Lo sciopero universitario in Gran Bretagna visto da un’altra epoca
Tra febbraio e marzo per 14 giorni i lavoratori delle università inglesi hanno incrociato le braccia contro precarietà e riforma delle pensioni. L'epidemia ha bloccato le trattative con il governo. Ora occorre agire in un contesto mutato
Per la terza volta in tre anni, i lavoratori e le lavoratrici delle università britanniche sono in mobilitazione. Professori e professoresse, bibliotecarie e bibliotecari, assistenti alla ricerca di ogni ordine e grado, studenti e studentesse di dottorato impegnati nell’insegnamento stanno incrociando le braccia nello sciopero più lungo della storia del settore. Quattordici giorni lavorativi spalmati su quattro settimane, con settantaquattro università coinvolte (dodici in più rispetto alla prima ondata di scioperi di fine 2019), migliaia di ore di lavoro perso e centinaia di migliaia di studenti e studentesse coinvolti.
Lo sciopero è stato il secondo atto della serrata di novembre/dicembre 2019. Allora, gli scioperi vennero chiamati su due vertenze distinte: primo, la perversa e inutile riforma del sistema pensionistico; secondo, le «quattro battaglie» sulle condizioni lavorative (aumento salariale, gender pay gap, riduzione dei carichi di lavoro – totalmente fuori controllo – e contrasto alla precarizzazione di insegnamento e ricerca). Su questa rivista, Arianna Tassinari ha spiegato la lunga genesi e la portata dirompente dell’azione sindacale iniziata a fine 2019. Un’azione originata dall’onda lunga di uno sciopero chiamato nel 2018 contro la riforma del sistema pensionistico; si è nutrita di un cambio generazionale ai vertici dell’University and College Union (Ucu, il sindacato che rappresenta i lavoratori e le lavoratrici dell’università britannica) e di una crescita esponenziale della membership del sindacato; ed è esplosa ora in qualcosa di molto più ampio – un assalto su larga scala alle dinamiche di aziendalizzazione che hanno radicalmente mutato il volto dell’accademia britannica negli ultimi dieci anni.
Si è arrivati a questa seconda ondata di scioperi a causa della lentezza con cui il management ha risposto alle richieste del sindacato. Si, lo sciopero del 2019 ha riportato i dirigenti delle università al tavolo negoziale. Ma con un mandato di soli sei mesi (scaduto il quale il sindacato deve organizzare un altro voto per poter proseguire la vertenza), il rischio di restare a metà del guado era troppo alto. La dirigenza di Ucu ha alzato molto il tiro, deliberando uno sciopero ancora più lungo di quello portato a termine nel 2019. Nel mezzo, tra metà dicembre e metà febbraio, il personale docente e amministrativo impegnato nella vertenza ha «lavorato a contratto» attenendosi scrupolosamente alle 37.5 ore lavorative previste nel contratto (35 ore in alcune università) e rifiutando di svolgere attività extra (tipo la partecipazione a incontri non previsti nei propri incarichi o deleghe amministrative).
Il sindacato, se non si fosse capito, fa sul serio. E quello che è straordinario, dal punto di vista di chi scrive, è che fino a questo momento sia una larghissima parte dei lavoratori e delle lavoratrici coinvolte che il corpo studentesco stanno rispondendo presente.
Nessuna di queste due cose era scontata. Se, dopo il successo del 2018, ci si poteva aspettare che docenti, lavoratori e lavoratrici fossero pronti a votare un nuovo sciopero e ritornare sulle picket lines, che i quattordici giorni annunciati a fine gennaio, dopo i pesanti otto giorni di novembre-dicembre, fossero accolti con tanto entusiasmo era tutto da dimostrare. Scioperare crea enormi problemi pratici e logistici a coloro che vi prendono parte. Mette sotto pressione le relazioni tra docenti e studenti, in un contesto accademico in cui il corpo studentesco non è minimamente politicizzato e ignora completamente le problematiche del settore; è potenziale fonte di grattacapi di natura economica, specialmente per persone impiegate con contratti part-time, a tempo determinato o pagati a ore, che si trovano a perdere giornate e giornate di paga, solo parzialmente coperte dal supporto dello striking fund del sindacato; espone lavoratori e lavoratrici provenienti da fuori l’Unione europea a odiose verifiche da parte del Ministero dell’Interno britannico, la cui aggressività è in costante aumento sotto la guida del duo Boris Johnson-Priti Patel.
Non sono mancate le eccezioni e le voci discordanti, ma fin da ora si può dire che la nuova ondata di proteste sta causando l’azione di rottura sperata. Non c’è migliore prova di questo fatto del susseguirsi di incontri tra il sindacato e i due governing bodies che rappresentano i rettori delle università su pensioni e condizioni lavorative. Su entrambi i fronti, la discussione è in corso e una soluzione pare essere a portata di mano. Per quanto riguarda le pensioni, Uuk (University UK, l’equivalente della nostra Conferenza dei Rettori) si sta progressivamente arrendendo all’impossibilità di mantenere le difese del comitato dirigente del fondo privato che gestisce le pensioni. Un comitato che ha ignorato le raccomandazioni giunte dal Joint Expert Panel nominato alla fine dello sciopero del 2018; ha allontanato dal proprio comitato di gestione una delle rappresentanti nominate dal sindacato, rea di aver denunciato quanto stava accadendo; e ha cercato di nascondere questo allontanamento. Di fronte a tutto ciò, la mossa delle università sembra precedere solo un probabile intervento in favore del sindacato dell’independent regulator che ha assistito la negoziazione finora.
