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Le belle promesse di Macron

Aurélie Dianara 1 Aprile 2020

Anche il presidente francese promette di cambiare politica, illuminato dalla pandemia. Ma il contagio è simbolo dei suoi fallimenti (e di quelli dell'Europa a cui dice di rifarsi)

Qualche giorno fa Emmanuel Macron ha rilasciato a diversi quotidiani italiani un’intervista nella quale si vantava di aver tratto lezione dall’esperienza italiana per rispondere all’epidemia, e dichiarava la Francia «al fianco dell’Italia» per superare la crisi sanitaria ed economica, appellandosi a un’Europa unita e solidale per combattere il virus e la nuova crisi. 

Purtroppo, la realtà d’Oltralpe dimostra invece una catastrofica gestione dell’emergenza sanitaria da parte del governo e la volontà di mettere i profitti e l’economia davanti alla salute e la tutela della popolazione. Difficile in queste condizioni credere nelle belle promesse di solidarietà europea del presidente francese.

Una preparazione catastrofica

La Francia, confinata da ormai quasi due settimane, si sta confermando uno dei paesi più toccati dalla pandemia del Coronavirus in Europa, dopo l’Italia e la Spagna. I casi confermati sono ufficialmente più di 45mila, più di 20mila le persone ospedalizzate di cui oltre 5mila in terapia intensiva. Il governo calcola le vittime in circa 3.000, un numero però sottostimato perché non comprende le persone decedute negli ospizi o a domicilio.

Eppure, fino a pochi giorni prima del lockdown deciso il 16 marzo, il governo francese ha continuato ad assicurare che l’epidemia non avrebbe colpito la Francia e a minimizzare i rischi per la popolazione del paese. A fine gennaio, l’allora ministra della salute Agnès Buzyn dichiarava che il virus sarebbe rimasto a Wuhan, prima di dimettersi dal suo incarico ministeriale per potersi presentare come candidata alle elezioni municipali di Parigi. L’11 marzo, Macron ha invitato i francesi in un tweet melodrammatico a non rinunciare a niente, «certamente non a ridere, a cantare, a pensare, ad amare, certamente non ai terrazzi dei caffè, alle sale di concerti, alle feste di sera l’estate, certamente non alla libertà». 

Per settimane, a febbraio e marzo, i media mainstream hanno ripetuto che non serviva a niente portare mascherine o guanti. Il governo ha voluto a tutti i costi mantenere le elezioni municipali, il cui primo turno si è svolto il 15 marzo in tutta la Francia, quando scuole e università erano già chiuse e ormai la situazione era evidente a tutti. Pur di consentire lo svolgimento del primo turno elettorale, il governo ha dovuto rifornire ogni seggio di gel igienizzante, che non era sufficiente nemmeno per il personale sanitario. lnoltre il numero di contagiati tra i candidati e militanti che hanno preso parte alla campagna elettorale sta esplodendo, a dimostrazione dell’irresponsabilità della decisione.

Qualche giorno dopo il primo turno, il 17 marzo, la stessa Buzyn ha rilasciato un’intervista in lacrime al prestigioso quotidiano Le Monde in cui ha espresso i suoi rimorsi, dichiarando di aver allertato il governo già a metà gennaio sul rischio che l’epidemia colpisse anche la Francia, e ammettendo che avrebbero dovuto fermare tutto. Un colpo di scena mediatico che non è stato accolto troppo bene dalla popolazione francese: a oggi ci sono almeno sei denunce alla Corte di giustizia contro il primo ministro, l’ex-ministra della salute e altri membri del governo francese per la loro mancanza di reazione di fronte alla crisi. Saranno anche aperte indagini parlamentari.

Tra queste denunce, una proviene da un collettivo di seicento medici che accusano i ministri di «negligenza colpevole» e «menzogna di Stato». Da anni, medici e operatori sanitari allertano il governo e la società francese sulla situazione molto critica in cui si trova il settore della sanità pubblica del paese. Mobilitazioni e scioperi si sono moltiplicati da quando Macron è arrivato al potere per chiedere urgenti investimenti e assunzioni. L’anno scorso, per esempio, un movimento inedito ha toccato centinaia di servizi di pronto soccorso. Ciononostante, la tendenza non è cambiata e le risposte del governo sono state del tutto insufficienti. Anche se la Francia è messa meglio dell’Italia sotto questo aspetto, tra il 2003 e il 2016 la capacità di ospedalizzazione a tempo pieno è calata del 13% (64 mila letti); da decenni i salari sono stati congelati, è calata l’assunzione di personale sanitario mentre l’attività è aumentata, e la sanità pubblica è stata sottomessa a politiche di austerità di bilancio e imperativi aziendali di efficienza e redditività. Oggi il personale è esausto e gli impianti ospedalieri rischiano la crisi di fronte all’epidemia, specialmente nelle zone più povere. Gli ospedali del Nord e dell’Est di Parigi, i quartieri più popolari della capitale, sono già saturi. 

