Dai territori al Global Climate Strike
Il Climate Camp di Venezia ha unito il movimento globale e i comitati territoriali. Un assemblaggio necessario per non farsi catturare dalle retoriche del capitalismo green e pretendere una trasformazione radicale del modo di produrre
I will not dance to your beat
If you call plantations forests
I will not sing with you
If you privatise my water
I will confront you with my fists
If climate change means death to me but business to you
I will expose your evil greed…
Sono versi di Nnimmo Bassey, recitati dall’autore stesso in chiusura del suo intervento al Venice Climate Camp, organizzato dal Comitato No Grandi Navi e da Fridays For Future Venezia, al Lido, dal 4 all’8 settembre scorso.
Bassey è un poeta e attivista nigeriano, uno che ha raccolto (fortunatamente non da solo) l’eredità di Ken Saro-Wiwa, anch’egli poeta, arrestato nel 1994 e infine giustiziato per essersi opposto alla devastazione perpetrata nel suo paese dalle compagnie petrolifere del nord del mondo.
Bassey, intervenuto mettendo in luce il nesso tra cambiamento climatico, migrazioni e neocolonialismo estrattivo, è un buon punto di partenza per provare a dire qualcosa del primo campeggio climatico italiano.
Si è trattato, innanzitutto, di un evento pienamente transnazionale, non solo per la presenza di relatori e relatrici provenienti dal Sud Globale, come ad esempio a Moira Millan (portavoce del popolo Mapuche in Patagonia e figura centrale nell’organizzazione delle donne indigene dell’America Latina), ma soprattutto per la composizione delle quasi mille persone che hanno animato il camp, le assemblee e le azioni. Di questo migliaio di giovani e giovanissime, quasi la metà è arrivata dall’estero, dalla Germania, dall’Olanda, dall’Inghilterra e così via.
Ciò a cui abbiamo assistito a Venezia, dunque, è la manifestazione di un movimento ecologista radicale ed europeo che ha avuto la forza di convocarsi anche in assenza di un grande evento da contestare, come ad esempio accade per le varie conferenze climatiche. È chiaro che la continuità della scala transnazionale dipenderà dall’efficacia del nostro lavoro politico e non può essere considerata un dato acquisito, ma è altrettanto chiaro che, sempre di più, chi sul clima si mobilita, è convinto e convinta di una cosa: la dimensione minima per intervenire con efficacia sul riscaldamento globale è quella europea. In epoca di sovranismi non è un fatto scontato, al contrario qualifica questo movimento non solo come avversario della macchina capitalista del surriscaldamento globale, ma anche delle sue opzioni politiche più reazionarie e nazionaliste.
A questo punto si impone una precisazione. C’è un’altra posizione che è emersa con chiarezza nelle assemblee, negli slogan e nei messaggi che abbiamo lanciato dal red carpet, occupato per oltre otto ore nell’ultima giornata della Mostra del Cinema: se, da una parte, è chiara l’urgenza di fermare i criminali negazionisti, Trump, Bolsonaro, Putin e i loro emuli in sedicesimo, dall’altra non c’è alcuna adesione alle ricette del capitalismo green. In questo senso Alexander Dunlap, intervenuto a Venezia, ha portato dati incontrovertibili sugli effetti devastanti dell’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili su scala industriale, un business che non ha esitato a etichettare come «Fossil Fuel +», ed è altrettanto chiaro che il sistema basato sulle compensazioni e sugli accordi non vincolanti ha provato l’inefficacia delle conferenze climatiche come argine al riscaldamento globale. Se, come affermano i report delle solitamente prudenti Nazioni Unite, abbiamo pochissimi anni per raggiungere lo zero netto di emissioni, allora è evidente, proprio per la catena di fallimenti finora accumulata, che le roboanti promesse dei riformisti, di quei rappresentanti del capitale finanziario che sposano la retorica della giustizia climatica, avranno un solo effetto: non quello di rovesciare la catastrofe in atto, quanto piuttosto l’apertura di una nuova fase di accumulazione originaria (fasi che, come mette in luce Silvia Federici, si ripetono) all’insegna della sostenibilità. Una tale prospettiva inoltre, al di là dell’inefficacia e dei costi ambientali che rimarrebbero elevati, continuerebbe a perpetuare le ingiustizie sociali su cui il capitalismo estrattivista ha costruito i propri profitti.
Sono ormai molti gli studiosi (penso a Razmig Keucheyan, Marco Armiero, Alice del Gobbo, Emanuele Leonardi, Salvo Torre e la lista potrebbe continuare a lungo) che hanno provato quanto i costi dell’ingiustizia climatica e ambientale non siano equamente distribuiti, cioè non colpiscano tutti e tutte alla stessa maniera, ma, al contrario, siano maggiori laddove il capitale ha già creato le peggiori condizioni di sfruttamento e subalternità. Ed è esattamente su questo versante che il capitalismo green non interviene, se non con rilevanti investimenti in marketing e greenwashing. Saranno comunque i più poveri, i neri o gli asiatici, le popolazioni indigene (in particolare le donne) e la natura non umana a pagare e a continuare a pagare caro il prezzo di una svolta climatica del capitale. Il già citato Dunlap, ad esempio, ha approfondito con una lunga ricerca sul campo l’impatto negativo dello sviluppo industriale dell’energia eolica in Messico, chiarendone i costi ecologici. In primis, la costruzione delle megaturbine necessita minerali rari la cui estrazione determina la devastazione di ampie aree della Cina e non solo. Secondo, la creazione di immensi campi eolici implica deforestazione (con conseguente distruzione dell’habitat di diverse specie animali). Infine, non meno gravi, vi sono i costi sociali, il caso studio illustra infatti come la localizzazione geografica privilegiata di questi impianti sia su terre densamente abitate da popolazioni indigene.
