
Lo scudo umano, incubo del diritto
Il ruolo dei civili nelle guerre genera dilemmi e processi di legittimazione della violenza su una scala inimmaginabile: sino ai giorni nostri, come a Gaza e in Ucraina
Quando a fine Ottobre 2023, l’esercito israeliano stava portando avanti le preparazioni per dare l’assalto all’ospedale Al-Shifa di Gaza, i social media dell’esercito iniziarono a diffondere un video con un modello tridimensionale della struttura medica più grande della Palestina. Nel video, l’intera area sotto terra viene rappresentata come una base militare, come «il quartier generale di Hamas».
Senza mai fornire prove a sostegno dell’accusa che l’ospedale fosse diventato uno «scudo umano» composto da migliaia di pazienti e sfollati messi a protezione di attività militari, l’esercito israeliano sferrò un attacco devastante alla struttura ospedaliera. Le vittime civili palestinesi di quei bombardamenti vennero giustificate dai portavoce dell’esercito come danni collaterali inevitabili. Nei mesi successivi, l’intera infrastruttura ospedaliera palestinese a Gaza è stata sottoposta a un processo di obliterazione legittimato sistematicamente dell’esercito e dal governo israeliano utlizzando lo stesso argomento di Al-Shifa.
In Scudi umani. Una storia dei corpi sulla linea del fuoco, Neve Gordon e Nicola Perugini esplorano la genealogia di questo concetto politico e legale, facendo luce sulla nascita e sulle trasformazioni dello scudo umano, e sulle motivazioni che lo hanno messo al centro di molte delle guerre degli ultimi due decenni. Luigi Daniele, studioso del diritto dei conflitti armati e dei crimini internazionali, intervista uno dei due autori, Nicola Perugini.
Cosa vi ha spinti, dopo Il diritto umano di dominare, a lavorare su questa storia degli scudi umani?
Il diritto umano di dominare (nottetempo, 2016) si sviluppava attorno al processo storico, in particolare gli ultimi due decenni, attraverso cui le organizzazioni per i diritti umani liberali e gli Stati occidentali hanno reso possibile l’appropriazione del discorso dei diritti umani e di alcuni elementi del diritto internazionale tradizionalmente appannaggio della sinistra progressista da parte di forze reazionarie. Ad esempio, forme di violenza devastante come la cosiddetta «guerra al terrore» sono state giustificate con argomenti «femonazionalisti» che hanno trasformato i diritti umani in delle armi, argomentando la necessità di fare «la guerra per liberare le donne afgane».
Oppure, nel caso di Israele, è stato usato il discorso sui «diritti umani dei coloni» israeliani evacuati da Gaza nel 2005 da Ariel Sharon: un discorso che descrive la fine delle colonie ebraiche a Gaza come una pulizia etnica che avrebbe bisogno di una «compensazione storica» nella forma di un ritorno a Gaza anche con la forza per «riparare le violazioni dei diritti umani violati dei coloni». In fondo questa è la giustificazione che gran parte dell’attuale governo Netanyahu ha portato avanti mentre distruggeva Gaza dopo il 7 Ottobre 2023: stiamo riconquistando Gaza e ci impianteremo nuovi coloni per riparare il torto di Sharon, anche a costo di espellere due milioni di palestinesi. È la retorica di Smotrich e Ben Gvir.
Scudi umani nasce come una costola di quel progetto. Nel libro cerchiamo di capire come la figura dello scudo umano – una figura prevista dal diritto internazionale – abbia assunto molteplici funzioni politiche. Queste funzioni includono la giustificazione di forme di dominazione e violenza su larga scala. Dunque entrambi i libri si muovono dentro i paradossi della giustizia e dei loro usi politico-legali.
Quali sono gli snodi più significativi di questa storia dell’uso (e dei discorsi sull’uso) dei civili e dei loro corpi sulle linee di fuoco?
