fradici continuano ad ammassarsi nelle calli, in cui gli scaffali bassi dei supermercati, delle librerie e delle farmacie rimangono ostinatamente vuoti, quanto impreparati siamo di fronte alla «straordinarietà» della crisi ambientale, che di straordinario ha sempre meno.
Venezia è diventata uno dei paradigmi di questa deriva, cui occorre far fronte senza appiattirsi su mere logiche di resilienza. Il rischio altrimenti è di vedersi spuntare le branchie.
*Anna Clara Basilicò è attivista di Fridays For Future – Venezia/Mestre e mediattivista per Globalproject.info. Attualmente è borsista di ricerca per il progetto Vitac, Università Ca’ Foscari di Venezia.
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