Non è dunque un caso che tre quarti dei francesi, secondo un recente sondaggio, pensi che il governo non dica la verità e non stia prendendo le giuste decisioni e facendo il necessario per attrezzare gli ospedali e il personale sanitario per far fronte all’epidemia.

Combattere il male con il male

A sentire il discorso di Macron il 12 marzo, sembra che il presidente abbia avuto una rivelazione divina, incontrato un profeta di nome Marx, e deciso di cambiare rotta. Ha promesso infatti di trarre le dovute lezioni da questa dura situazione, di ripensare il modello di sviluppo degli ultimi decenni e di cambiare radicalmente linea politica: «Ciò che questa pandemia rivela è che ci sono beni e servizi che devono essere collocati al di fuori delle leggi del mercato». Addirittura, ha dichiarato che lo stato sociale non è un costo per la società ma un «bene prezioso».

Purtroppo, per ora ai discorsi non sono seguiti i fatti. Con la manovra di aggiustamento di bilancio, la legge di «emergenza sanitaria» voluta dalla maggioranza, e le prime ordinanze adottate dal governo la scorsa settimana, l’intento sembra quello di voler salvare le imprese e i profitti piuttosto che orientare tutti gli sforzi alla lotta contro l’epidemia e la tutela della popolazione. Il governo ha infatti sbloccato 300 miliardi per garantire i prestiti delle banche alle imprese e annunciato 45 miliardi di sgravi fiscali e sociali sempre per le aziende; la ministra del Lavoro Muriel Pénicaud ha «sfidato» le imprese che avrebbero voluto fermare le proprie attività a rimanere aperte; la maggioranza ha fatto marcia indietro sul divieto di licenziamento durante la crisi; abbiamo scoperto che il congelamento degli affitti e delle bollette riguarderà solo le imprese, non le persone e le famiglie.

Ma soprattutto la legge di emergenza sanitaria apre la strada a nuovi attacchi ai diritti dei lavoratori, in particolare per quanto riguarda le 35 ore, le ferie pagate e le negoziazioni collettive. Le ordinanze del governo permettono alle imprese di aumentare la durata del lavoro fino a 12 ore al giorno e 60 a settimana, di far lavorare i salariati 7 giorni alla settimana, di limitare il tempo di riposo, di allargare il lavoro di domenica e di dare maggior potere ai capi d’impresa per imporre le ferie forzate. Queste misure riguardano tutti i settori «necessari alla sicurezza della nazione e alla continuità della vita economica e sociale». Anche se queste misure teoricamente dovrebbero essere «temporanee», non c’è da fidarsi: basta ricordare come molte delle misure liberticide introdotte in seguito allo stato d’emergenza legato agli attacchi terroristi del 2015 siano poi rimaste nel diritto ordinario.

Sembra quasi che il governo abbia intenzione di curare il male con il male. Non sono stati i diritti dei lavoratori ha permettere la diffusione del virus ma la distruzione dei servizi pubblici e del sistema sanitario. Non sono le35 ore di lavoro settimanale ad aver creato la mancanza di mascherine, gel igenizzante e respiratori – mentre le armi da esportare verso l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Turchia o le «flashball» per reprimere movimenti sociali e i quartieri popolari si trovano in abbondanza – ma la mondializzazione neoliberista. Sono le norme manageriali e l’austerità di bilancio imposte tanto al mondo della ricerca e dell’educazione, quanto al settore sanitario, che ci rendono oggi impreparati di fronte alla pandemia. Eppure, giusto qualche giorno fa, il governo ha annunciato che aumenterà il budget della ricerca di soli 5 miliardi nei prossimi 10 anni, invece dei 10 miliardi in 7 anni come promesso a gennaio.

Agli attacchi alle norme sociali si aggiungono quelli alle libertà civili. Nel contesto attuale l’uso di droni nelle città per sorvegliare il rispetto del confinamento, il dispiegamento dell’esercito nelle strade, il rischio che siano usati a fini di sicurezza interna i dati dei dispositivi telefonici privati, il numero altissimo di controlli e multe nei «ghetti» di periferia (come avvenuto in Seine-saint-Denis), le sanzioni ai senzatetto, lo smantellamento dei campi di persone migranti e l’uso della violenza da parte della polizia francese (denunciata qualche giorno fa da Human Rights Watch) lasciano immaginare il peggio.

