L’Ecuador neoliberista nella morsa del virus
La pandemia ha costretto il regime di Moreno ad affrontare i suoi più grandi fallimenti dopo quasi tre anni di politiche neoliberali assistite dai programmi del Fmi, e il paese si trova a essere il più colpito dell'America latina
Cadaveri ammassati lungo le strade, trasportati su pick-up dentro improvvisate bare di cartone e poi scaricati in fosse comuni. Sono queste le immagini che arrivano dalla città costiera di Guayaquil, capitale economica e centro più popoloso dell’Ecuador. Scene che superano in crudezza le sepolture di massa di New York e i cortei di camion militari di Bergamo, svelando al mondo quanto duramente la pandemia abbia colpito la piccola nazione latina.
Il paese registra più di trentamila casi di Coronavirus. Peggio di lui nel continente solo Perù e Brasile, che hanno però una popolazione rispettivamente doppia e più che decupla. «L’Ecuador si sta rivelando uno dei peggiori focolai del pianeta» dice il New York Times. Secondo il quotidiano statunitense il reale numero delle vittime potrebbe essere anche quindici volte superiore rispetto a quanto dichiarato dalle autorità locali.
«In Ecuador come altrove la velocità del virus ci ha colto di sorpresa. Il nostro sistema sanitario è crollato sotto il peso della pandemia, soprattutto per quanto riguarda i pronto soccorso e gli obitori» ci dice la dottoressa Laura Huerta, medico generale di Guayaquil, la città del paese colpita più duramente. «I nostri ospedali sono disorganizzati, privi di attrezzature sufficienti, e questo ha portato alla situazione che vedete. Anche i cadaveri lasciati nelle strade sono il risultato della mancanza di dispositivi di protezione adeguate per gli operatori».
Sulle stesse problematiche evidenziate dalla dottoressa insiste anche Manuel Macìas Balda, sociologo dell’Universidad de Guayaquil che nella città epicentro del contagio vive e insegna. «Conosco medici che lavorano qua in zona» ci spiega «e mi dicono che andare a lavoro è diventato un suicidio. Non hanno mascherine, guanti, tute, e molti di loro si sono ammalati». Anche sull’accuratezza dei dati relativi alla diffusione del virus Macìas non ha dubbi: «Sono troppo bassi. Semplicemente si è iniziato da pochissimo a fare i tamponi».
Da settimane l’Ecuador è ufficialmente in lockdown. Scuole e negozi sono chiusi, così come molte delle fabbriche presenti nel paese, e non è permesso uscire di casa se non per motivi di lavoro o necessità. Ma le restrizioni sono difficili da rispettare in una nazione dove moltissimi vivono di lavori saltuari e irregolari, finendo oggi col dover scegliere tra il virus e la fame. «Per molti stare a casa è semplicemente impossibile», ci conferma la dottoressa.
Il neoliberismo alla prova del virus
Non è ancora chiaro perché il Covid-19 stia colpendo tanto duramente proprio l’Ecuador, un paese teoricamente protetto da una popolazione giovane (ventisei anni l’età media) e dalla grande percentuale di abitanti residenti in zone rurali. Per molti la causa va ricercata nelle politiche di austerity del presidente Lenìn Moreno, che hanno indebolito la sanità pubblica proprio alla vigilia della peggiore pandemia degli ultimi cento anni.
Discendente di una famiglia socialista (il nome lo scelse il padre in onore del celebre rivoluzionario russo), Moreno è una figura complessa, e per comprenderla appieno è necessario riepilogare alcuni passaggi chiave delle recenti vicissitudini politiche ecuadoriane.
L’Ecuador è stato guidato per dieci anni – dal 2007 al 2017 – da Rafael Correa, nome di riferimento del socialismo del XXI secolo nel paese. Durante il suo mandato le poderose politiche di welfare varate dal governo hanno permesso di ridurre la povertà di oltre quindici punti percentuali, mentre l’indice di Gini – il più utilizzato indicatore della disuguaglianza economica di un paese – è passato da 0,55 a 0,47. Sotto la guida di Correa il debito pubblico è stato parzialmente ripudiato, e l’ambasciata ecuadoriana a Londra ha dato rifugio al whisteblower Julian Assange, scatenando l’ira di Whasington. Senza indugiare in idealizzazioni dannose (non son mancate contraddizioni nella rivoluzione ciudadana di Correa) è evidente come il decennio 07-17 sia stato segnato da un importante spostamento a sinistra della politica del paese.
La svolta è arrivata tre anni fa, quando Lenìn Moreno è diventato il nuovo presidente. Compagno di partito di Correa e già suo vice in una precedente legislatura, Moreno era considerato il successore naturale alla guida di Alleanza Pais (Alleanza per la Patria Fiera e Sovrana, l’organizzazione politica di Correa) e dell’Ecuador stesso. Ma la sua elezione si è tradotta in una brusca svolta a destra. Moreno ha inaugurato una stagione di tagli e austerità, imponendo un tetto annuale del tre per cento all’aumento della spesa pubblica e privatizzando settori fino ad allora gestiti dallo Stato. Nel 2019 Julian Assange venne consegnato alle autorità inglesi, mentre il governo ecuadoriano annunciò l’apertura di una nuova linea di credito di Fondo monetario internazionale e Banca mondiale, concessa in cambio di una drastica riduzione della spesa pubblica. Alcune delle misure più impopolari – in particolare l’eliminazione dei sussidi sul carburante – vennero poi ritirate dopo violente proteste, ma la linea neoliberale del governo apparve già allora ormai incontrovertibile. Molti degli esponenti di spicco della stagione precedente sono stati accusati di corruzione e arrestati, mentre lo stesso Correa è fuggito in Belgio per evitare il carcere. Accuse false, sostiene l’ex presidente, sostenuto in questo da un report della Corte interamericana dei diritti umani e dalla scelta dell’Interpol di non emettere alcun mandato di cattura come invece chiedono i giudici ecuadoriani.