Per quanto riguarda le condizioni lavorative, inizialmente le università si sono dimostrate d’accordo in termini di principio a lavorare su gender pay gap e precarietà, rifiutando invece di fare alcuna concessione salariale. Nel corso delle negoziazioni, il sindacato è riuscito a strappare impegni più concreti sui primi due punti – entrambi peraltro fonte di grande imbarazzo per le università in termini di public relation, secondo la logica da corporation tanto cara ai quadri dirigenti britannici – e ha dichiarato la sua disponibilità ad accettare un compromesso di aumento salariale al tre percento. La discussione è in corso….
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Così si scriveva, forse con un pizzico di ottimismo di troppo sullo stato di avanzamento della negoziazione, prima che il meteorite Covid-19 ci colpisse. Avevo buttato giù queste note rapidamente, di ritorno da una mattinata sulla picket line, con l’idea di rivederle, ampliarle e inviarle a Jacobin Italia a sciopero (e trattative, auspicavo) concluse. Quando le ho riprese in mano, tre settimane dopo, ho avuto la netta impressione che venissero da un’altra epoca.
Ancora all’inizio della quarta settimana di sciopero, nella prima metà di marzo, si andava sulla picket line senza troppe preoccupazioni. Già a metà di quella settimana, alcuni si chiedevano se non fosse il caso di fermare i picchetti per dare un segnale di responsabilità nei confronti della tutela della salute pubblica di tutti, mentre Boris Johnson blaterava in Tv di immunità di gregge e le università si accodavano all’approccio del governo al grido di «business as usual». Giovedì una lettera partita dalla Warwick University chiedeva a Ucu di prendere immediatamente posizione, a fronte di un silenzio da parte della dirigenza del sindacato che si stava facendo davvero un po’ problematico. Lo stesso giorno arrivava l’indicazione che le singole sezioni potevano decidere indipendentemente se continuare il picchetto venerdì oppure se annullarlo per precauzione. Nel week end, dopo un ulteriore peggioramento della situazione, svariate università decidevano di spostare in fretta e furia tutto l’insegnamento online. Quelle (molte, purtroppo) università che testardamente avevano preteso dal proprio staff di continuare ad andare a lavorare di persona dovevano gettare la spugna dopo pochi giorni. Nell’arco di quella settimana, i campus di tutto il paese si preparavano alla chiusura. Gli ultimi a lasciare il posto di lavoro, come spesso accade, gli amministrativi e gli erogatori di servizi fondamentali (pulizie, catering, servizi alberghieri), nel classico modo delle corporations di tenersi in piedi grazie al sacrificio dei lavoratori e delle lavoratrici più esposti di tutti.
Nell’ultima settimana di sciopero era circolata la voce di un nuovo voto alle porte. La dirigenza di Ucu aveva già comunicato l’intenzione di chiedere ai suoi membri un altro mandato da sei mesi per continuare le vertenze, nel caso in cui le negoziazioni si fossero concluse in un nulla di fatto. L’obiettivo all’orizzonte: il boicottaggio delle sessioni d’esame e delle lauree estive. Un ulteriore rilancio, per uno show off a quel punto davvero definitivo tra sindacato e dirigenza universitaria.
Quando ci ritroveremo dall’altra parte del lockdown, trovare il bandolo della matassa del conflitto sociale sarà un’operazione per analisti davvero bravi. Lo sciopero giungeva alla fine di un lungo periodo di scontro tra sindacati e management universitario, forte di un consenso tra il corpo docente e amministrativo costruito in anni di lavoro e sostenuto da una crescente consapevolezza nel corpo studentesco. In ballo c’era il destino dell’università pubblica britannica, sospesa tra definitiva corporativizzazione e ritorno a una funzione pubblica dal volto più umano per i propri lavoratori e studenti, in a una congiuntura cruciale per il paese giunta a maturazione dopo l’elezione di Johnson e la conclusione dei processi legati alla Brexit.
Tiriamo una linea, e ripartiamo da capo. Perché dopo tutto sarà diverso. Le università britanniche stanno già dando segnali di panico, preoccupate da un probabile buco finanziario che verrà causato dal mancato arrivo di migliaia di studenti asiatici a settembre. Procedure di assunzione vengono bloccate in fretta e furia, mentre dall’altra parte della barricata si prova a garantire chi rischia di rimanere senza lavoro nel bel mezzo di una crisi economica le cui proporzioni sono ancora del tutto incomprensibili. Ma poi? Una delle poche certezze che abbiamo è che chi prima della pandemia si opponeva a ogni concessione ai lavoratori e alle lavoratrici delle università userà questa situazione come scusa per bloccare tutto. Un vecchio trucco. E un inganno che non ci possiamo permettere. Ma i mutamenti di queste settimane produrranno cambiamenti di paradigma ben più profondi, che ora si fa davvero fatica a cogliere. In questo quadro, che ne sarà del potenziale di protesta generato dai ventidue giorni di scioperi dell’anno accademico 2019-20? Quando saremo fuori dall’occhio del ciclone della crisi sanitaria, questa sarà una delle prime domande da cui ripartire.
*Lorenzo Costaguta insegna storia degli Stati Uniti presso l’University of Birmingham (UK). Si occupa di pensiero razziale nella storia del movimento socialista statunitense ed europeo.
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