La storia che ricostruiamo è un pezzo di storia dei civili in guerra. In particolare la nostra analisi si focalizza su come la vulnerabilità dei civili abbia assunto molteplici funzioni etiche, legali e politiche nella storia bellica. I civili hanno a lungo partecipato ai conflitti, sia coercitivamente sia deliberatamente. Ma quello che succede nella seconda metà del diciannovesimo secolo è l’emergere di una nuova sensibilità nei confronti dei civili. In questo processo spesso definito di «umanizzazione» della guerra, con cui si intende lo svilupparsi di un crescente valore della figura del civile in guerra, si genera tensione tra diverse forze politiche: gli Stati che conducono guerre con tecnologie sempre più letali che non discriminano tra civili e combattenti; i popoli in rivolta alla ricerca dell’autodeterminazione nazionale; e la nascita di un nuovo ordine internazionale.
Questo processo ha progressivamente portato alle Convenzioni di Ginevra del 1949 e ai Protocolli Aggiuntivi del 1977. All’interno di questo processo, il civile assume progressivamente valore, in mezzo a guerre di occupazione e spesso di sterminio (in particolare le guerre mondiali e le guerre coloniali). Nel libro analizziamo queste trasformazioni del diritto attraverso la figura dello scudo umano: il civile che si frappone tra due parti in guerra, che diventa scudo per l’appunto, volontariamente o coercitivamente. Questa figura è uno degli incubi del diritto, in grado di generare dilemmi e processi di legittimazione della violenza su una scala inimmaginabile sino ai giorni nostri.
Cosa intendete per «civile passivo» quando discutete la codificazione delle protezioni dei civili in tempo di guerra (le quattro convenzioni di Ginevra del 1949 e dei loro protocolli addizionali del 1977)?
Quello che cerchiamo di dimostrare è che il modo in cui il diritto definisce i civili – ossia soggetti che per rimanere completamente protetti devono rimanere passivi – si intreccia in maniera complessa con gli scudi umani. Quest’ultimi, in quanto civili, vengono istituzionalizzati progressivamente come corpi inermi posti sulla linea del fuoco per proteggere illegalmente attacchi e operazioni militari. Mi riferisco agli scudi umani involontari, ad esempio la popolazione belga usata come scudo dai tedeschi nel primo conflitto mondiale per sconfiggere la guerra partigiana belga.
Esiste poi un secondo tipo di scudo umano, che non corrisponde a questa idea di civile passivo. È la figura dello scudo umano volontario, di corpi mossi da ideologie pacifiste che decidono deliberatamente e attivamente di proteggere obiettivi di attacchi militari. Gli esempi vanno dalle suffragette che sognavano di interporsi tra gli eserciti nazionali alla vigilia del Secondo conflitto mondiale, ai cinquecento scudi umani di diversa nazionalità che partirono per l’Iraq per fermare la seconda guerra del Golfo.
Con le Convenzioni di Ginevra del 1949, da un lato il diritto garantisce una protezione al «civile passivo», incluse le situazioni in cui i civili vengono usati coercitivamente come scudi umani. Dall’altro garantisce agli eserciti occupanti la possibilità di colpire aree in cui i combattenti nemici si difendono, o vengono accusati di difendersi, nascondendosi dietro ai civili passivi o a infrastrutture civili usate come scudi. Qui emerge una terza figura di scudo umano, uno «scudo umano per prossimità» per così dire.
Il diritto ovviamente non consente di attaccare un’intera popolazione dopo averla definita arbitrariamente scudo umano. Sarebbe un ritorno alla guerra totale, senza regole. Però il diritto crea, attraverso la figura del «civile passivo», uno spazio che viene appropriato dagli eserciti che attaccano i civili su larga scala e che poi dicono: «abbiamo preso tutte le precauzioni possibili, ci dispiace ma è il nostro nemico che rende i civili parte del conflitto operando in prossimità di strutture, aree e persone civili protette. Dunque le morti che abbiamo causato sono responsabilità del nemico». Il civile passivo diventa il civile uccidibile senza violare la legge.
Questa retorica era stata usata già prima delle Convenzioni del 1949, per esempio dall’esercito fascista italiano nella guerra coloniale in Etiopia nel 1935-36 per giustificare gli attacchi contro la resistenza etiope e contro la Croce Rossa Internazionale. Poi, dopo le Convenzioni, questa retorica ci ha accompagnati nel dopoguerra, nelle guerre di decolonizzazione, nei conflitti anti-imperialisti, nella guerra israeliana in Libano nel 1982, nelle guerre balcaniche, in Sri Lanka, nella «guerra al terrore», sino alle guerre più recenti degli ultimi due o tre anni.