«Il governo Moreno ha sicuramente indebolito la sanità pubblica» – commenta Macìas. «L’esecutivo non era preparato a questa pandemia. Non ha investito nella sanità e, anzi, ha tagliato ovunque potesse pur di ottenere nuovi prestiti dal Fondo monetario internazionale. Moreno quando si è insediato ha licenziato moltissimi medici, e ora sta disperatamente cercando di riassumerli».
Che le politiche neoliberiste di Moreno abbiano indebolito l’Ecuador proprio quando avrebbe avuto bisogno di tutta la sua forza è anche la tesi di Samuele Mazzolini, ricercatore e già consulente del governo Correa. «La crisi provocata dal Covid-19 ha fornito la prova definitiva circa il disastroso corso intrapreso da Moreno – ci dice – Le drammatiche scene di Guayaquil sono la conferma che quanto di buono era stato fatto è stato ben presto smantellato».
Dall’inizio della crisi il governo rimanda al mittente questo genere di critiche, sostenendo che le responsabilità siano da cercare nelle precedenti amministrazioni. Moreno punta il dito contro Correa, accusato di aver lasciato le casse dello Stato vuote e quindi incapaci di rispondere adeguatamente all’emergere del Coronavirus. Io penso che questo sia solo in parte vero – dice Macìas – molti soldi sono stati risucchiati da corruzione e sprechi come sostiene il governo, ma molti altri sono stati realmente usati per finanziare il welfare state, sanità compresa».
L’opposizione alle politiche economiche di stampo neoliberista di Moreno non nasce con il Coronavirus, ma la crisi sanitaria che il paese sta vivendo aggiunge un tassello ai ragionamenti delle sinistre: può un sistema basato sul massimo risparmio e la privatizzazione selvaggia difenderci adeguatamente dai pericoli che uno Stato e il mondo intero si trovano periodicamente ad affrontare?
Come ha scritto Denis Rogatyuc su Jacobin Magazine: «[la pandemia] ha costretto il regime ad affrontare i suoi più grandi fallimenti, le sue inadeguatezze e l’eredità di quasi tre anni di politiche neoliberali assistite dai programmi del Fmi».
Un futuro ancora incerto
Nonostante la situazione resti gravissima, l’Ecuador si prepara a riaprire alcune delle attività produttive inizialmente chiuse. Una decisione, ci dice Macìas, «sicuramente dettata dalle pressioni di gruppi industriali spaventati dalle conseguenze economiche della quarantena».
Intanto, il paese si avvia a grandi passi verso le elezioni presidenziali previste per il prossimo anno. Moreno – in crisi di consensi – sembra aver rinunciato a un ruolo di primo piano, lasciando sempre più spazio al suo vice Otto Sonnenholzer, per molti già il candidato in pectore. «Non c’è fiducia nel governo, il tasso di approvazione del primo ministro è sceso sotto il 10% – ci conferma Macìas – e le visite di Sonnenholzer negli ospedali sono per molti più simili a una campagna elettorale anticipata che a missioni istituzionali».
A sinistra è ancora Correa la figura più popolare, ma la sua candidatura è tutt’altro che scontata. I rapporti tra la rivoluzione ciudadana e il movimento indigeno si sono sempre più incrinati nel corso del tempo, e molti dei popoli nativi non gli hanno mai perdonato il proseguimento delle attività estrattive sui loro territori. È il lato oscuro di tutti i progetti politici di stampo socialista del continente: welfare e occupazione sono finanziati (anche) con l’esportazione di materie prime. Le grandi sollevazioni popolari dell’ottobre scorso – capaci di unire in piazza popolazione urbana e indigeni – hanno indebolito profondamente la leadership di Moreno, ma non è scontato che si traducano in voti per il suo rivale. Resta poi il problema della condanna, che potrebbe impedire a Correa di presentare la sua candidatura.
«L’esito delle elezioni del prossimo anno è particolarmente incerto, specie alla luce della scarsa chiarezza sulle eventuali alleanze che si potranno tessere o meno, tanto a destra quanto a sinistra – commenta Mazzolini – Correa, vittima di una persecuzione giudiziaria insieme a molti dei volti che lo avevano accompagnato durante il decennio al potere, non potrà candidarsi. Il suo peso politico è stimabile intorno al venti/trenta per cento, ma è da vedere se riuscirà a travasare questo capitale sul candidato da lui designato. Le possibilità che le forze di sinistra facciano quadrato sono in salita: le relazioni con il movimento indigeno – grande protagonista delle mobilitazioni di ottobre – e con molti dei settori urbani scesi in piazza scontano le diatribe del passato, di quando Correa era presidente. Ci vorrà da entrambe le parti gran duttilità e capacità di cedere qualcosa per poter rimettere in piedi un fronte abbastanza vasto da essere elettoralmente competitivo».
*Lorenzo Tecleme è studente di Scienze della Comunicazione presso l’Università di Bologna e attivista di Fridays For Future. Scrive di politica, ambiente ed attualità su diverse testate online.
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