Diversamente dal capitalismo verde, il movimento visto all’opera al Venice Climate Camp è consapevole che una riconversione ecologica efficace dovrà essere guidata da una logica radicalmente contraria alle ricette neoliberiste e dovrà avvenire all’insegna della giustizia sociale. Le soggettività subalterne e la «natura non umana», soprattutto nel Sud Globale, hanno già pagato a sufficienza gli effetti nefasti dell’estrattivismo. Dobbiamo quindi essere in grado di rovesciare la crisi climatica sulle spalle di coloro i quali impersonano i più insopportabili privilegi del Capitalocene, siano essi di classe, di genere, di razza o di specie. È chiaro: anche noi, anche io che scrivo questa invettiva, in quanto maschio-bianco-occidentale sono portatore di un certo grado di privilegio ed è evidente che non sono esente dalle necessità di modificare una serie di abitudini personali e di ridurre alcune risorse materiali a mia disposizione. Ma il riconoscimento del privilegio di cui si è portatori non deve essere frainteso con la limitazione della battaglia sulla giustizia climatica alla sola questione dello stile di vita che è esattamente ciò che il neoliberismo si augura.
Il succitato termine Capitalocene, coniato da J. W. Moore per sostituire il generico Antropocene, ci indica proprio l’urgenza di una lotta sistemica. Se consideriamo la faccenda da una prospettiva storica, è stato lo sviluppo di un determinato sistema economico e sociale, il capitalismo, a causare un’inedita accelerazione del riscaldamento globale, trasformando per la prima volta una determinata specie, quella umana, in un vero e proprio fattore geologico. Certo, nessuno è così ingenuo da pensare che il socialismo reale sia stato un fenomeno storico così differente dal capitalismo su questo versante; d’altro canto oggi dobbiamo dirci che non c’è riconversione ecologica possibile in assenza di una prospettiva anticapitalista, poiché il surriscaldamento globale è il macro-effetto di feroci ingiustizie sociali: dal colonialismo allo sfruttamento dei lavoratori, dal non riconoscimento del lavoro riproduttivo delle donne alla svalutazione delle risorse naturali del nostro pianeta e al loro dissennato utilizzo.
Se, dunque, la matrice politica del movimento visto all’opera al Lido di Venezia è chiara, vale la pena spendere due parole sui modi della sua espressione, in questo senso, il Venice Climate Camp è stato un prezioso terreno di sperimentazione politica.
Semplificando brutalmente potremmo affermare che questo movimento tende a far coincidere il momento organizzativo con quello dell’azione diretta. Si tratta di una tensione e non, ovviamente, di una sovrapposizione totale. Inoltre non bisogna fraintendere, non si tratta di spontaneismo ingenuo, né di cancellare l’organizzazione, ma di intenderla in una modalità che è certamente inedita per i movimenti italiani, forse un po’ meno per chi ha attraversato il 15M in Spagna, per chi ha preso parte a Occupy Wall street o alle Primavere Arabe. Il movimento climatico radicale è un movimento segnato dalla molecolarità: le organizzazioni sono certamente presenti e gli è riconosciuto un ruolo, ma non sono in grado di operare una direzione «in remoto». Al camp, sebbene chiaramente venisse riconosciuto un primato al Comitato No Navi e Fridays For Future Venezia in quanto migliori conoscitori delle condizioni ambientali entro cui le azioni si sarebbero svolte, non vi sono state assemblee predeterminate e il momento del confronto decisionale ha abbracciato il momento stesso della manifestazione o dell’azione. In generale ciò è consentito anche dalla forma privilegiata di iniziativa che questo movimento ha adottato: quella del blocco. Blocchi che si protraggono per ore, quando non per giorni interi, magari senza soluzione di continuità (vedi in proposito Ende Gelande). Sottolineo questo aspetto della dilatazione assembleare non perché voglia fare della metodologia, né per un’adesione di principio all’orizzontalità ad ogni costo che, personalmente, ritengo tanto ideologica quanto la mitologia della gerarchia di partito. Invece, la moltiplicazione dei momenti di confronto è fondamentale perché rende possibile la decisione comune di diverse zone di intensità dell’azione, permettendo a (quasi) tutte e tutti di trovare il proprio spazio, di partecipare secondo le modalità concordate e di rompere, in tal modo, il maledetto gioco al massacro del dibattito aprioristico su violenza e non violenza. Dibattito che farebbe invece molto comodo a quelle forze che, parlo per la situazione italiana, vorrebbero ricondurre le mobilitazioni climatiche a più miti consigli, ovvero dentro l’alveo delle retoriche del capitalismo verde.