Le protezioni giuridiche dei civili dagli attacchi, tuttavia, rimangono inalterate, a meno che essi non prendano parte direttamente alle ostilità. Insomma, per il diritto lo scudo umano non smette di essere un civile protetto.
Certo, i civili rimangono civili. Ma quando vengono trasformati o definiti da una delle parti in conflitto come scudi umani diventano «civili a metà»: civili la cui protezione viene erosa da discorsi e forze politiche più ampie. Qui il diritto non può essere concepito come un laboratorio chiuso in cui la protezione dei civili esiste in quanto valore assoluto. Il diritto viene sempre appropriato e utilizzato dentro a rapporti di potere politico e a gerarchie internazionali. Nelle guerre anti-imperialiste e anti-coloniali intere popolazioni si difendono in quanto popoli, con forme di resistenza in cui risulta difficile tracciare un confine tra civili e combattenti con un righello.
Le pratiche in cui civili e combattenti si mischiano e uniscono nascono dalle condizioni di asimmetria militare in cui si sviluppano le guerre anticoloniali, ma soprattutto nascono da un ethos politico come quello delle guerre di popolo, in cui i civili escono dalla loro passività e si costituiscono in un corpo unico con i combattenti. Queste pratiche trasgrediscono l’idea di civile passivo e la loro forza politica non può essere contenuta nel diritto.
In Vietnam, l’esercito statunitense trasformò la figura dello scudo umano in uno strumento di delegittimazione della guerra anti-imperialista come guerra di popolo. Lo scudo umano diventò una figura comunista. I Viet Cong furono accusati di nascondere deliberatamente e strategicamente i propri combattenti (i propri pesci), in «un mare di civili», per riprendere la metafora maoista della guerra di popolo.
In Vietnam il diritto internazionale fu usato dagli Stati uniti per «squalificare» il diritto all’autodeterminazione e i mezzi di lotta di popolo e di lotta partigiana – una lotta che non può confinare il civile al ruolo passivo che gli riserva il diritto internazionale. Così torna lo spettro del diritto che si fa strumento di contro-insurrezione coloniale e imperiale, trasformando milioni di civili in «scudi umani illegali», in civili passivi costretti sulla linea del fuoco dai combattenti irregolari.
I Protocolli Aggiuntivi alle Convenzioni di Ginevra del 1977 risentono di queste tensioni e sono una risposta alle guerre di decolonizzazione e alle guerre contro l’imperialismo. Essi da un lato sanciscono la legittimità delle lotte anti-coloniali e anti-imperiali, istituzionalizzando il diritto all’uso della violenza armata contro regimi coloniali, imperialisti e razzisti come strumento di liberazione. Questa senza dubbio costituisce una conquista epocale che i Protocolli trasformano in diritto umanitario internazionale. Ma dall’altro lato rafforzano l’idea del civile che per essere protetto deve rimanere passivo. In questo modo i Protocolli condannano all’illegalità molti dei metodi a cui sono costretti i popoli occupati e colonizzati, svuotando questi metodi della loro forza di liberazione, e classificandoli come pratiche illegali di uso dei civili come scudi umani.
Negli ultimi anni l’accusa di utilizzo di scudi umani è stata mossa ripetutamente dalla Russia contro l’esercito ucraino, per lo più all’indomani di attacchi contro strutture civili e stragi di civili. In che modo sono state inquadrate nel dibattito occidentale?
Certamente l’accusa di usare civili come scudi umani per condonare massacri di civili è stata usata dalla Russia in Ucraina. Ma questo fa parte di un processo molto più diffuso di uso dell’accusa, ad esempio da parte degli Stati uniti in Afghanistan e in Iraq, ma anche da parte della Russia in Siria, oppure da parte dell’Arabia saudita in Yemen. Quello che cerchiamo di fare nel libro è di offrire strumenti per capire per quale ragione le accuse mosse dai russi agli ucraini per giustificare i propri crimini e i bombardamenti agli ospedali non vengono (giustamente) credute o rilanciate nel dibattito politico internazionale; mentre quando le stesse accuse vengono mosse dagli eserciti occidentali e dai loro alleati contro nemici non occidentali per giustificare la distruzione di scuole, ospedali e infrastrutture civili, queste accuse diventano «verità».