Di fronte all’utilizzo martellante di un linguaggio bellico da parte dell’esecutivo, e alle esortazioni all’unione sacra della nazione, i sindacati (a eccezione della Cgt e di Solidaires) sembrano meno disposti del solito a lottare per i diritti dei lavoratori, mentre l’opposizione di sinistra non possiede un margine di manovra sufficiente per proporre alternative. Anche se molti lavoratori stanno ricorrendo al loro «diritto a ritirarsi» (previsto dalla legislazione francese in caso di pericolo sul lavoro) e ci sono mobilitazioni dal basso in alcuni settori, per ora solo la federazione Servizi Pubblici della Cgt ha indetto uno sciopero per il mese di aprile. È vero che, su richiesta della Cfdt e di altri sindacati cosiddetti «riformisti», il governo ha «invitato» – non obbligato – le imprese a non distribuire più dividendi agli azionisti, in segno di «solidarietà» di fronte alla crisi del Coronavirus. Verosimilmente, però, l’invito sarà raccolto quasi esclusivamente dalle imprese in cui lo Stato è il principale azionista. Il che, in assenza di nazionalizzazioni delle imprese strategiche, porterà solo a un ulteriore deficit per il bilancio dello Stato. 

Il Re (europeo) è nudo

Difficile in queste condizioni pensare che il governo francese sia un alleato nella definizione di una risposta europea adeguata alla crisi sanitaria e socioeconomica che stiamo affrontando. 

Servirebbe sicuramente un’Europa «unita e solidale» non un’Europa di nazionalismi e egoismi, ma al momento mascherine e personale medico in Italia sono arrivate solo dalla Cina, da Cuba e dall’Albania. Nelle ultime settimane abbiamo assistito, ancora una volta, al dissolversi della solidarietà tra i paesi europei e all’incapacità dell’Unione europea di dare una risposta unitaria ed efficace a questa crisi. 

Finalmente la Commissione europea di Ursula von der Leyen ha deciso di sospendere – non sopprimere – il Patto di stabilità e di crescita che limita al 3% del Pil il deficit di bilancio e al 60% del Pil l’ammontare complessivo debito pubblico. Ma è la stessa Ue che tra il 2011 e il 2018 ha chiesto 63 volte agli Stati membri di ridurre le spese e/o procedere a privatizzazioni nel settore della sanità. Se oggi mancano i letti negli ospedali, i respiratori, le mascherine, i tamponi e il personale sanitario per far fronte al Coronavirus, è a causa delle politiche di austerità e «libera concorrenza» volute dall’Ue e dai suoi Stati membri. Viste le politiche economiche e (anti)sociali applicate in questi giorni in Francia, così come in Italia del resto,  il rischio è che la sospensione del Patto di stabilità serva più a salvare le imprese e le banche che non a risollevare la sanità pubblica per salvare delle vite. A maggior ragione se i paesi che beneficeranno della «solidarietà» europea dovranno stare alle regole di austerità che accompagnano solitamente i prestiti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes).

Nella sua intervista alla stampa italiana Macron si è fatto paladino dell’«Europa della solidarietà, della sovranità e dell’avvenire», promuovendo l’idea dei «Coronabond» – un meccanismo di indebitamento comune – oppure di un aumento del bilancio europeo per permettere un sostegno reale ai paesi più colpiti da questa crisi. L’idea di una mutualizzazione del debito è sostenuta dai dirigenti di nove paesi europei, tra cui Macron e Conte, che hanno inviato mercoledì scorso una lettera al Presidente del Consiglio Charles Michel per avanzare la loro proposta. Il Consiglio europeo ha mostrato negli ultimi giorni profonde divisioni tra i paesi: la Germania, l’Olanda e altri paesi «virtuosi» del Nord si oppongono categoricamente alle proposte del «Club Med», e il dibattito è stato rimandato. I precedenti della crisi del debito europeo post-2008 di cui la Grecia e gli altri paesi «indisciplinati» dell’Eurozona stanno ancora pagando il prezzo, non permette di essere molto ottimisti.

Se anche i propositi di Conte e Macron si avverassero, non basterebbero neanche lontanamente a rispondere alle attuali necessità. La crisi del Coronavirus ha mostrato brutalmente come la salute non possa essere una merce ma un diritto fondamentale e universale. Deve quindi essere messa, come tanti altri servizi e industrie strategiche o essenziali, al di fuori delle leggi del mercato. Ma per poterlo fare va rimesso radicalmente in discussione l’intero quadro in cui sono inserite queste risorse. Nell’attuale Unione europea, caratterizzata dalla liberalizzazione sfrenata dei capitali e delle merci, dall’«ortodossia» del pareggio di bilancio, dalla feroce messa in concorrenza dei lavoratori, dalla competizione fiscale e sociale tra gli Stati membri, dalle privatizzazioni e da un modello aziendale tutto incentrato sul potere degli azionisti – non sarà possibile implementare le politiche di cui abbiamo bisogno.

Solo una mobilitazione di massa, in cui tutte e tutti saremo chiamati a fare la nostra parte, potrebbe scuotere questa situazione.

*Aurélie Dianara è una ricercatrice associata di storia economica internazionale presso l’Università di Glasgow, attivista femminista e membro in Italia del coordinamento nazionale di Potere al Popolo

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