Ma torniamo alla questione delle forme della mobilitazione. Non c’è quindi da stupirsi che l’occupazione del red carpet, una sovversione della macchina «biennalesca» di narrazione mondano-cinematografica, sia durata circa 8 ore. Il blocco prolungato è uno strumento attraverso cui il movimento sta incominciando a riconoscersi al di là dei confini nazionali, uno strumento che incarna la determinazione di una generazione che non si accontenta di momenti di testimonianza come intervalli nella routine di vita. Si blocca e si rimane, perché ciò che conta non è tanto l’espressione di un dissenso, quanto la fine del capitalismo carbon-siliceo.
Che ruolo gioca l’Italia in questo nuovo scenario transnazionale? Non dobbiamo dimenticarci che, pur avendo moltissimo da imparare da chi si sta mobilitando sul clima a partire da marzo scorso, possiamo portare in dote qualcosa di importante, ovvero l’esperienza pluridecennale di lotte territoriali contro le grandi opere, a partire da quella contro il Tav, vertenza che rimane centrale per le sorti di tanti altri territori. Se, da una parte, il movimento globale ci spinge ad alzare lo sguardo, a volte troppo focalizzato sulla dimensione locale, dall’altra i comitati sono quei soggetti in grado di indicare, qui ed ora, i responsabili della devastazione ambientale. E sono nella posizione giusta per essere presi sul serio perché hanno, da oltre un anno, intrapreso un percorso che trova le proprie premesse nel riconoscimento della giustizia climatica come comune denominatore di tutte le lotte locali. Questo percorso ha avuto, come prima importante conferma, la manifestazione romana dello scorso 23 marzo, partecipata da oltre centomila persone.
È chiaro che vi sono alcune lotte che si battono contro grandi opere che sarebbero direttamente responsabili di un innalzamento del livello di emissioni, penso ai No Tap e ai No Triv, ma è altrettanto vero che tutto il sistema di sviluppo basato sulle grandi opere drena una quantità immensa di fondi, risorse che dovrebbero essere invece investite nella messa in sicurezza dei nostri territori, già colpiti dalla crisi climatica e, in alcuni casi, da fenomeni meteorologici estremi.
Ciò che abbiamo visto all’opera a Venezia è dunque un corto circuito positivo, un esempio di assemblaggio tra il coraggio politico implicito nell’accettazione della sfida sulla giustizia climatica e il radicamento dei comitati, la loro capacità di far ricadere tutto sulla materialità dei territori, di indicare i nessi politico-economici che sottostanno alla crisi climatica. Pochi giorni dopo il Climate Camp, migliaia di attivisti hanno bloccato il salone dell’auto di Francoforte, tra gli striscioni per la giustizia climatica sventolava una bandiera del Comitato No Grandi Navi.
La possibilità che questo assemblaggio cresca in potenza è ciò che temono gli sviluppisti più forsennati, ma anche coloro i quali vorrebbero un movimento climatico a misura di Ong, una generazione di bravi ragazzi catturata dalle retoriche del capitalismo green, un movimento di segreterie all’insegna di un educato dialogo istituzionale. E le istituzioni sono ben pronte a riconoscere i meriti di queste ragazze e ragazzi: prime pagine, telegiornali, onoreficenze… A quando il Nobel? Bene così, questa popolarità è segno di potenza del movimento e di nervosismo neoliberista; in più, quanto visto a Venezia (ma anche in Germania, in Olanda, in Francia ed in altri paesi) ci fa ben sperare. Qui ci sono espressioni di un movimento intelligente e al tempo stesso politicamente chiaro nella sua matrice anticapitalista (una delle definizioni più gettonate negli slogan, da Hambach fino a Venezia). Al tempo stesso non possiamo essere ingenui, le organizzazioni più moderate si stanno organizzando, anche in Italia, per tentate di egemonizzare questo nascente movimento di massa. Ci attende dunque uno scontro politico che non è solo esterno al movimento, ma anche interno.
Non saranno piccoli o grandi aggiustamenti del sistema presente a garantirci la necessaria transizione ecologica, serve una trasformazione radicale e urgente: blocco delle produzioni climalteranti (stop al fossile, all’agricoltura e all’allevamento di massa), messa in campo di strumenti di welfare che vadano nella direzione della costituzione di un reddito climatico universale, organizzazione dell’accoglienza dei profughi climatici e il ripristino di condizioni dignitose di vita nei paesi d’origine, fine dei privilegi di genere e specie, ideazione di un sistema energetico decentrato e a base di fonti rinnovabili, diffusione di un nuovo modello di mobilità pulita e così via.
Una piattaforma ambiziosa che, ad oggi, solo i movimenti hanno la forza di fare propria.
*Marco Baravalle è attivista del Comitato No Grandi Navi di Venezia e membro del collettivo S.a.L.E. Docks (www.saledocks.org). Attualmente è assegnista di ricerca per il progetto INCOMMON, Università Iuav di Venezia.
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