Dietro a molte delle discussioni sugli scudi umani si cela in fondo il vecchio mantra delle forze liberali e filo-liberali «pulite» contro gli eserciti «sporchi».
Ancor più che in Ucraina, non c’è stata un solo massacro aereo di civili a Gaza in cui Governo ed esercito israeliani non abbiano accusato i gruppi armati palestinesi di essere i veri (o addirittura i soli) responsabili, a causa del «sistematico utilizzo» di scudi umani. In Italia qualcuno ha addirittura affermato che «tutto il popolo palestinese» fosse stato trasformato in un «gigantesco scudo umano». Ci sono precedenti di usi così indiscriminati del concetto, addirittura a designare interi popoli? Gaza marca quindi una continuità o un balzo in avanti del discorso sugli scudi umani?
Nella storia quasi niente è nuovo. Non ci sono origini ma solo processi, ritorni, riarticolazioni. Sartre nel 1968 scrisse un articolo sul Vietnam e sulle contro-insurrezioni coloniali intitolato Sul genocidio. In maniera abbastanza convincente Sartre spiegava, con argomenti sicuramente influenzati da Frantz Fanon, e con idee molto comuni a tutti i pensatori anti-coloniali e anti-imperialisti (penso a Eqbal Ahmad), che le controinsurrezioni che cercano di contrastare le guerre di liberazione nazionale finiscono dritte nella trasformazione di tutta la popolazione in obiettivo militare, quindi in forme di guerra di annichilimento. Lo spettro che si aggirava in quelle conversazioni era lo spettro della «popolazione scudo», del mare che protegge i pesci che combattono.
Quello spettro di fine anni Sessanta si è rifatto vivo con forza a Gaza, dove l’intero popolo, come giustamente dicevi, è stato rappresentato dall’esercito israeliano e anche dalla nostra stampa, in maniera a-critica, come un «popolo scudo». In questo modo non solo il civile è diventato un civile a metà, ma si è entrati nella logica di una guerra senza civili: la logica del genocidio, in cui, per citare il Presidente di Israele Isaac Herzog, è una «intera popolazione che è responsabile». Questo è certamente un balzo in avanti dentro l’abisso. A Gaza siamo davanti all’uso della figura dello scudo umano per giustificare una guerra di distruzione totale mirata a espellere l’intera popolazione palestinese. Scudo umano e genocidio si sono saldati.
È apparsa di recente una lunga recensione al vostro lavoro su uno dei principali quotidiani italiani, in cui traspariva un certo apprezzamento. Come mai, secondo voi, l’autore si è fermato agli sviluppi della Seconda Guerra mondiale, mentre tre quarti del vostro lavoro vanno dalle guerre anticoloniali ai giorni nostri?
Mi fa molto piacere che Paolo Mieli abbia ritenuto il libro degno di interesse per uno spazio spesso conservatore-moderato come quello del Corriere della sera. Detto questo nella seconda parte del libro risiede forse il motivo per cui l’abbiamo scritto, perché pone ai lettori una questione fondamentale, vale a dire il rifiuto liberale di affrontare come dietro alla figura dello scudo umano si annidino rapporti di forza e potere internazionale. Lo scudo umano è un’arma che gli Stati e le potenze che hanno dominato l’ordine politico internazionale dopo la Seconda guerra mondiale hanno usato per condonare le più gravi violazioni del diritto internazionale e spesso per minare il diritto all’autodeterminazione dei popoli.
*Luigi Daniele insegna diritto dei conflitti armati e diritto internazionale penale alla Nottingham Law School, Nottingham Trent University. È autore di Indiscriminate and Disproportionate Attacks in Internaitonal Law (Hart Publishing, 2025). Nicola Perugini, antropologo, insegna relazioni internazionali all’Università di Edimburgo. È autore de Il diritto umano di dominare (nottetempo, 2016), Morbid Symptoms (Sharjah Biennial 13, 2017), e Scudi umani. Una storia dei corpi sulla linea del fuoco (Laterza 2025).
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